La Consulta sull’autotutela tributaria (Corte Cost. 181/2017)
SENTENZA N. 181
ANNO 2017
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Paolo GROSSI; Giudici : Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 2-quater, comma 1, del decreto-legge 30 settembre 1994, n. 564 (Disposizioni urgenti in materia fiscale), convertito, con modificazioni, dalla legge 30 novembre 1994, n. 656, e dell’art. 19, comma 1, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), promosso dalla Commissione tributaria provinciale di Chieti nel procedimento vertente tra C. C. e l’Agenzia delle entrate, direzione provinciale di Chieti ed altra, con ordinanza del 1° luglio 2016, iscritta al n. 240 del registro ordinanze 2016 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 48, prima serie speciale, dell’anno 2016.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 21 giugno 2017 il Giudice relatore Daria de Pretis.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 1° luglio 2016, la Commissione tributaria provinciale di Chieti ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 2-quater, comma 1, del decreto-legge 30 settembre 1994, n. 564 (Disposizioni urgenti in materia fiscale), convertito, con modificazioni, dalla legge 30 novembre 1994, n. 656, e dell’art. 19, comma 1, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413).
La prima disposizione stabilisce che «[c]on decreti del Ministro delle finanze sono indicati gli organi dell’Amministrazione finanziaria competenti per l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio o di revoca, anche in pendenza di giudizio o in caso di non impugnabilità, degli atti illegittimi o infondati […]». La seconda elenca gli atti impugnabili davanti alle commissioni tributarie.
Il giudice a quo riferisce che le questioni sono state sollevate nell’ambito di un processo instaurato da un contribuente contro il «silenzio-rifiuto formatosi sull’istanza di autotutela» (presentata il 14 febbraio 2013) avente ad oggetto il riesame degli avvisi di accertamento – non impugnati in sede giudiziaria – con cui, in relazione agli anni 2008 e 2009, erano stati rettificati in aumento i redditi professionali da lui dichiarati.
Il rimettente afferma innanzitutto la propria giurisdizione sulla controversia in questione, richiamando un orientamento della Corte di cassazione secondo il quale apparterrebbero alla giurisdizione tributaria le controversie «nelle quali si impugni il rifiuto espresso o tacito dell’amministrazione a procedere ad autotutela», alla luce dell’art. 12, comma 2, della legge 28 dicembre 2001, n. 448, recante «Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (legge finanziaria 2002)», che avrebbe attribuito carattere generale alla giurisdizione tributaria. Il giudice a quo riferisce anche che la Cassazione ha precisato che «questione altra o diversa da quella di giurisdizione, e di competenza, appunto del giudice tributario, è stabilire se il rifiuto di autotutela sia o meno impugnabile».
Su quest’ultimo punto la Cassazione avrebbe statuito, riferisce il giudice a quo, che non esiste un obbligo di pronuncia esplicita dell’Amministrazione finanziaria sull’istanza di autotutela e che l’omissione di pronuncia sarebbe inoppugnabile, «non potendosi configurare un silenzio-rifiuto tacito o implicito ricorribile in sede giurisdizionale».
Secondo il rimettente, tale lacuna di tutela giurisdizionale si porrebbe in contrasto con gli articoli 3, 23, 24, 53, 97 e 113 della Costituzione.
Sulla rilevanza della questione, il giudice a quo osserva che, nel caso di specie, gli avvisi di accertamento «sono scaturiti da presunzioni legali relative ex art. 32 del D.P.R. 600/1973 concernenti l’esito delle indagini finanziarie che hanno avuto ad oggetto esclusivamente i prelevamenti ed i versamenti dai conti bancari», e che «il quantum presuntivamente accertato sulla scorta dei prelevamenti è palesemente illegittimo e contra ius, per effetto della sentenza n. 228/2014 della Corte costituzionale» con cui è stata dichiarata «l’illegittimità costituzionale [parziale] dell’art. 32, comma 1, numero 2), secondo periodo, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602». Il rimettente precisa poi che, «peraltro, nella fattispecie in esame l’oggetto del sospetto di costituzionalità è limitato all’ammissibilità del silenzio rifiuto tacito o implicito – ovvero alla doverosa, da parte della p.a., adozione di un atto espresso – ed alla sua impugnabilità in sede giurisdizionale».
