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Gli strumenti presuntivi di accertamento del reddito introdotti dal 1989: natura e conseguenze sul piano probatorio

Corte Suprema di Cassazione – Ufficio del Massimario e del Ruolo

Relazione tematica n. 94 del 9 luglio 2009

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CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
UFFICIO DEL MASSIMARIO E DEL RUOLO

Relazione tematica
Rel. n. 94
Roma, 9 luglio 2009
Gli strumenti presuntivi di accertamento del reddito introdotti dal 1989: natura e conseguenze sul piano probatorio.
1. Premessa.
2. I coefficienti presuntivi.
2.a. Le norme.
2.b. I coefficienti secondo la Corte costituzionale. 2.c. La giurisprudenza della Sezione V sui coefficienti. 2.d. La dottrina sulla natura dei coefficienti.
3. La c.d. “minimum tax”.
3.a. Le norme.
3.b. La valenza probatoria della “minimum tax”.
4. I parametri.
4.a. Le norme.
4.b. Il contraddittorio con il contribuente.
4.c. L’elaborazione ed applicazione dei parametri: considerazioni pratiche.
4.d. Segue: considerazioni sulla incoerenza interna dei parametri. 4.e. I parametri secondo la Corte costituzionale.
4.f. La giurisprudenza della Sezione V sui parametri. 4.g. La dottrina sulla natura dei parametri.
5. Gli studi di settore.
5.a. La disciplina degli accertamenti basati sugli studi di settore. 5.a.1. Le norme.
5.a.2. Segue: i presupposti dell’accertamento; il contraddittorio con il contribuente.
5.a.3. Il funzionamento degli studi di settore in generale. 5.a.4. Il c.d. intervallo di confidenza.
5.a.5. Gli indicatori di normalità economica: fase transitoria e definitiva.
5.b. La natura degli studi di settore secondo le circolari ministeriali. La relazione della
Commissione “Rey”.
5.c. La giurisprudenza della Sezione V sugli studi di settore. 5.d. La natura degli studi di settore secondo la dottrina. 5.d.1. L’inquadramento sistematico degli accertamenti basati sugli studi di settore.
5.d.2. I vari orientamenti sulla natura degli studi di settore:
quadro generale.
5.d.3. Il concetto di gravi incongruenze.
5.d.4. La tesi degli studi di settore come presunzioni legali relative: approfondimento. La teoria della natura sostanziale degli accertamenti basati sugli studi di settore.
5.d.5. La tesi degli studi di settore come presunzioni semplici:
approfondimento.
5.d.6. Le due tesi a confronto: ulteriori argomenti a favore della natura di presunzione semplice.
5.d.7. La natura degli studi di settore a seguito dell’introduzione degli I.N.E. transitori.
5.e. Accertamento e processo nelle due principali opzioni interpretative.
5.e.1. Quadro generale
5.e.2. Il contraddittorio.
5.e.3. La motivazione dell’atto di accertamento.
5.f. Il dibattito sulla costituzionalità della disciplina degli studi di settore.
6. Conclusioni.
* * * * * * *
1. Premessa.
È stata richiesta all’Ufficio del Massimario dal Presidente della Sezione Tributaria una relazione sui metodi presuntivi di accertamento del reddito – in riferimento, specificamente, all’evoluzione legislativa che, a partire dai “coefficienti presuntivi” del 1989, ha condotto ai “parametri” del 1996 ed agli odierni studi di settore -, con particolare riguardo alla natura ed alle relative conseguenze sul piano dell’onere della prova dei vari strumenti succedutisi nel tempo.
A differenza del c.d. redditometro (art. 38, quarto comma, del d.P.R. n. 600 del 1973), che viene qualificato come presunzione legale “iuris tantum”1, coerente con l’art. 53 Cost., perché à ncora l’accertamento ad elementi rigorosamente dimostrati, idonei a costituire sicura fonte di rilevamento della capacità contributiva2, i predetti metodi di accertamento “standardizzato” hanno prodotto un ampio dibattito circa la loro natura e le conseguenti ricadute di ordine teorico-pratico.
In mancanza di espresse indicazioni normative, il necessario ricorso ai criteri interpretativi di tipo sia letterale che sistematico 3 ha portato la dottrina, salve posizioni isolate, a dividersi tra la qualifica dei predetti strumenti come presunzioni semplici o legali (relative) e, per l’effetto, ad offrire differenti soluzioni sulle conseguenze dell’una o dell’altra impostazione, quali la natura (sostanziale o procedimentale), l’inquadramento sistematico rispetto agli accertamenti previsti dall’art. 39 del d.P.R. n. 600 del 1973 (analitico o induttivo), i criteri di riparto degli oneri probatori tra ufficio e contribuente, il contenuto della motivazione dell’atto di accertamento, i poteri del giudice tributario.
La notevolissima produzione dottrinaria ha altresì affrontato, a più riprese, il tema della conformità degli strumenti in esame ai principi costituzionali in materia tributaria, in particolare con riferimento agli studi di settore, non interessati, a differenza dei coefficienti del 1989 e dei parametri del 1995, da interventi della Corte costituzionale.
D’altra parte quest’ultima, pur avendo, con la sentenza n. 105 del 2003, attribuito ai “parametri la natura di presunzioni semplici, a differenza dei coefficienti presuntivi”, non ha spiegato le ragioni di tale affermazione e non ha, quindi, avuto funzione di guida e di reale indirizzo nel successivo dibattito.
Si aggiunga che la cospicua evoluzione normativa relativa agli studi di settore ha contribuito ad introdurre ulteriori ambiti di discussione, non soltanto sui profili applicativi della disciplina di volta in volta modificata, ma anche su questioni di ordine sistematico, quali la persistenza dei presupposti inizialmente previsti per fondare l’accertamento sugli studi (rapporto tra l’art. 10, comma 1, della l. n. 146 del 1998, come modificato dal comma 23 dell’art. 1, della l. n. 296 del 2006 e l’art. 62-sexies del d.l. n. 331/1993) e l’impatto dei nuovi strumenti rappresentati dagli indicatori di normalità economica transitori e definitivi introdotti dalla legge 27 dicembre 2006, n. 296, all’art. 1, comma 13 e 14.
Quanto alla giurisprudenza della Sezione, sono ormai acquisiti, in omaggio alla flessibilità dei vari metodi di accertamento espressione del principio della capacità contributiva di cui all’art. 53 Cos., l’esclusione di ogni automatismo nella loro applicazione, l’ampio riconoscimento per il contribuente della possibilità di prova contraria, anche mediante presunzioni, la crescente valorizzazione del contraddittorio e dell’adeguatezza della motivazione come parte fondante ed intrinseca agli atti di accertamento.
In questo quadro, si registra l’alternanza tra decisioni per le quali l’applicazione di tali metodi pone una presunzione legale relativa ed altre per cui gli stessi sono fondanti presunzioni semplici, senza però che ad esse corrispondano due distinte linee di pensiero circa la sufficienza dello scostamento rispetto ai parametri (in senso lato) per fondare l’accertamento da parte dell’amministrazione. Solo in alcuni casi sembra essere valorizzata tale autosufficienza, peraltro in fattispecie in cui non risultano apportati dal contribuente elementi giustificativi, nel corso dell’accertamento.
Sullo sfondo, pur non essendo ancora definitivamente emersa nella giurisprudenza della Sezione una teorizzazione unitaria ed organica dei principi alla base dei metodi di accertamento”standardizzato”, una tendenza in tal senso non sembra da escludere, in considerazione:
a) dell’identità di affermazioni in tema di:
– obbligatorietà del contraddittorio, conseguente allo scostamento rispetto ai ricavi del settore;
– ampiezza delle difese del contribuente, con possibilità di ricorrere anche a presunzioni;
– obbligo di adeguata motivazione, a fronte delle deduzioni del contribuente;
– natura procedimentale degli accertamenti “de quibus”, che giustifica il loro utilizzo anche per periodi di imposta anteriori, senza problemi di retroattività, poiché il potere in concreto disciplinato è quello di accertamento, sul quale non viene ad incidere il momento della elaborazione4;
b) della più volte affermata prevalenza dello strumento più evoluto rispetto al precedente, sia nel rapporto tra parametri e studi di settore, che all’interno di questi, con applicazione della versione più recente, in quanto frutto di analisi più attendibili. La natura evolutiva dei metodi di accertamento”standardizzato” non connota, quindi, il solo segmento interno a ciascuno di essi, ma ne rappresenta l’elemento unificante, sintomatico, evidentemente, dell'”unitarietà dinamica” dell’istituto.
Si tratta, allora, di verificare, nella complessa evoluzione normativa che ha caratterizzato la materia, quali siano i vari orientamenti sul campo e le rispettive ricadute sull’accertamento e sul processo tributario.
Allo stesso tempo, in una lettura di sistema, può essere utile riflettere se i vari metodi di accertamento succedutisi nel tempo, pur presentando analogie, restino ciascuno soggetto alla rispettiva disciplina, ovvero se l’evoluzione normativa ed interpretativa possa fondare il convincimento che gli stessi appartengono tutti al medesimo “genus”: quello degli “accertamenti standardizzati”, inteso come categoria unitaria evolutasi nel tempo, in relazione alla capacità dell’amministrazione di elaborare studi statistici sempre più affidabili e puntuali.