Quanto alla non manifesta infondatezza, il giudice a quo denuncia, in primo luogo, «[i]l contrasto con gli articoli 53 e 23 della Costituzione, anche in relazione all’art. 3 della Costituzione», ossia la «[l]esione del principio della capacità contributiva e del principio di ragionevolezza». La capacità contributiva rappresenterebbe un «principio fondamentale dell’ordinamento costituzionale», da bilanciare con l’interesse fiscale dello Stato in base al criterio di ragionevolezza. Non sarebbe «concepibile un interesse egoistico del Fisco a conservare atti impositivi, ancorché divenuti definitivi, palesemente illegittimi al fine di trarne un profitto sostanzialmente ingiustificato e del tutto svincolato dalla capacità contributiva del contribuente». L’«assoggettamento del contribuente, privo di mezzi di tutela, ad una ingiusta ed illegittima imposizione» si tradurrebbe dunque nella violazione degli articoli 53, 23 e 3 Cost.
Il giudice a quo lamenta poi la violazione «del diritto di azione in giudizio e del principio della tutela giurisdizionale dei diritti e degli interessi legittimi». Ribadisce che la Cassazione «ha ritenuto insussistente l’obbligo di pronuncia esplicita dell’A.F. sull’istanza di autotutela proposta dal contribuente, ed inoppugnabile la medesima omissione di pronuncia, non potendosi configurare un silenzio-rifiuto tacito o implicito ricorribile in sede giurisdizionale». Sarebbe dunque «palese il vuoto di tutela giurisdizionale del contribuente sottoposto ad un’imposizione fiscale ingiustificata e lesiva della capacità contributiva del medesimo», con conseguente violazione degli articoli 24 e 113 Cost., dato che il citato art. 2-quater, comma 1, del d.l. n. 564 del 1994 attribuirebbe al contribuente «una posizione giuridica soggettiva avente consistenza di diritto soggettivo o quanto meno di interesse legittimo».
In terzo luogo, il rimettente denuncia la «[l]esione dei principi di imparzialità e di buon andamento della pubblica amministrazione» (art. 97 Cost.). Tali principi rappresenterebbero «il vero fondamento dei poteri di autoannullamento dell’amministrazione finanziaria, specie su atti divenuti definitivi per mancata impugnazione», e non sarebbe conforme a essi «un quadro normativo che consenta all’Amministrazione Finanziaria di rimanere inerte sull’istanza sollecitatoria dell’esercizio dell’autotutela».
Il giudice a quo osserva anche che non è preclusiva la circostanza che gli avvisi di accertamento (oggetto dell’istanza di autotutela) concretino “rapporti esauriti” in relazione alla dichiarazione di illegittimità costituzionale contenuta nella sentenza n. 228 del 2014, in quanto l’esercizio dell’autotutela tributaria «concerne, e può ovviamente avere ad oggetto, anche un atto impositivo inoppugnabile – per non essere stato gravato in sede giurisdizionale – palesemente illegittimo». Anzi, per il rimettente sarebbe «da tenersi in debita considerazione, ai fini dell’autotutela tributaria», l’annullamento delle norme in applicazione delle quali siano state riscosse somme a titolo d’imposta.
Il giudice a quo individua le norme sospettate di illegittimità costituzionale nell’art. 2-quater, del d.l. n. 564 del 1994, che regola l’autotutela tributaria, e nell’art. 19 del d.lgs. n. 546 del 1992, che indica gli atti impugnabili davanti alle commissioni tributarie, menzionando, fra gli altri, il rifiuto tacito della restituzione di tributi ma non il rifiuto tacito di autotutela, e precisando che «[g]li atti diversi da quelli indicati non sono impugnabili autonomamente».
In conclusione, la Commissione tributaria dubita della legittimità costituzionale dell’art. 2-quater, comma 1, del d.l. n. 564 del 1994, «nella parte in cui non prevede né l’obbligo dell’Amministrazione finanziaria di adottare un provvedimento amministrativo espresso sull’istanza di autotutela proposta dal contribuente né l’impugnabilità – da parte di questi – del silenzio tacito su tale istanza», e dell’art. 19, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, «nella parte in cui non prevede l’impugnabilità, da parte del contribuente, del rifiuto tacito dell’Amministrazione finanziaria sull’istanza di autotutela proposta dal medesimo». Vengono invocati tutti i parametri sopra menzionati ma la questione relativa all’art. 97 Cost. riguarda solo l’art. 2-quater, comma 1, del d.l. n. 564 del 1994.
2.– Nel giudizio di legittimità costituzionale è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, con atto depositato il 20 dicembre 2016.
L’interveniente osserva che il giudice contesta in sostanza «proprio il fatto che l’Amministrazione abbia la facoltà, e non l’obbligo, di eliminare in tutto o in parte propri provvedimenti che siano palesemente illegittimi», facoltà risultante dalle norme disciplinanti l’autotutela, cioè dall’art. 2-quater del d.l. n. 564 del 1994 e dagli artt. 2 e 3 del decreto ministeriale 11 febbraio 1997, n. 37 (Regolamento recante norme relative all’esercizio del potere di autotutela da parte degli organi dell’Amministrazione finanziaria). Tale scelta legislativa deriverebbe dalla «necessità di contemperare diversi interessi»: quello «pubblico all’acquisizione delle entrate», quello alla «stabilità dei rapporti giuridici» e quello «dei contribuenti a non dover corrispondere imposte in misura superiore alla loro capacità contributiva». Se l’esercizio dell’autotutela costituisse un obbligo anche in relazione ad atti impositivi divenuti definitivi, «verrebbe ad essere compromesso il principio della certezza del diritto, che esige l’osservanza di termini di decadenza sia per l’esercizio del potere impositivo da parte degli uffici finanziari, sia per l’accesso alla tutela giurisdizionale da parte del contribuente».
La difesa statale sottolinea che, nel caso di specie, a fronte di atti impositivi notificati il 31 luglio 2012, il contribuente non ha intrapreso alcuna azione giurisdizionale e ha presentato istanza di autotutela solo il 14 luglio 2013, per poi dolersi della mancata risposta dell’amministrazione con ricorso promosso il 19 giugno 2015. Sarebbe dunque «irragionevole, oltre che contrario ai principi della certezza del diritto, riconoscere al contribuente un diritto all’annullamento di pretese fiscali, a fronte di atti ormai consolidati e inoppugnabili».
Le disposizioni censurate, come interpretate dalla Cassazione, coniugherebbero dunque ragionevolmente «diverse esigenze, quali la certezza e stabilità dei rapporti giuridici, il diritto di difesa del contribuente, la pronta riscossione dei debiti fiscali, il buon andamento della pubblica Amministrazione e la deflazione del contenzioso».
Considerato in diritto
1.– La Commissione tributaria provinciale di Chieti dubita della legittimità costituzionale dell’art. 2-quater, comma 1, del decreto-legge 30 settembre 1994, n. 564 (Disposizioni urgenti in materia fiscale), convertito, con modificazioni, dalla legge 30 novembre 1994, n. 656, e dell’art. 19, comma 1, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413).
La prima disposizione stabilisce che «[c]on decreti del Ministro delle finanze sono indicati gli organi dell’Amministrazione finanziaria competenti per l’esercizio del potere di annullamento d’ufficio o di revoca, anche in pendenza di giudizio o in caso di non impugnabilità, degli atti illegittimi o infondati […]». Essa è censurata «nella parte in cui non prevede né l’obbligo dell’Amministrazione finanziaria di adottare un provvedimento amministrativo espresso sull’istanza di autotutela proposta dal contribuente né l’impugnabilità – da parte di questi – del silenzio tacito su tale istanza».
L’art. 19, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, elenca gli atti impugnabili davanti alle commissioni tributarie ed è a sua volta censurato «nella parte in cui non prevede l’impugnabilità, da parte del contribuente, del rifiuto tacito dell’Amministrazione finanziaria sull’istanza di autotutela proposta dal medesimo».