In tale prospettiva, la diversità di disciplina tra i vari strumenti non inciderebbe sui principi alla base del loro funzionamento, ma sulla loro diversa ampiezza ed operatività nel tempo, sotto il profilo soggettivo ed oggettivo; identici sarebbero, invece, l’identità di inquadramento sistematico, l’inferenza dei parametri statistici (coefficienti, parametri in senso proprio o studi di settore) rispetto all’accertamento, l’atteggiarsi degli oneri delle parti in sede di contraddittorio e motivazione, la portata dei poteri del giudice tributario5.
2. I coefficienti presuntivi.
2.a. Le norme.
L’accertamento basato sui coefficienti fu previsto dagli artt. 11 e 12, del d.l. 2 marzo 1989, n. 69, convertito, con modificazioni, nella l. 27 aprile 1989, n. 154 (All. 1.1).
L’art. 11 prevedeva, nella prima versione, sia coefficienti di congruità dei corrispettivi e dei componenti positivi e negativi di reddito, sia coefficienti presuntivi di reddito o di corrispettivi di operazioni imponibili. I primi 6 avevano la funzione di orientare i controlli; i secondi 7 quella di determinare corrispettivi e compensi in sede di accertamento.
L’art. 6, della l. 30 dicembre 1991, n. 413 modificò l’art. 11 cit., unificando i due coefficienti nei coefficienti presuntivi di compensi e ricavi8.
L’art. 12 fu poi modificato dall’art. 62-quater, d.l. 30 agosto 1993, n. 331 (si rinvia al testo allegato).
Il sistema dei coefficienti fu infine abrogato, a decorrere dagli accertamenti relativi al periodo di imposta in corso alla data del 31 dicembre 1995, dall’art. 3, comma 179, della l. n. 549 del 1995 (il successivo comma 181 introdusse l’accertamento in base ai parametri).
L’accertamento mediante i coefficienti era disciplinato dall’art. 12 del d.l. n. 69/1989 che, sia pure con differenti modulazioni tra la versione originaria e quelle successive, prevedeva:
– la possibilità per gli uffici di determinare ricavi, compensi e volumi di affari sulla base dei coefficienti, prescindendo dal regime ordinario dell’accertamento, ma tenendo conto dei coefficienti9;
– la necessità di previo interpello del contribuente che avesse indicato poste reddituali inferiori e la regola secondo la quale i motivi non comunicati dal contribuente all’ufficio nelle risposte a tale interpello non potevano essere valorizzati in sede giudiziale;
– l’esclusione dell’accertamento basato sui coefficienti quale fondamento di una notizia di reato.
2.b. I coefficienti secondo la Corte costituzionale. La Corte costituzionale, dopo aver dichiarato (ord. n. 8 del 2000) la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale degli articoli 11 e 12 del d.l. 2 marzo 1989, n. 69, dichiarò (ord. n. 7 del 2001) la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale di tali norme sollevata, in riferimento agli artt. 23 e 53 della Costituzione, dalla Commissione tributaria provinciale di Firenze.
Ad avviso del rimettente:
– il citato art. 11, per la genericità dei criteri dettati per la determinazione dei coefficienti presuntivi di compensi e ricavi, aveva il carattere di una delega in bianco, con ciò violando il principio della riserva di legge in materia tributaria enunciato dall’art. 23 Cost.;
– il combinato disposto delle norme denunciate era altresì lesivo del principio di capacità contributiva, di cui all’art. 53 Cost., in quanto veniva a delineare un sistema di presunzioni iuris et de iure, non superabile con argomentazioni e prove contrarie, ed inidoneo, per ciò stesso, a registrare con sufficiente approssimazione alla realtà la capacità reddituale effettiva del contribuente;
– era, d’altra parte, irrilevante la possibilità di sottrarsi all’accertamento presuntivo mediante la scelta del regime di contabilità ordinaria, in quanto ciò equivaleva a costringere il contribuente, per sfuggire ad un tipo di tassazione illegittimo, ad optare per la forma ordinaria negandogli quel diritto di scelta tra le due forme di contabilità attribuito dalla legge.
La Corte costituzionale ritenne la questione manifestamente infondata considerato:
– che secondo la propria costante giurisprudenza, “il principio della riserva di legge di cui all’art. 23 della Costituzione va inteso in senso relativo, ponendo al legislatore l’obbligo di determinare preventivamente e sufficientemente criteri direttivi di base e linee generali di disciplina della discrezionalità amministrativa (da ultimo, sentenze n. 215 del 1998 e n. 111 del 1997);
– che tale obbligo risulta, nella specie, adeguatamente assolto mediante la disposizione di cui al comma 3 dell’art. 11, secondo cui “le informazioni necessarie per la determinazione dei coefficienti di cui al comma 1 possono essere desunte, oltre che dalle dichiarazioni dei contribuenti ai fini delle imposte sui redditi e dell’imposta sul valore aggiunto, dagli accertamenti degli uffici e dagli altri dati ed elementi in possesso dell’Amministrazione, da informazioni richieste agli enti locali, alle organizzazioni economiche di categoria nonché ad enti ed istituti, ivi comprese società specializzate in rilevazioni economiche settoriali”;
– che è, d’altro canto, erroneo l’assunto – posto dal rimettente a fondamento dell’asserita violazione dell’art. 53 Cost. – secondo il quale le norme impugnate delineerebbero un sistema di presunzioni iuris et de iure, essendo al contrario previsto all’art. 12, comma 1, che l’accertamento in base ai coefficienti presuntivi sia effettuato, “a pena di nullità”, previa richiesta di chiarimenti al contribuente e che questi possa, nella risposta, indicare “i motivi per cui, in relazione alle specifiche condizioni di esercizio dell’attività, i ricavi, i compensi o i corrispettivi dichiarati sono inferiori a quelli risultanti dall’applicazione dei coefficienti”.
Va poi rilevato che la Corte costituzionale, con la sentenza n. 105 del 2003 (infra), attribuì ai parametri la natura di presunzioni semplici, a differenza dei coefficienti presuntivi, senza peraltro spiegare le ragioni della qualifica (rispettivamente esplicita ed implicita) operata per i due strumenti.
2.c. La giurisprudenza della Sezione V sui coefficienti. Nella giurisprudenza della Sezione, a fronte di decisioni che qualificano i coefficienti presuntivi di reddito come fondanti presunzioni semplici 10, è ricorrente l’affermazione per cui gli stessi “rappresentano un valore minimale nella determinazione del volume d’affari, che si pone alla base dell’accertamento del reddito in un’ottica statistica, non astratta, bensì riferita al singolo settore economico, la cui applicazione pone una presunzione legale relativa, come tale superabile con la prova contraria diretta a dimostrare fatti e circostanze specifiche che concretamente rilevano il conseguimento di un inferiore ammontare di ricavi11″. Questa affermazione è stata da ultimo ribadita da Sez. V sent n. 15539 del 2/07/2009, Pres. Cicala, Est. Scuffi che aggiunge:
A fronte di tale dettato normativo la teoria dell’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente resta immutata. Se vale il principio della quantificazione del reddito in base dell’id quod plerumque accidit in situazioni analoghe a quella del contribuente accertato , come emerge chiaramente dalla circostanza che il ricorso ai coefficienti è ammesso – indipendentemente dalle disposizioni dall’art. 39 dei d.P.R. 600/1973 e dell’art.55 del d.P.R. 633/1972 – e quindi anche fuori dalle ipotesi che giustificano normalmente l’accertamento induttivo, nessun ulteriore supporto probatorio può essere preteso in condizioni normali, spettando semmai al contribuente fornire la prova secondo cui il risultato cui è pervenuto l’Ufficio non è aderente alla realtà oggetto di accertamento per la presenza di condizioni che rendono non rappresentativa della situazione particolare quella statisticamente più ricorrente evidenziata dai coefficienti. Restano perciò ancor validi i criteri probatori richiamati in vigenza del c. redditometro (d.m. 21 luglio 1983 e successive modificazioni) secondo i quali la determinazione del reddito effettuata sulla base dell’applicazione di quei coefficienti presuntivi di reddito dispensa l’A.F. da qualunque ulteriore prova rispetto ai fatti indice di maggior capacità contributiva individuati dal redditometro stesso e posti a base della pretesa tributaria fatta valere, restando a carico del contribuente l’onere di dimostrare che il reddito presunto in base al redditometro non esiste o esiste in misura inferiore (Cass.10350/2003 e Cass. 1646/2008),
Ancora questa Corte del resto nell’escludere rilievi di incostituzionalità degli artt. 11 e 12 della L. 154/1989, nella parte prevedente la determinazione induttiva dei ricavi e dei compensi sulla base di coefficienti presuntivi ha stabilito che essi rispondono all’esclusiva finalità di mettere l’Ufficio in condizione di addivenire alla giusta imposizione commisurata ai redditi effettivi di ciascun contribuente, nonché di assicurare la reale rispondenza dell’accertamento tributario alla capacità contributiva del soggetto passivo, e non ledono diritti naturali del contribuente ne’ comportano discriminazioni, non ponendo alcun limite alla prova dell’insussistenza degli elementi e delle circostanze di fatto sui quali si basa l’accertamento, ne’ alla prova dell’attività economica concretamente svolta dal contribuente medesimo (Cass. 15124/2006).
In un contesto del genere dove la presunzione legale può essere solo superata mediante allegazione di prova contraria rispettosa dei succitati principi normativi e regolamentari e rivolta ad evidenziare una situazione diversa da quella emergente dall’applicazione dei coefficienti siccome destinata a portare ad un risultato in linea con il dichiarato è evidente che il contenuto – ancorché incontestato- delle scritture contabili la cui formale regolarità non entrava in gioco nell’operato accertativo dell’Ufficio non poteva neppur trovar credito nel contenzioso come prova contraria alla pretesa erariale .