Ad avviso della rimettente, tali lacune si porrebbero in contrasto con gli articoli 3, 23, 24, 53, 97 e 113 della Costituzione. Sarebbero infatti violati i principi della capacità contributiva e di ragionevolezza (artt. 3 e 53 Cost.), in quanto non sarebbe «concepibile un interesse egoistico del Fisco a conservare atti impositivi, ancorché divenuti definitivi, palesemente illegittimi al fine di trarne un profitto sostanzialmente ingiustificato e del tutto svincolato dalla capacità contributiva del contribuente». Nessun argomento è svolto in relazione all’art. 23 Cost. Sarebbero poi violati gli artt. 24 e 113 Cost. in quanto sarebbe «palese il vuoto di tutela giurisdizionale del contribuente sottoposto ad un’imposizione fiscale ingiustificata e lesiva della capacita contributiva del medesimo». Infine, sarebbero violati i principi di imparzialità e di buon andamento della pubblica amministrazione (art. 97 Cost.), perché non sarebbe conforme ad essi «un quadro normativo che consenta all’Amministrazione Finanziaria di rimanere inerte sull’istanza sollecitatoria dell’esercizio dell’autotutela».
2.– Prima di esaminare le questioni sollevate dal giudice a quo, è opportuno soffermarsi brevemente sull’istituto dell’autotutela tributaria, oggetto del presente giudizio.
L’annullamento d’ufficio degli atti dell’amministrazione finanziaria ha trovato il suo primo fondamento legislativo generale espresso nell’art. 68, comma 1, del decreto del Presidente della Repubblica 27 marzo 1992, n. 287 (Regolamento degli uffici e del personale del Ministero delle finanze). A questa disposizione hanno fatto seguito il censurato art. 2-quater del d.l. n. 564 del 1994, che detta, fra le altre, regole sull’individuazione degli organi competenti all’autotutela, sulla definizione dei criteri per il suo esercizio (commi 1, 1-bis e 1-ter) e sulle ipotesi di annullamento o revoca parziali (commi 1-sexies, 1-septies e 1-octies), e il decreto ministeriale 11 febbraio 1997, n. 37 (Regolamento recante norme relative all’esercizio del potere di autotutela da parte degli organi dell’Amministrazione finanziaria). Ulteriori disposizioni concernenti l’autotutela sono dettate dalla legge 27 luglio 2000, n. 212, recante «Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente» (d’ora in avanti: statuto del contribuente), che, all’art. 7, comma 2, lettera b), prescrive che, negli atti dell’amministrazione finanziaria, sia indicata l’autorità presso la quale è possibile promuovere la loro revisione in sede di autotutela, e che, all’art. 13, comma 6, affida al Garante del contribuente il compito di attivare le procedure di autotutela nei confronti degli atti di accertamento e di riscossione notificati al contribuente.
Nella disciplina legislativa e regolamentare dell’autotutela tributaria è previsto, in particolare, che l’amministrazione finanziaria può annullare d’ufficio i propri atti illegittimi o infondati anche in pendenza di giudizio e anche se si tratta di atti non impugnabili (art. 2-quater, comma 1, del d.l. n. 564 del 1994), e che, in caso di «grave inerzia» dell’ufficio che ha adottato l’atto illegittimo, può intervenire «in via sostitutiva [la] Direzione regionale o compartimentale dalla quale l’ufficio stesso dipende» (art. 1 del d.m. n. 37 del 1997). Il citato regolamento del 1997 individua inoltre espressamente alcuni casi in cui l’amministrazione finanziaria può procedere all’annullamento d’ufficio «senza necessità di istanza di parte» (art. 2) e dispone che nell’esercizio dell’autotutela «è data priorità alle fattispecie di rilevante interesse generale e, fra queste ultime, a quelle per le quali sia in atto o vi sia il rischio di un vasto contenzioso» (art. 3).
L’autotutela tributaria conosce dunque una disciplina articolata e specifica, distinta da quella dell’autotutela amministrativa generale, la quale, si può ricordare, benché oggetto di una lunga e risalente elaborazione dottrinale e giurisprudenziale, è stata prevista legislativamente solo nel 2005 (ad opera della legge 11 febbraio 2005, n. 15, recante «Modifiche ed integrazioni alla legge 7 agosto 1990, n. 241, concernenti norme generali sull’azione amministrativa»), con l’introduzione dell’art. 21-nonies nella legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi).
In ogni caso, secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione, l’autotutela tributaria – che non si discosta, in questo essenziale aspetto, dall’autotutela nel diritto amministrativo generale – costituisce un potere esercitabile d’ufficio da parte delle Agenzie fiscali sulla base di valutazioni largamente discrezionali, e non uno strumento di protezione del contribuente (ex multis, Corte di cassazione, sezione tributaria, sentenza 15 aprile 2016, n. 7511; Corte di cassazione, sezione tributaria, sentenza 20 novembre 2015, n. 23765; Corte di cassazione, sezione tributaria, sentenza 12 novembre 2014, n. 24058; Corte di cassazione, sezione tributaria, sentenza 30 giugno 2010, n. 15451; Corte di cassazione, sezione tributaria, sentenza 12 maggio 2010, n. 11457; Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 9 luglio 2009, n. 16097; Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 27 marzo 2007, n. 7388; Corte di cassazione, sezione quinta civile, sentenza 5 febbraio 2002, n. 1547; Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 4 ottobre 1996, n. 8685). Il privato può naturalmente sollecitarne l’esercizio, segnalando l’illegittimità degli atti impositivi, ma la segnalazione non trasforma il procedimento officioso e discrezionale in un procedimento ad istanza di parte da concludere con un provvedimento espresso.
Sul carattere non doveroso dell’autotutela tributaria, la ricostruzione della giurisprudenza della Cassazione fornita dal rimettente è dunque corretta: non esiste un dovere dell’amministrazione di pronunciarsi sull’istanza di autotutela e, mancando tale dovere, il silenzio su di essa non equivale ad inadempimento, né, d’altro canto, il silenzio stesso può essere considerato un diniego, in assenza di una norma specifica che così lo qualifichi giuridicamente (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 27 marzo 2007, n. 7388; Corte di cassazione, sezione quinta civile, sentenza 9 ottobre 2000, n. 13412), con la conseguenza che il silenzio dell’amministrazione finanziaria sull’istanza di autotutela non è contestabile davanti ad alcun giudice.
Si tratta allora di verificare se tale situazione determini un «vuoto di tutela» costituzionalmente illegittimo, come lamentato dal giudice a quo.
3.– Come visto, il rimettente censura l’art. 2-quater, comma 1, del d.l. n. 564 del 1994 e l’art. 19, comma 1, del d.lgs. n. 546 del 1992, perché consentono all’amministrazione di mantenere in vita atti impositivi «palesemente illegittimi», che portano a essa «un profitto sostanzialmente ingiustificato e del tutto svincolato dalla capacità contributiva del contribuente», e di «rimanere inerte sull’istanza» di autotutela in ipotesi presentata dal destinatario interessato, con la conseguenza che per quest’ultimo è impossibile contestare il silenzio.
Le censure si fondano sull’idea che l’autotutela costituisca un rimedio di carattere sostanzialmente giustiziale, in quanto tale idoneo a formare oggetto di una pretesa azionabile in sede giurisdizionale, e hanno l’obiettivo di renderne la disciplina coerente con tale funzione, operando una “mutazione genetica” dell’annullamento d’ufficio, da strumento di rivalutazione da parte dell’amministrazione delle proprie decisioni, a strumento di protezione delle aspettative del privato, in modo non dissimile da quanto avviene nel caso dell’annullamento su ricorso.
A differenza di quest’ultimo, tuttavia, l’annullamento d’ufficio non ha funzione giustiziale, costituisce espressione di amministrazione attiva e comporta di regola valutazioni discrezionali, non esaurendosi il potere dell’autorità che lo adotta unicamente nella verifica della legittimità dell’atto e nel suo doveroso annullamento se ne riscontra l’illegittimità.