La sentenza si caratterizza per aver affermato la natura di presunzioni legali dei coefficienti previsti dagli artt. 11 e 12 del d.l. n. 69 del 1989, richiamando i principi che regolano la materia del c.d. redditometro ex art. 38, comma 4, del d.P.R. n. 600 del 1983 (il richiamo si evince dal riferimento al d.m. 21 luglio 1983 emanato in esecuzione di tale norma12). Anche in altre decisioni è presente il riferimento al redditometro, ma con modalità tali da sembrare porre soltanto un problema definitorio e non di sistema13. Peraltro, l’autosufficienza dell’applicazione dei coefficienti a fondare l’accertamento, viene generalmente esclusa, affermandosi la possibilità per il contribuente di offrire la prova contraria ed il conseguente obbligo, nei limiti in cui detta prova viene offerta, di adeguamento del reddito astrattamente determinato in base ai coefficienti alla reale capacità produttiva del contribuente14;
ciò in forza del richiamo al principio della flessibilità degli strumenti presuntivi, il quale trova origine e fondamento nell’art. 53 Costituzione, non potendosi ammettere che il reddito venga determinato in maniera automatica, a prescindere dalla capacità contributiva del soggetto sottoposto a verifica.
La conseguenza è che l’Ufficio può integrare o addirittura sostituire i detti coefficienti con elementi particolari, propri del contribuente sottoposto a verifica, e che questi può sempre offrire, in caso di loro legittima utilizzazione, la prova della loro inapplicabilità al caso concreto; tale prova può essere costituita, in assenza di indicazioni normative specifiche contrarie, anche da presunzioni che il giudice nel suo prudente apprezzamento può configurare e valutare15.
In particolare si afferma16:
l’articolo 12, comma 4, prevede una certa e significativa flessibilità allorché consente all’operatore di utilizzare il particolare tipo di accertamento di cui qui si discute. Questa norma stabilisce, infatti, che se i dati dichiarati non risultano compatibili con quelli indicati dall’applicazione dei coefficienti di cui all’articolo 11 l’ufficio ha il potere di determinare induttivamente l’ammontare del reddito, nonché quello di singoli componenti positivi o negativi di esso, sulla base di due o più coefficienti, o di altri elementi specificamente relativi al singolo contribuente. Quest’ultimo inciso lascia intendere che, in caso di necessità, i coefficienti presuntivi possono essere integrati o addirittura sostituiti da elementi particolari, propri del contribuente sottoposto a verifica. I coefficienti, quindi, in linea di massima forniscono una indicazione, che già la stessa amministrazione può superare utilizzando altri elementi, che evidentemente costituiscono dei limiti per lo strumento presuntivo nella situazione concreta. Il che significa, appunto, esclusione di ogni automatismo dei coefficienti e necessità di valutare sempre la situazione effettiva del contribuente.
Peraltro, il profilo del tendenziale adeguamento degli effetti dello strumento presuntivo alla situazione concreta da esaminare è emerso meglio nella normativa degli studi di settore (che costituisce una evoluzione significativa nella introduzione delle presunzioni nei meccanismi dell’accertamento), tanto che l’Amministrazione nella circolare n. 110/E del 21 maggio 1999 correttamente e significativamente ha sostenuto che: ” Sulla base di elementi di valutazione direttamente acquisiti ovvero forniti dal contribuente in sede di contraddittorio, gli uffici avranno cura di adeguare il risultato della applicazione degli studi alla concreta particolare situazione dell’impresa, tenendo anche conto della localizzazione nell’ambito del territorio comunale non colta dalle elaborazioni dalle quali sono scaturiti gli studi di settore. Le osservazioni formulate dai contribuenti nel corso del contraddittorio andranno attentamente valutate motivando sia l’accoglimento che il rigetto delle stesse”
Ma, al di là di questa puntualizzazione effettuata
dall’Amministrazione, che coglie l’intima ratio sottesa agli studi di settore, c’è da rilevare che la flessibilità degli strumenti presuntivi trova origine e fondamento proprio nell’articolo 53 della Costituzione, non potendosi ammettere che il reddito venga determinato in maniera automatica, a prescindere da quella che è la capacità contributiva del soggetto sottoposto a verifica. Ogni sforzo, quindi, va compiuto per individuare la reale capacità contributiva del soggetto, pur tenendo presente l’importantissimo ausilio che può derivare dagli strumenti presuntivi, che non possono però avere effetti automatici, che sarebbero contrastanti con il dettato costituzionale, ma che richiedono un confronto con la situazione concreta (confronto che può essere anche vincente per gli strumenti presuntivi allorché i dati forniti dal contribuente risultano inattendibili).
Peraltro, lo stesso legislatore dello Statuto del contribuente, nel prevedere all’articolo 12, comma 7 (che si pone come norma generale), un tendenziale necessario contraddittorio anticipato attraverso il quale il contribuente possa fornire dati e richieste che l’Ufficio ha l’obbligo di valutare, conferma indiscutibilmente l’esigenza che l’accertamento venga calibrato sempre al caso concreto, sulla base di una conoscenza più approfondita della situazione verificata.
Alla stregua dell’articolo 12, e prima che si passi a valutare il profilo dell’inapplicabilità dei coefficienti o di altri strumenti presuntivi, la stessa amministrazione deve individuare gli elementi da utilizzare nel caso concreto, potendo addirittura disattendere i coefficienti quando esistono altri dati che evidentemente esprimono meglio la situazione concreta.
In ogni caso, sulla base dell’ultimo periodo del quarto comma dell’articolo 12 citato, ammesso che i coefficienti presuntivi siano stati utilizzati bene e legittimamente, resta il fatto che è ammessa la prova della inapplicabilità dei parametri al caso concreto. Questa prova non deve avere necessariamente collegamenti con dati documentali (come invece sembra avere sostenuto il ricorrente), ma può essere costituita, in assenza di indicazioni normative specifiche contrarie, anche da presunzioni che il Giudice nel suo prudente apprezzamento va a configurare e a valutare. La norma fa riferimento alle specifiche condizioni di esercizio dell’attività e lascia, quindi, ampio margine nella deduzione dei fatti impeditivi.
Relativamente al contraddittorio con il contribuente, con riferimento alle modifiche avute nel tempo dall’art. 12 si è affermato17:
In tema di accertamento delle imposte sui redditi e con riguardo alla procedura di determinazione induttiva dell’ammontare dei ricavi e dei compensi sulla base di coefficienti presuntivi, disciplinata dall’art. 12 del d.l. 2 marzo 1989, n. 69 (convertito, con modificazioni, nella legge n. 154 del 1989), la sanzione della decadenza dal potere di accertamento, nel caso in cui l’ufficio avesse proceduto alla rettifica omettendo la previa richiesta di chiarimenti al contribuente, è stata introdotta dall’art. 7 della legge 30 dicembre 1991, n. 413, il quale ha integralmente sostituito l’art. 12 citato “a partire dagli accertamenti relativi al primo periodo di imposta avente inizio successivamente al 31 dicembre 1991”; a sua volta, l’art. 62 quater del d.l. 30 agosto 1993, n. 331 (convertito, con modificazioni, nella legge n. 427 del 1993) – il quale ha nuovamente sostituito il primo comma del suddetto art. 12 -, ha previsto la nullità dell’accertamento effettuato senza il menzionato adempimento, disponendo l’applicabilità della nuova disciplina a decorrere dal periodo d’imposta in corso alla data di entrata in vigore della citata legge di conversione. Ne consegue che, poiché il legislatore, pur disciplinando l’attività di accertamento, ha chiaramente stabilito l’applicabilità delle norme sopravvenute con riferimento non alla data di svolgimento di detta attività, bensì ai periodi d’imposta da sottoporre a controllo, va escluso che le suindicate sanzioni (decadenza e poi nullità) per l’omessa richiesta di chiarimenti possano trovare applicazione per gli accertamenti relativi a periodi d’imposta diversi da quelli indicati, in particolare a quelli ricadenti sotto la previgente disciplina di cui al testo originario dell’art. 12 del d.l. n. 69 del 1989, il quale non prevedeva alcuna sanzione al riguardo. Con riferimento al testo vigente a seguito delle indicate modifiche, sono stati poi affermati i seguenti principi:
– l’accertamento è nullo se non sia preceduto dalla richiesta che l’Ufficio deve inoltrare al contribuente per fornire chiarimenti – da inviare per iscritto entro sessanta giorni – sulle ragioni che avevano giustificato un reddito dichiarato, inferiore a quanto emergente dal redditometro 18;
– l’amministrazione finanziaria, peraltro, non ha l’obbligo di specificare nella prescritta richiesta di chiarimenti le discordanze tra i corrispettivi dichiarati e quelli risultanti dall’applicazione dei coefficienti presuntivi. Anzi, alla stregua dell’inequivoco dettato normativo, è vero il contrario e cioè che incombe al contribuente l’onere di chiarire siffatta discordanza19;
– qualora il contribuente, ottemperando all’invito, provveda a trasmettere all’Ufficio le proprie deduzioni, la motivazione dell’ eventuale avviso di accertamento deve contenere un’adeguata replica tale da superare le deduzioni della parte. In mancanza, l’atto impositivo dovrà essere considerato nullo per difetto di motivazione20;
– la preventiva richiesta di chiarimenti, che svolge una funzione strumentale rispetto alla corretta effettuazione dell’accertamento, se presenta risvolti positivi per il contribuente qualora egli abbia fornito i chiarimenti richiesti, presenta invece effetti sfavorevoli in caso di mancata risposta, in quanto, come recita la norma, “i motivi non addotti in risposta alla richiesta di chiarimenti, non possono essere fatti valere in sede di impugnazione dell’atto di accertamento”. Ne deriva che, se è consentito all’ufficio di integrare o addirittura sostituire i coefficienti con elementi particolari, propri del contribuente sottoposto a verifica, con esclusione, quindi, di ogni automatismo dei coefficienti, la mancata risposta, per contro, legittima l’utilizzazione dei coefficienti presuntivi da parte dell’amministrazione, fermo restando che è sempre ammessa a carico del contribuente la prova
dell’inapplicabilità dei parametri al caso concreto21. Sotto il profilo temporale, poi, si è affermata la possibilità di applicazione retroattiva dei coefficienti presuntivi che ” ai sensi dell’art. 7, comma 3, della legge 30 dicembre 1991, n. 413, possono essere utilizzati per l’accertamento dei periodi d’imposta precedenti alla loro adozione, in luogo di quelli previsti per tali periodi d’imposta, a condizione che il risultato della loro applicazione complessiva sia più favorevole al contribuente22″. Si è infine affermato che “il termine del 30 settembre dell’anno al quale tali coefficienti si riferiscono, fissato, per la pubblicazione nella G.U. dei decreti del Presidente del Consiglio dei ministri con i quali i medesimi coefficienti vengono individuati, dall’art. 11, comma quinto, del decreto – legge 2 marzo 1989, n. 69, convertito nella legge n. 154 del 1989 (come sostituito dall’art. 6, comma quinto, della legge 30 dicembre 1991, n. 413), non ha carattere perentorio, non sussistendo alcuna indicazione in proposito, e contrastando tale perentorietà con la funzione propria dei decreti in questione, consistente nel disciplinare il potere di accertamento, nonché con l’irrilevanza del momento dell’elaborazione 23 “.
2.d. La dottrina sulla natura dei coefficienti.
All’indomani dell’introduzione dei coefficienti PERRUCCI24, rilevata la inattendibilità degli accertamenti tramite i coefficienti, osservava che gli stessi “non hanno alcunché in comune con le presunzioni quali sono intese dal diritto civile”.
È presunzione il singolo fatto noto, da cui con un procedimento logico è possibile risalire ad un fatto prima di allora ignoto. Occorre dunque che si tratti di un fatto specifico, che nella specie non potrebbe essere altro se non un dato obiettivo rilevato nei confronti del medesimo contribuente per esempio: hai acquistato tante materie prime, devi aver venduto tanto prodotto). Nel momento in cui, invece, si pretende di inferire certe conseguenze da elementi (per esempio sugli acquisti) o sull’ampiezza dei locali destinati all’attività produttiva, eccetera) relativi a tutti gli altri contribuenti, si desumono presunzioni da altre presunzioni, come quando, calcolata su alcuni prodotti una certa percentuale di ricarico, si pretende di estendere la sua applicazione anche agli altri prodotti di diversa natura; il che non è ammesso. Nè la presenza, fra i dati utilizzati per calcolare le medie reddituali, dei dati risultanti dalle dichiarazioni dello stesso soggetto che si vuole controllare, può avere alcuna concreta incidenza sulla riferibilità ad esso delle relative elaborazioni, (ove si rifletta all’enorme quantità dei dati che vi entrano a far parte, e quindi alla estrema diluizione del dato individuale. Dunque, parlare di coefficienti presuntivi è inesatto e fuorviante; si tratta soltanto di livelli minimi di reddito o di corrispettivi, ancorati per comodità ad alcuni dati ritenuti indicativi (locali, retribuzioni, beni strumentali, eccetera), che l’Amministrazione finanziaria pretende per non esplicare la sua azione accertatrice. Essa, cioè utilizza la possibilità di scelte discrezionali che le sono state conferite dalla legge in ordine all’accertamento per farne oggetto di trattativa col cittadino, nella speranza, neppure celata, di discriminare fra di loro gruppi di contribuenti da altri gruppi, e quindi di limitare ad alcuni soltanto la sua azione accertatrice che certo non potrebbe essere svolta con uguale efficacia nei confronti di tutti.
Le considerazioni sulla natura degli accertamenti mediante i coefficienti e l’individuazione dei mezzi di tutela riconosciuti al contribuente, vengono così illustrate da MARONGIU e risolte a favore della natura di presunzione semplice 25.
Così sommariamente riassunta la relativa disciplina, residuavano evidenti zone grigie sulla natura di tali coefficienti e sulla individuazione dei mezzi di tutela conseguentemente riconosciuti al contribuente.
Un primo snodo fondamentale concerneva il quesito se essi corrispondessero a una presunzione legale ovvero a presunzioni semplici. A favore della prima configurazione militava il fatto che il contenuto della induzione risultava (come in tutti i meccanismi di tale tipo) predeterminato considerato che la generale preordinazione non è una caratteristica propria della presunzione semplice. E vero che tale contenuto non si trovava predeterminato in un atto avente valore di legge, ma si trattava pur sempre di atti di carattere generale e adottati in modo sostanzialmente “delegato” dalla fonte primaria”.
In senso contrario avrebbe potuto opporsi che la norma del comma 1 dell’art. 12 d.l. n. 69 del 1989 testualmente configurava come facoltà per l’ufficio l’accertamento sulla base dei coefficienti ma l’argomento non era di grande momento, ben potendosi intendere la norma come attributiva del potere. ove sussistessero i presupposti . Ugualmente non dirimente appariva anche la disposizione del 4 comma dell’art. 12, ove si prevedeva espressamente, che, nei confronti dei contribuenti in regime ordinario di contabilità per effetto di opzione, i coefficienti potevano utilizzarsi se fonte di presunzioni gravi precise e concordanti di infedeltà della contabilità. Tale disposizione poteva essere valorizzata sia traendone la conferma del carattere di presunzione semplice dei coefficienti, anche negli altri casi, sia nel senso esattamente opposto.
Vero è, semmai, che la configurazione dei coefficienti come presunzione legale avrebbe potuto creare qualche perplessità, sotto il profilo del rispetto della riserva di legge, non solo quella prevista dall’art. 23 Cost. 26, ma anche per il fatto che la disciplina del processo deve trovarsi in fonte primaria: ostacolo che può superarsi, sia pur dubitativamente, argomentando dalla natura relativa della riserva di legge e dal fatto che la previsione in generale, di tali coefficienti, si trovava in un atto avente forza di legge.
Resta, peraltro, forte, sotto il profilo della ragionevolezza, la seconda perplessità e cioè che pare difficile “ingabbiare” in una struttura della rigidità della presunzione legale (sia pure relativa) un fenomeno tanto proteiforme e sfuggente come la produttività delle attività economiche e il suo correlarsi ai fattori produttivi. In questa direzione giocava anche l’espresso dovere per l’Ufficio di valorizzare, oltre ai coefficienti, tutti gli altri elementi eventualmente conosciuti, oltre a quelli forniti dal contribuente, anche in sede di risposta alla richiesta di chiarimenti. È vero che, formalmente, tali elementi potevano benissimo considerarsi come fatti valorizzabili dall’ufficio a fine di presunzioni semplici, da affiancare o contrapporre (come prova contraria) alla presunzione legale rappresentata dal coefficiente, ma occorre sottolineare che gli elementi posti a base dei coefficienti non sembravano avere una natura sostanziale diversa dagli altri valorizzabili e avevano uguale generalità. In altre parole, non è facilmente giustificabile che ai fattori previsti nei coefficienti fosse riconosciuta una efficacia indiziante privilegiata, rispetto a quelli non previsti.
La conclusione preferibile mi pare quella che inquadra i coefficienti tra le presunzioni semplici utilizzabili dall’ufficio, nel più ampio insieme dei poteri di accertamento. È ovvio, però, che, configurati i coefficienti come presunzione legale, va esclusa l’esistenza di una presunzione legale juris et de jure. Lo ha riconosciuto la Corte costituzionale nella sentenza n. 7 del 2001 con cui ha dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale degli art. 11 e 12 del d.l. 2 marzo 1989, n. 69, convertito con modificazioni nella legge 2 aprile 1989, n. 154.
Anche MARCHESELLI 27 conclude che ” la conclusione preferibile era allora l’inquadramento dei coefficienti come catalogo di presunzioni semplici utilizzabili dall’ufficio, da collocarsi nel più ampio insieme dei poteri di accertamento caso per caso” ed aggiunge: ” Di un certo interesse era poi il fatto che l’art. 12 contemplasse una limitazione delle facoltà del contribuente. Gli era preclusa l’utilizzazione in giudizio degli elementi non allegati rispondendo alla richiesta di chiarimenti dell’ufficio. Questo regime non limitava in assoluto la prova contraria, ma imponeva un onere, con correlata decadenza: l’onere di allegarla già in sede amministrativa. Si trattava di soluzione non vessatoria per le ragioni del contribuente28 e, anzi, improntata a ragionevolezza complessiva, imponendo un opportuno obbligo di fair play, quello di comportamento trasparente nei confronti dell’ufficio29 . Tale fair play avrebbe evitato il contenzioso tutte le volte che l’organo amministrativo, correttamente valorizzando i dati offerti dal contribuente e ritenendone fondate le ragioni, non avesse emesso l’accertamento (o lo avesse rettificato rispetto ai risultati del coefficiente)”.