Certamente, l’apprezzamento discrezionale operato in sede di autotutela tributaria presenta tratti particolari per la forza che assume, nel suo contesto, l’interesse pubblico alla corretta esazione dei tributi. L’annullamento d’ufficio di atti inoppugnabili per vizi “sostanziali”, cioè che hanno condotto l’amministrazione a percepire somme non dovute, tende infatti a soddisfare ipso jure l’interesse pubblico alla corretta esazione dei tributi, che si può considerare una sintesi tra l’interesse fiscale dello Stato-comunità e il principio della capacità contributiva, tutelati dall’art. 53, primo comma, Cost. Queste peculiarità contribuiscono a spiegare anche taluni aspetti della disciplina positiva dell’autotutela tributaria, come ad esempio il compito assegnato al Garante del contribuente di attivare le procedure di autotutela nei confronti degli atti di accertamento e di riscossione notificati al contribuente (art. 13, comma 6, dello Statuto del contribuente) o la possibilità di intervento in via sostitutiva della Direzione regionale o compartimentale in caso di «grave inerzia» dell’ufficio che ha adottato l’atto illegittimo (art. 1 del d.m. n. 37 del 1997).
Anche in un contesto così caratterizzato, tuttavia, nel quale l’interesse pubblico alla rimozione dell’atto acquista specifica valenza e tende in una certa misura a convergere con quello del contribuente, non va trascurato il fatto che altri interessi possono e devono concorrere nella valutazione amministrativa, e fra essi certamente quello alla stabilità dei rapporti giuridici di diritto pubblico, inevitabilmente compromessa dall’annullamento di un atto inoppugnabile. Tale interesse richiede di essere bilanciato con gli interessi descritti – e con altri eventualmente emergenti nella vicenda concreta sulla quale l’amministrazione tributaria è chiamata a provvedere – secondo il meccanismo proprio della valutazione comparativa. Sicché si conferma in ogni caso, anche in ambito tributario, la natura pienamente discrezionale dell’annullamento d’ufficio.
Questa configurazione dell’autotutela tributaria emerge del resto chiaramente dalla giurisprudenza della Corte di cassazione, che afferma il carattere discrezionale dell’autoannullamento tributario e, come visto, sottolinea che esso «non costituisce un mezzo di tutela del contribuente» (Corte di cassazione, sezione tributaria, sentenza 20 febbraio 2015, n. 3442, Corte di cassazione, sezione quinta civile, sentenza 24 maggio 2013, n. 12930, Corte di cassazione, sezione quinta civile, sentenza 29 dicembre 2010, n. 26313; Corte di cassazione, sezione tributaria, sentenza 30 giugno 2010, n. 15451, Corte di cassazione, sezione tributaria, sentenza 12 maggio 2010, n. 11457, Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 9 luglio 2009, n. 16097).
4.– Passando all’esame dei parametri invocati dal rimettente, la questione relativa agli artt. 3, 23 e 53 Cost. non è fondata.
Il giudice a quo censura la possibilità per l’amministrazione di respingere “silenziosamente” l’istanza di autotutela e afferma l’irragionevolezza del bilanciamento – realizzato dal legislatore – tra interesse fiscale dello Stato e capacità contributiva.
Prescindendo dalla questione dei limiti di applicabilità, in questa sede, del principio di capacità contributiva, occorre osservare che, nel valutare la ragionevolezza della disciplina legislativa dell’autotutela tributaria, il rimettente non considera l’interesse pubblico alla certezza dei rapporti giuridici. Se questa Corte affermasse il dovere dell’amministrazione tributaria di pronunciarsi sull’istanza di autotutela, aprirebbe la porta (ammettendo l’esperibilità dell’azione contro il silenzio, con la conseguente affermazione del dovere dell’amministrazione di provvedere e l’eventuale impugnabilità dell’esito del procedimento che ne deriva) alla possibile messa in discussione dell’obbligo tributario consolidato a seguito dell’atto impositivo definitivo. L’autotutela finirebbe quindi per offrire una generalizzata “seconda possibilità” di tutela, dopo la scadenza dei termini per il ricorso contro lo stesso atto impositivo.
Affermare il dovere dell’amministrazione di rispondere all’istanza di autotutela significherebbe, in altri termini, creare una nuova situazione giuridicamente protetta del contribuente, per giunta azionabile sine die dall’interessato, il quale potrebbe riattivare in ogni momento il circuito giurisdizionale, superando il principio della definitività del provvedimento amministrativo e della correlata stabilità della regolazione del rapporto che ne costituisce oggetto.