3. La c.d. “minimum tax”.
3.a. Le norme.
La c.d. minimum tax fu istituita dal d.l. 19 settembre 1992, n. 384, convertito, con modificazioni, nella legge 14 novembre 1992, n. 438 (All. 1.2.) il quale prevedeva che, per i contribuenti minori 30ricavi e compensi determinati in base ai coefficienti presuntivi non potessero essere inferiori alla somma delle spese e degli altri componenti negativi deducibili e del contributo diretto lavorativo (art. 11, comma 3). Nel caso in cui il reddito fosse stato dichiarato in misura inferiore all’ammontare del contributo diretto lavorativo, l’ufficio provvedeva direttamente a liquidare e riscuotere la maggiore imposta corrispondente alla differenza (art. 11 bis, comma 1). La disciplina non si applicava se il contribuente aveva ottenuto l’esonero 31 attraverso un atto amministrativo di una apposita Commissione Provinciale, presieduta dal Prefetto (art. 11 bis, comma 3). Il contribuente poteva ottenere lo sgravio delle somme iscritte a ruolo presentando documentazione asseverata da cui risultasse l’errore nella determinazione del contributo diretto lavorativo o la sussistenza del diritto a deduzioni non tenute in conto nella liquidazione.
La c.d. minimum tax restò in vigore fino a quando il d.l. 30-8-1993 n. 331 convertito in legge, con modificazioni, dalla l. 29 ottobre 1993, n. 427 (All. 1.3.), abrogò gli artt. 11, comma 3 ed 11-bis (con l’art. 62-ter) e l’art. 11-ter (con l’art. 62-quinquies); lo stesso provvedimento, all’art. 62-bis istituì gli studi di settore. 3.b. La valenza probatoria della “minimum tax”.
In giurisprudenza ed in dottrina è pacifico, considerato il dato normativo inequivoco, che la c.d. “minimum tax” abbia dato vita ad una presunzione legale relativa (di compensi e ricavi almeno pari al contributo diretto lavorativo)32. Piuttosto erano diffusi gli spunti critici, individuati da MARCHESELLI 33 in due profili. Innanzitutto, sotto il profilo della corrispondenza all’id quod plerumque accidit, posto che si fondava su un unico elemento indiziante (l’entità del contributo diretto lavorativo) e non sul complesso degli indicatori economici concernenti l’attività del contribuente, corrispondenti alla comune esperienza. In secondo luogo, sotto l’aspetto della prova contraria. In effetti essa era variamente e gravemente limitata, soprattutto sotto il profilo procedimentale. Il limite più netto era che, per la rettifica da parte dell’ufficio, in caso di reddito dichiarato in misura inferiore al minimo, non era prevista l’emissione dell’atto di accertamento ma, direttamente, la iscrizione a ruolo (e, quindi, l’inizio della procedura di riscossione). Inoltre, lo sgravio d’ufficio era consentito solo, alla lettera, per dimostrata erroneità nella determinazione del contributo diretto lavorativo, ovvero per la omessa considerazione di deduzioni spettanti. I1 contribuente poteva evitare l’iscrizione a ruolo, ex ante, solo ottenendo un esonero dalla Commissione Provinciale sopra menzionata. Tale subprocedimento non poteva servire a valorizzare circostanze verificatesi nel corso del periodo di imposta e dopo la decisione eventualmente negativa della Commissione. Neanche per tal via, insomma, era assicurata la possibilità di evitare l’inizio di un procedimento di riscossione del tutto irragionevole. Si assisteva, in definitiva, alla ripropos zione di una logica affine a quella del solve et repete, di costituzionalità quantomeno dubbia. La c.d. minimum tax, in conclusione, presentava aspetti di possibile conflitto con i principi fondamentali dell’ordinamento. 4. I parametri.
4.a. Le norme.
Il legislatore tributario, avvertendo la necessità di elaborare un criterio maggiormente efficace rispetto ai coefficienti presuntivi introdotti nel 1989, con la legge Finanziaria 1996 (legge 28 dicembre 1995, n. 549, All. 1.4.) dopo aver abrogato il sistema dei coefficienti (art. 3, comma 179), a decorrere dagli accertamenti relativi al periodo di imposta 1995, decise di procedere da un lato (art. 3, comma 18034) alla ridefinizione dei tempi di avvio dell’elaborazione degli “studi di settore”, già previsti dal d.l. 30 agosto 1993, n. 331, cit. (All. 1.3.) e, dall’altro, introdusse (comma 181) la possibilità, fino alla approvazione degli studi di settore, di effettuare gli accertamenti di cui all’articolo 39, primo comma, lettera d), del decreto del Pres. della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e successive modificazioni, “senza pregiudizio della ulteriore azione accertatrice con riferimento alle medesime o alle altre categorie reddituali, nonché con riferimento ad ulteriori operazioni rilevanti ai fini dell’imposta sul valore aggiunto” utilizzando i parametri di cui al successivo comma 184 “ai fini della determinazione presuntiva dei ricavi, dei compensi e del volume d’affari 35 “.
Secondo il comma 184: “Il Ministero delle finanze – Dipartimento delle entrate, elabora parametri in base ai quali determinare i ricavi, i compensi ed il volume d’affari fondatamente attribuibili al contribuente in base alle caratteristiche e alle condizioni di esercizio della specifica attività svolta. A tal fine sono identificati, in riferimento a settori omogenei di attività, campioni di contribuenti che hanno presentato dichiarazioni dalle quali si rilevano coerenti indici di natura economica e contabile;
sulla base degli stessi sono determinati parametri che tengano conto delle specifiche caratteristiche della attività esercitata”. I parametri furono elaborati con d.P.C.M. 29 gennaio 1996 (All. 1.5.), poi modificato con d.P.C.M. 27 marzo 199736.
L’art. 3, comma 125, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 (All. 1.6.) precisò che ” Le disposizioni di cui ai commi da 181 a 187 dell’articolo 3 della legge 28 dicembre 1995, n. 549, riguardanti gli accertamenti effettuati in base a parametri, si applicano per gli accertamenti relativi ai periodi di imposta 1996 e 1997 ovvero, per i contribuenti con periodo di imposta non coincidente con l’anno solare, per gli accertamenti relativi al secondo e al terzo periodo”. 4.b. Il contraddittorio con il contribuente.
La disciplina sui parametri non richiede espressamente la necessità del contraddittorio con il contribuente, ma prevede (comma 185) che l’accertamento di cui al comma 181 può essere definito ai sensi dell’articolo 2-bis del decreto-legge 30 settembre 1994, n. 564, convertito, con modificazioni, dalla legge 30 novembre 1994, n. 656, limitatamente alla categoria di reddito che ha formato oggetto di accertamento (accertamento con adesione).
MARCHESELLI 37 ha osservato che “altro profilo di differenza rispetto all’accertamento mediante coefficienti è l’omessa previsione del previo contraddittorio e la sola previsione della possibilità di definizione dell’accertamento con adesione (art. 3, comma 185, legge n. 549/1995). La dottrina ha criticato questa soluzione e sottolineato che il contraddittorio costituisce non solo un mezzo di tutela per il contribuente, ma anche un fattore di acquisizione degli interessi” da parte della Pubblica Amministrazione e, in definitiva, un importante fattore di imparzialità e buon andamento della medesima”.
Ad avviso di MARONGIU38, peraltro, il fatto che il comma 185 dell’art. 3 della legge n. 549 del 1995 “prevede espressamente che l’accertamento in base ai parametri può essere oggetto di adesione del contribuente, previo contraddittorio con l’ufficio” significa che “l’Ufficio notifica apposito invito al contribuente, anche tramite raccomandata, in modo che già in tale sede questi possa far valere le ragioni che giustificano lo scostamento dai parametri”. Peraltro la necessità del previo contraddittorio anche nell’accertamento tramite i parametri, già risultante dal punto 6) della circolare 13 maggio 1996, n. 117/E (All. 2.1.), è stata affermata da Sez. V, sent. n. 2816 del 07/02/2008, Pres. Saccucci, Est. Meloncelli 39, secondo cui:
– anche se non sia espressamente previsto, il contraddittorio procedimentale amministrativo è necessario anche in materia tributaria in forza del principio generale dell’azione amministrativa del giusto procedimento, trattandosi di applicare ad un caso di specie uno dei criteri elaborati per categorie di soggetti e con efficacia di presunzione semplice, che comporta l’inversione dell’onere della prova e il suo caricamento sulle spalle del contribuente;
– la mancata partecipazione del contribuente, debitamente invitato, all’attività amministrativa istruttoria in contraddittorio con l’ufficio tributario legittima l’adozione dell’avviso di accertamento presuntivo;
– la prova che il contribuente non ha dato in sede procedimentale amministrativa può essere da lui fornita in sede processuale40. 4.c. L’elaborazione ed applicazione dei parametri: considerazioni pratiche.
FORTE-FAGIOLO41, così ricostruiscono l’elaborazione ed applicazione dei parametri e la differenza rispetto ai corrispondenti profili relativi agli studi di settore.
Il procedimento di costruzione ed applicazione dei parametri può suddividersi in 4 passaggi: 1) definizione del campione e quindi della base di dati di partenza; 2) creazione dei gruppi omogenei; 3) stima della funzione di ricavo; 4) applicazione all’universo dei contribuenti.
La definizione del campione ha reso necessaria l’eliminazione dei dati provenienti da soggetti che avessero evidenziato forme anomale di conduzione dell’impresa o della professione (ad inizio attività, in fallimento, reddito dichiarato eccessivamente basso ed inferiore al 50 per cento di quello di un proprio addetto, eccetera), e da soggetti che all’interno di ciascun settore di attività non si presentassero coerenti da un punto di vista economico (ad esempio:
indicatori del ricarico o della resa per addetto eccessivamente alti o bassi). Questa scrematura è stata effettuata per avere un campione rappresentativo della fisiologia del fenomeno economico oggetto di studio.
Gli insiemi di contribuenti con caratteristiche simili all’interno del campione sono stati determinati con l’utilizzo di tecniche statistiche multivariate.
Si sono formati gruppi omogenei (con differenze minime all’interno del gruppo e massime fra gruppi) di non meno di 30 soggetti caratterizzati da similitudine con riguardo alle seguenti variabili:
– per le attività imprenditoriali: costo del venduto o costo per la produzione dei servizi; acquisti di servizi; valore dei beni strumentali; quote di ammortamento; quote spettanti ai collaboratori familiari; spese per il personale; partecipazione agli utili; -per le attività professionali: compensi a terzi;
consumi; valore dei beni strumentali; spese per il personale;
spese per i collaboratori; quote di ammortamento; altre spese. All’interno di ogni gruppo omogeneo (per mezzo dei dati ora visti meno le quote d’ammortamento più il reddito medio attribuito ad altri soci o associati in caso di attività svolte collettivamente) si è stimata con una regressione multipla la funzione di ricavo, apportando i correttivi necessari ad ottenere un buon livello di significatività dei dati elaborati.
In buona sostanza si è giunti a definire il modello, ossia i coefficienti che individuano la struttura della relazione tra variabile dipendente (ricavi o compensi) e le variabili indipendenti sopraelencate.
Per l’applicazione (fase 4) si è associato ogni contribuente non ad un solo, ma a più gruppi omogenei e si è determinata la
probabilità di appartenenza. Si tratta di una soluzione che consente di allentare la rigidità delle ipotesi che necessariamente si fanno quando si applicano dei modelli, in particolare si ottiene il risultato di non imprigionare un contribuente ad un gruppo. Il ricavo o compenso presunto è stato ottenuto come media dei ricavi, determinati applicando la funzione di ciascun gruppo, ponderati per la probabilità di appartenere al cluster. Si è applicato un fattore di adeguamento in modo tale da tenere conto della probabilità di errore nella stima. Esso è stato inserito anche per tenere conto del fattore localizzazione, delle diverse situazioni gestionali ed in considerazione del fatto che l’elaborazione è basata sui dati contabili delle dichiarazioni. Il suo funzionamento fa sì che, maggiore è lo scostamento tra ricavo dichiarato e stimato, maggiore sarà l’entità dell’adeguamento, mentre maggiore è l’intervallo di confidenza, minore (proprio perché la stima è meno precisa) sarà tale adeguamento. Potrà, pertanto, capitare che due soggetti, a parità di altri dati rilevanti, ma con ricavi dichiarati differenti, non convergano verso lo stesso valore congruo, ma si verificherà che al soggetto più distante sarà richiesta la correzione maggiore.
La complessa metodologia sin qui descritta è la stessa utilizzata per gli studi di settore.
Le differenze fondamentali sono che questi ultimi prendono a base dati forniti da tutti i contribuenti e non soltanto quelli di un campione, peraltro significativo, ma soprattutto, i parametri non tengono conto, o meglio tengono conto in maniera implicita, di variabili strutturali (non contabili) interne ed esterne, quali le caratteristiche del ciclo produttivo, l’area di vendita, l’andamento della domanda, la concorrenza, la localizzazione, eccetera, che sono invece esplicitate negli studi di settore.
Il fatto che tali fattori influenzino indirettamente la stima di ricavi e compensi effettuata con i parametri deriva proprio dall’effettuazione del raggruppamento, per cui ogni contribuente è associato a quelli più simili per grandezze economiche quali il costo del venduto, gli acquisti di servizi, i beni strumentali, i quali risentono, in vario modo, della concorrenza, della localizzazione e delle infrastrutture presenti.
Altre differenze tra parametri e studi di settore, citate senza pretesa di esaustività, sono date dal fatto che per elaborare questi ultimi sono state coinvolte le associazioni di categoria dei contribuenti.
L’attendibilità della stima di ricavi e compensi dovrebbe essere superiore nel caso degli studi di settore anche per il fatto che in questi ultimi si è tenuto conto di un intervallo di confidenza 42 del 99,99 per cento, mentre per i parametri questo intervallo, inserito nel fattore di adeguamento, è del 95 per cento. L’attribuzione di ricavi o compensi sulla base dello strumento descritto, prescindendo dalle risultanze della contabilità, è operazione che può farsi rientrare nella normalizzazione del reddito. Tale espressione indica la determinazione dell’ammontare di guadagno che un imprenditore o lavoratore autonomo medio, utilizzando giudiziosamente le risorse a disposizione e tenendo conto dei vincoli a cui è sottoposto, è in grado di ritrarre dalla propria attività. Poiché poi questo reddito è ipotetico, generalmente, come nel caso dello strumento in trattazione, si fa riferimento a modelli esistenti, per cui non si calcola un reddito normale in assoluto, ma uno calato nella realtà economica effettiva. I benefici e gli svantaggi di un accertamento basato su grandi medie è argomento dibattuto da tutti, o quasi, gli studiosi della materia tributaria. Sotto i profili di competenza è, e sarà ancor più in futuro, oggetto di interesse dei funzionari del Fisco, e su di esso dovranno interrogarsi i giudici tributari, cui saranno devolute le controversie concernenti lo strumento in esame.
4.d. Segue: considerazioni sulla incoerenza interna dei parametri. La questione è così affrontata da MARONGIU.
Ulteriori questioni concernono la credibilità intrinseca, “astratta” dei parametri. E infatti, il comma 184 dell’art. 3 della legge 28 dicembre 1995, n. 549, nel demandare al Ministero delle finanze l’elaborazione dei parametri, non ha imposto all’amministrazione stessa di rendere pubblici i procedimenti in base ai quali i parametri stessi sono formati. A tale proposito, le uniche (a dir poco scarne) indicazioni provengono dalle “note tecniche” allegate ai decreti del Pres. del Consiglio 29 gennaio 1996 e 17 marzo 1997 nei quali gli stessi sono così sinteticamente descritti:
– identificazione di un campione di contribuenti “economicamente coerente”;
– identificazione di gruppi il più possibile omogenei di contributi al’interno di un’attività economica;
– identificazione di una “funzione di ricavo o compenso” per ogni gruppo omogeneo di contribuenti;
– identificazione di una funzione che permetta di associare qualsiasi contribuente ad uno dei “gruppi omogenei”;
– calcolo di un fattore di adeguamento personalizzato. Come risulta dalla lettura di tali provvedimenti, per ciascuna attività economica presa in considerazione possono essere stati elaborati più parametri, a seconda di quanti “gruppi omogenei” vadano a comporre la singola categoria. Ora, l’inserimento del contribuente nell’ambito- del singolo sottoinsieme avviene secondo una funzione probabilistica non esplicitata nelle menzionate note tecniche.
In pratica, e per essere espliciti, il Ministero ha sì indicato i criteri statistici seguiti nell’elaborazione dei parametri, ma non ha reso esplicito, nella sua interezza, il procedimento in base al quale il reddito del singolo contribuente viene rideterminato, attraverso l’inserimento in un “gruppo omogeneo”.
A tale proposito, nella “nota tecnica e metodologica” n. 2, allegata al d.p.c.m. 29 gennaio 1996, si sostiene di avere proceduto alla “definizione di una probabilità di appartenenza ad ognuno dei gruppi omogenei in base ai valori assunti dalle stesse variabili utilizzati nell’Analisi in Componenti Principali”, mediante “il ricorso ad una tecnica (l’Analisi discriminante) che consente di associare ogni contribuente ad uno dei gruppi omogenei individuati per la sua attività”.
Il decreto, cioè, dice che è stata utilizzata una tecnica per assegnare il contribuente ad un “gruppo omogeneo”, ma non chiarisce in cosa la stessa consista.
Ora, con riferimento alla motivazione dell’accertamento (essa deve descrivere il ragionamento probatorio dell’ufficio, e solo la comprensione di tutto l’iter logico-deduttivo seguito permette al contribuente di apprestare efficaci difese contro la pretesa erariale) nel momento in cui un avviso fa riferimento alla determinazione sulla base dei parametri, è evidente come lo stesso è motivato per relationem, attraverso cioè il rinvio al percorso logico negli stessi cristallizzato, ossia ai criteri e ai procedimenti tecnici utilizzati per la loro costruzione. Appare allora evidente, affinché tale rinvio possa essere validamente operato, “la necessità di una sufficiente informazione, accessibile alla generalità dei contribuenti, circa i dati presi in considerazione, le regole ed i procedimenti tecnici seguiti per determinare il contenuto dei decreti ministeriali sui quali si fondano i singoli accertamenti. Nè varrebbe obiettare che questi elementi riguardano l’eventuale illegittimità dei decreti stessi come tali autonomamente impugnabili ovvero disapplicabili, non i singoli accertamenti; infatti la conoscenza del procedimento seguito (..) è necessaria al contribuente non solo ai fini
dell’impugnazione o della richiesta di disapplicazione del decreto ministeriale, ove possibile, ma anche per argomentare, nel pur limitato ambito concesso dalla legge, l’eventuale “prova contraria” al risultato dell’accertamento” 43.