Sulla scia della tradizionale configurazione dell’autotutela amministrativa, le norme censurate – e più in generale la disciplina legislativa dell’annullamento d’ufficio tributario – operano dunque un bilanciamento non irragionevole tra l’interesse pubblico alla corretta esazione dei tributi e l’interesse alla stabilità dei rapporti giuridici di diritto pubblico (su cui recentemente sentenza n. 94 del 2017), che sarebbe inevitabilmente sacrificato da una scelta legislativa che imponesse all’amministrazione di pronunciarsi sull’istanza di autotutela del contribuente. Di fronte a una tale istanza, alle agenzie fiscali è invece consentito di valutare se attivarsi o meno, senza che la loro eventuale scelta di non provvedere possa essere oggetto di contestazione giurisdizionale da parte dell’istante, non essendo in tale caso il loro potere di provvedere in autotutela diverso da quello esercitabile in ipotesi spontaneamente.
La non irragionevolezza della disciplina esaminata non comporta che siano precluse al legislatore altre possibili scelte. Questa Corte ha già osservato che, «in via di principio, il momento discrezionale del potere della pubblica amministrazione di annullare i propri provvedimenti non gode in sé di una copertura costituzionale» (sentenza n. 75 del 2000). La previsione legislativa di casi di autotutela obbligatoria è dunque possibile, così come l’introduzione di limiti all’esercizio del potere di autoannullamento, ma non può certo dirsi costituzionalmente illegittima, per le ragioni sopra viste, una disciplina generale che escluda il dovere dell’amministrazione e, per quanto qui interessa, delle Agenzie fiscali di pronunciarsi sulle istanze di autotutela.
4.1.– Ugualmente non fondata è la censura relativa all’art. 97 Cost.
Dalla giusta considerazione che la disciplina legislativa del potere di annullamento d’ufficio degli atti divenuti inoppugnabili si fonda (anche) sull’art. 97, secondo comma, Cost., non è corretto inferire la necessità costituzionale della previsione legislativa di un dovere dell’amministrazione di pronunciarsi sull’istanza di autotutela, come prospetta il giudice a quo. Al contrario, proprio nel principio di buon andamento espresso nella norma costituzionale citata si radica il vincolo per il legislatore di tenere conto, nella disciplina dell’annullamento d’ufficio, anche dell’interesse pubblico alla stabilità dei rapporti giuridici già definiti dall’amministrazione, con la conseguenza che non irragionevolmente il legislatore stesso ha ritenuto di non prevedere che su eventuali istanze di autotutela l’amministrazione debba necessariamente pronunciarsi.
4.2.– La questione relativa agli artt. 24 e 113 Cost. è strettamente collegata a quelle appena esaminate. Dal momento che l’assenza del dovere di provvedere non è sotto altri profili costituzionalmente illegittima, e non sussiste dunque un interesse giuridicamente protetto a ottenere una decisione amministrativa espressa sull’istanza di autotutela, è escluso che vi sia un «vuoto di tutela». Fermo restando, infatti, che contro il provvedimento dell’amministrazione finanziaria oggetto della richiesta di annullamento d’ufficio l’interessato dispone degli ordinari rimedi di protezione giurisdizionale dei suoi diritti e interessi legittimi, la disciplina legislativa del potere di autotutela tributaria, nella parte in cui non prevede un obbligo dell’amministrazione di pronunciarsi sulle istanze di annullamento presentate dal contribuente, non lede la garanzia costituzionale del diritto al giudice.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 2-quater, comma 1, del decreto-legge 30 settembre 1994, n. 564 (Disposizioni urgenti in materia fiscale), convertito, con modificazioni, dalla legge 30 novembre 1994, n. 656, e dell’art. 19, comma 1, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), sollevate dalla Commissione tributaria provinciale di Chieti, in riferimento agli articoli 3, 23, 24, 53, 97 e 113 della Costituzione, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 21 giugno 2017.
F.to:
Paolo GROSSI, Presidente
Daria de PRETIS, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 13 luglio 2017.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Roberto MILANA