Orbene, la totale assenza, nei decreti ministeriali in questione, di qualsiasi spiegazione in ordine al collegamento fra “parametri” e “gruppi omogenei” non consente di conoscere il percorso logico-deduttivo seguito dall’ufficio, e rende pertanto l’atto di accertamento suscettibile di contestazione sotto il profilo della motivazione.
Non solo. Da un punto di vista generale, e con particolare riferimento all’impostazione seguita nella loro costruzione, è bene ricordare che:
– i valori delle variabili assunte a base della formazione dei parametri si basano “sui dati contabili contenuti nelle dichiarazioni dei redditi (..) presentate a maggio 1992”, ossia sono dati risalenti all’anno 1991 (come risulta esplicitamente dall’allegato 1 nota tecnica e metodo-logica- al più volte menzionato d.p.c.m. 29 gennaio 1996);
– non esiste alcun “correttivo” fondato sulla collocazione territoriale del soggetto accertato;
– i “beni strumentali”, che costituiscono la prima delle variabili utilizzate per la determinazione presuntiva dei compensi per gli esercenti arti e professioni (cfr. art. 5 del d.p.c.m. 29 gennaio 1996) sono valutati al costo storico, senza tenere conto della loro obsolescenza.
Come messo in evidenza da tempo, inoltre, sussistono talune illogicità anche nei risultati dell’elaborazione. Infatti, soggetti che sostengono ali stessi costi si vedono attribuiti ricavi differenti, in considerazione del fatto che i ricavi dichiarati (ossia il risultato cui l’applicazione dei parametri mira) costituiscono anche una variabile della funzione matematica utilizzata: in pratica, trattasi di variabile “che genera se stessa” . E ancora. Sempre in ragione di tale “variabile anomala”, anche aggiungendo al ricavo dichiarato, e giudicato non congruo, il maggior ricavo presunto dal software (strumento previsto dal 186 comma dell’art. 3 della I. n. 549 del 1995), il contribuente risulterà ancora, comunque, non congruo.
Tutto ciò pare contrastare con quanto stabilito dal 184 comma dell’art. 3 della legge n. 549 cit., e cioè che, attraverso i parametri, siano determinati ricavi, compensi e volume d’affari “fondatamente attribuibili al contribuente in base alle caratteristiche ed alle condizioni dell’attività svolta”, ossia (è da ritenersi) con la massima aderenza possibile al caso oggetto di accertamento.
4.e. I parametri secondo la Corte costituzionale.
La Corte costituzionale si occupò dei parametri in due occasioni. Nella prima, con la sentenza n. 105 del 2003, dichiarò:
– non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 3, commi 181, 182, 183, 184, 185, 186, 187, 188 e 189, della legge 28 dicembre 1995, n. 549 sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 53 Cost., dalla Commissione tributaria provinciale di Sassari;
– la manifesta infondatezza della questione sollevata, riguardo alla medesima norma, in riferimento agli artt. 3 e 23 Cost., dalla Commissione tributaria provinciale di Catania.
Il primo rimettente aveva censurato, in primo luogo, la mancata previsione, ad opera dell’art. 3, comma 184, della legge n. 549 del 1995, di una differenziazione dei parametri in relazione alle diverse realtà territoriali in cui operano le imprese (art. 3 Cost.).
La Corte così motivò la decisione:
In realtà il comma 184 dell’art. 3 cit., dispone espressamente che i parametri devono essere elaborati “in base alle caratteristiche e alle condizioni di esercizio della specifica attività svolta”. Sul piano operativo, poi, la nota tecnica allegata al d.P.C.M. emanato nel 1996 ai sensi del comma 186 dell’art. 3 cit., al punto 1 (Criteri per la costituzione dei parametri), chiarisce che le tecniche statistiche di elaborazione dei parametri sono finalizzate, tra l’altro, a cogliere (OMISSIS) le differenze territoriali e locali” ed al punto 2 (Applicazione dei parametri all’universo dei contribuenti) prevede “un fattore di adeguamento personalizzato in modo da tener conto della probabilità di errore nella stima”, considerando le “diverse situazioni gestionali e dell’influenza della localizzazione per la parte non colta” dalla stima. In tale quadro, la lamentata assenza di una differenziazione di parametri non è certamente riferibile alla legge oggetto del presente giudizio, ma semmai alle concrete modalità applicative del metodo statistico e dei suoi correttivi; sicché la censura è rivolta, di fatto, avverso disposizioni subprimarie di attuazione, come tali sottratte al controllo di questa Corte, ma sindacabili dal giudice competente per il merito.
La seconda censura della Commissione tributaria provinciale di Sassari era relativa alla mancata previsione (da parte dell’art. 3, comma 181, lettera a) per le imprese ed i professionisti in contabilità semplificata, della sequenza procedimentale, prevista invece per gli imprenditori in regime di contabilità ordinaria (ai quali i parametri sono applicati solo qualora dal verbale di ispezione, redatto ai sensi dell’art. 33 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, risulti l’inattendibilità della contabilità) . La Corte così motivò la decisione, incidentalmente qualificando gli accertamenti tramite i parametri come presunzioni semplici:
Il meccanismo di accertamento in base ai parametri, previsto dalla norma impugnata, costituisce disciplina transitoria (applicabile ai soli esercizi 1995, 1996 e 1997) collocata tra il vecchio sistema dell’accertamento secondo i coefficienti presuntivi di cui al d.l. n. 69 del 2 marzo 1989 ed il nuovo sistema degli studi di settore (in vigore dall’esercizio 1998). A differenza dei coefficienti presuntivi, i parametri prevedono un sistema basato su presunzione semplice la cui idoneità probatoria è rimessa alla valutazione del giudice di merito, in assenza di previsioni procedimentalizzate circa la partecipazione del soggetto passivo alla fase istruttoria che precede l’emanazione dell’atto di accertamento (anche se, in realtà, le circolari n. 136/99 e n. 157/2000 prevedono forme di contatto preventivo tra amministrazione e contribuente assoggettato). Posta la differenza, riconosciuta anche da questa Corte (v. sentenza n. 384 del 1997), tra il sistema di contabilità ordinaria e quello di contabilità semplificata, è evidente che, per gli imprenditori che abbiano scelto quest’ultimo regime contabile, l’assenza di dati contabili documentali da verificare rende priva di senso la previsione di un contraddittorio in una sede ispettiva, la quale rimarrebbe, in fin dei conti, sprovvista di oggetto: sicché la questione sollevata con riguardo alla mancata previsione del meccanismo ispettivo non è meritevole di accoglimento. Con riguardo, poi, al problema della mancata possibilità di scelta preventiva del sistema di contabilità, merita di essere condivisa la sostanzialmente uniforme giurisprudenza di legittimità, elaborata in relazione ai coefficienti del redditometro, la quale nega l’esistenza di un problema di retroattività con riguardo a redditometri contenuti in decreti ministeriali emanati successivamente al periodo di imposta da verificare, poiché il potere in concreto disciplinato è quello di accertamento, sul quale non viene ad incidere il momento della elaborazione. La Corte costituzionale dichiarò, poi, manifestamente infondata la questione sollevata dalla Commissione tributaria provinciale di Catania, relativamente alla violazione della riserva di legge ex art. 23 Cost., posto che la “prestazione tributaria”, conseguente all’accertamento risultava fondata sul d.P.C.M. 29 gennaio 1996 avente invece natura amministrativa.
La Corte così motivò la decisione:
Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte – la riserva di legge di cui all’art. 23 (riferibile anche alle norme procedimentali che disciplinano gli accertamenti presuntivi) pone al legislatore l’unico obbligo di determinare preventivamente e sufficientemente criteri direttivi di base e linee generali di disciplina della discrezionalità amministrativa (v., da ultimo, ordinanze n. 323 del 2001 e n. 7 del 2000).
Nel caso di specie, come esattamente osservato dall’Avvocatura dello Stato, “le norme impugnate valgono a delineare ogni aspetto fondamentale dell’accertamento fiscale fondato su parametri presuntivi, definendone la tipologia di accertamento (analitico presuntivo ex art. 39, comma 1, del d.P.R. n. 600 del 1973), l’ambito di applicazione soggettivo ed oggettivo (art. 3, commi 181 e 182), le modalità di determinazione dell’aliquota media ai fini del calcolo della maggiore imposta dovuta (comma 183), i criteri generali di elaborazione dei parametri (comma 184), il procedimento di accertamento (comma 185) e l’ambito temporale di applicazione (comma 189).
Successivamente, con l’ordinanza n. 140 del 2003, la Corte Costituzionale dichiarò la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, commi 181, 184 e 186, della legge 28 dicembre 1995 n. 549 sollevata, in riferimento agli artt. 23, 53 e 95 Cost., dalla Commissione tributaria provinciale di Milano e dell’art. 3, commi 184 e 186, della stessa legge 28 dicembre 1995, n. 549, con riferimento agli artt. 23, 24 e 53 Cost., dalla Commissione tributaria provinciale di Napoli, nonché la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 3, commi 181, 184 e 186, della legge 28 dicembre 1995, n. 549 sollevata, in riferimento all’art. 24 Cost., dalla Commissione tributaria provinciale di Milano. A sostegno della decisione la Corte affermò:
– che le questioni sollevate con riferimento all’art. 23 Cost. (e, conseguentemente, agli artt. 53 e 95 Cost.) sono manifestamente infondate, non essendo dedotta ragione alcuna che possa indurre questa Corte a discostarsi da quanto statuito – in coerenza con la propria giurisprudenza sulla natura della riserva di legge di cui all’art. 23 Cost. – con riguardo all’art. 3 della legge n. 549 del 1995 (sentenza n. 105 del 2003);
– che manifestamente infondata è, altresì, la questione sollevata dalla Commissione tributaria provinciale di Napoli, in riferimento all’art. 24 Cost., sotto il profilo che la norma impugnata creerebbe una “presunzione assoluta-aprioristica”, dal momento che “i “parametri” prevedono un sistema basato su presunzione semplice la cui idoneità probatoria è rimessa alla valutazione del giudice di merito” (sentenza n. 105 del 2003);
– che la questione sollevata dalla Commissione tributaria provinciale di Milano, in riferimento all’art. 24 Cost., relativamente all’esclusione della prova testimoniale, è manifestamente inammissibile, non risultando in alcun modo motivata la rilevanza nei giudizi a quibus della questione concernente la prova testimoniale.
4.f. La giurisprudenza della Sezione V sui parametri. Quanto ai soggetti destinatari degli accertamenti tramite i parametri, si fa leva sull’art. 3, comma 181, della legge n. 549 del 1995, da cui “si deduce chiaramente che indefettibile presupposto per l’applicazione dei parametri di cui al d.P.C.M. 29 gennaio 1996, ai professionisti che abbiano optato per il regime di contabilità ordinaria è che la stessa sia risultata inattendibile nel corso di un’ispezione. La “ratio” della diversa disciplina risiede nel fatto che il contribuente che opta per il regime semplificato sa di esporsi ad un accertamento semplificato sulla base di parametri contabili, non potendo offrire lo scudo di una contabilità ordinaria44″.
Riguardo alla natura degli accertamenti tramite i parametri, va registrato il riferimento al concetto sia di presunzione legale, che di presunzione semplice.
Sotto il primo profilo, Sez. V, sent. n. 24912 del 10/10/2008, Pres. Papa, Est. D’Alonzo (Rv. 604850) afferma
In tema di accertamento dell’IVA, i parametri previsti dall’art. 3, comma 181, della legge 28 dicembre 1995, n. 549 e dal successivo d.p.c.m. in data 29 gennaio 1996, sono fondati su una presunzione legale relativa, con la conseguenza che il contribuente può sempre dimostrare l’insussistenza dei presupposti per l’applicazione dei maggiori indici di reddito in essi previsti, dando prova di specifiche circostanze che rivelino il conseguimento di un ammontare di ricavi inferiore; i coefficienti presuntivi di reddito rappresentano, infatti, un valore minimale nella determinazione del volume d’affari, che si pone alla base dell’accertamento del reddito in un’ottica statistica, non astratta, bensì riferita al singolo settore economico.
Peraltro la sentenza, in motivazione, sembra introdurre la distinzione tra i parametri in sè, che “non costituiscono prove neppure presuntive di reddito” e la loro applicazione, che “pone una presunzione legale relativa”.
I coefficienti presuntivi di reddito di cui al d.P.C.M. 29 gennaio 1996 (parametri) .. non costituiscono prove neppure presuntive di reddito e non possono da soli sostenere un avviso di accertamento di maggiore imponibile; in caso di discordanza tra quanto dichiarato e quanto risultante dai calcoli in forza ai c.d. parametri, non sussiste una presunzione iuris tantum a favore dell’Ufficio, con conseguente inversione dell’onere della prova”) – l’applicazione dei parametri pone (Cass. trib.: 14 marzo 2008 n. 6924; 14 febbraio 2007 n. 3223, tra le recenti) una presunzione legale relativa, superabile solo con la prova contraria, data dal contribuente, con la dimostrazione di circostanze specifiche le quali rivelino concretamente il conseguimento di un ammontare di ricavi inferiore in quanto i coefficienti presuntivi di reddito rappresentano un valore minimale nella determinazione del volume d’affari, che si pone alla base dell’accertamento del reddito in un’ ottica statistica, ma non astratta, riferita a un determinato settore economico 45.
Successivamente, nello stesso senso, si è pronunciata la sentenza n. 8420 del 07/04/2009, Pres. Magno, Est. Di Iasi 46.
In questo contesto, sembrano emergere spazi per la sufficienza dello scostamento dai parametri a fondare l’accertamento, salva la prova contraria del contribuente. È questa la linea suggerita dalla sentenza n. 3288 del 11/02/2009, Pres. D’Alonzo, Est. D’Alonzo così massimata (Rv. 606710):
“L’ufficio che procede ad accertamento dell’imposta sui redditi ai sensi dell’articolo 39, primo comma, lettera d), del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, avvalendosi, ai sensi dell’art. 3, comma 181, della legge 28 dicembre 1995, n. 549, dei parametri per la determinazione presuntiva dei ricavi, dei compensi e del volume d’affari previsti dal successivo comma 184, e poi specificati dal d.P.C.M. 29 gennaio 1996, non deve apportare alcun elemento atto a confortare il proprio diverso accertamento, perché gli elementi considerati nell’elaborazione dei parametri stessi e l’applicazione di questi ai dati esposti dal singolo contribuente hanno già i caratteri della presunzione legale, quali richiesti dal primo comma dell’art. 2728 cod. civ., e sono di per sè idonei a fondare un corrispondente accertamento, restando comunque consentito al contribuente di provare, anche con presunzioni, la cui valutazione è rimessa al prudente apprezzamento del giudice, l’inapplicabilità dei parametri alla sua posizione reddituale”.
In motivazione si legge:
(…) l’art. 3, comma 181 (…) dispone (testualmente) che “fino alla approvazione degli studi di settore, gli accertamenti di cui al d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, lett. d),.. possono essere effettuati, senza pregiudizio della ulteriore azione accertatrice .. utilizzando i parametri di cui al comma 184 del presente articolo ai fini della determinazione presuntiva dei ricavi, dei compensi e del volume d’affari”.
Dall’analisi letterale della norma si ricava che l’Ufficio è autorizzato ad utilizzare – ai fini del particolare accertamento previsto dal d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, lett. d), (per il quale l’ufficio procede a “rettifica” dei “redditi d’impresa delle persone fisiche”, tra altre ipotesi, allorché “l’esistenza di attività non dichiarate o la inesistenza di passività dichiarate è desumibile anche sulla base di presunzioni semplici, purché queste siano gravi, precise e concordanti”), ovverosia, come si esprime la norma, “ai fini della determinazione presuntiva dei ricavi, dei compensi e del volume d’affari” – “i parametri di cui al comma 184” dello stesso art. 3, più specificamente (comma 184) “parametri in base ai quali determinare i ricavi, i compensi ed il volume d’affari fondatamente attribuibili al contribuente in base alle caratteristiche e alle condizioni di esercizio della specifica attività svolta”.
I “parametri di cui al comma 184”, quindi, per espressa disposizione di legge, possono essere utilizzati dall’ufficio allo specifico fine della “determinazione presuntiva dei ricavi, dei compensi e del volume d’affari”, cioè per determinare, in via presuntiva, gli elementi reddituali propri delle imposte sui redditi e sul valore aggiunto: il risultato dell’applicazione dei “parametri”, pertanto, per espressa previsione legislativa, costituisce (ipotesi di) determinazione “presuntiva” di ricavi, di compensi e di volumi di affari “fondatamente attribuibili al contribuente”. In particolare va evidenziato che il fondamento (“fondatamente”) dell’attribuibilità al contribuente di “ricavi”, “compensi” e/o del “volume d’affari” determinati con i “parametri” discende dal fatto che il comma 184, ai fini dell’elaborazione dei parametri stessi, impone, innanzi tutto, di identificare “caratteristiche e condizioni di esercizio della specifica attività svolta” e, “in riferimento a settori omogenei di attività”, “campioni di contribuenti che hanno presentato dichiarazioni dalle quali si rilevano coerenti indici di natura economica e contabile”, sulla base dei quali determinare, poi, “parametri che tengano conto delle specifiche caratteristiche della attività esercitata”.
Il risultato dato dall’applicazione, ai dati dichiarati dal contribuente, dei “parametri”, giusta l’art. 2727 c.c. (“le presunzioni sono le conseguenze che la legge o il giudice trae da un fatto noto per risalire a un fatto ignorato”) integra una ipotesi di presunzione propriamente legale in favore dell’Ufficio perché la valutazione della derivazione del fatto ignoto (maggior reddito o maggiori corrispettivi) tradibile dai fatti noti (gli elementi considerati per la fissazione di ciascun parametro nonché i dati rilevanti a fini impositivi dichiarati da ciascun contribuente) – ovverosia dell’esistenza del carattere della gravità, precisione e concordanza dei fati noti ai fini della conoscenza del fatto ignorato – non è affidata alla valutazione del giudice ma è posta direttamente dalla norma.
Di conseguenza, per l’art. 2728 c.c., comma 1, (“le presunzioni legali dispensano da qualunque prova coloro a favore dei quali esse sono stabilite”), l’ufficio, quando fonda il proprio accertamento sul risultato dell’applicazione dei “parametri” de quibus, diversamente da quanto sostenuto dal contribuente (il quale lamenta la “omessa effettiva ricostruzione del reddito” da parte dell’Ufficio), non deve apportare “alcun elemento atto a confortare il proprio diverso accertamento” perché gli elementi considerati nella elaborazione dei “parametri” e l’applicazione di questi ai dati esposti dal singolo contribuenti, per volontà del legislatore, hanno già i caratteri propri delle “presunzione”, quali richiesti dell’art. 2729 c.c., comma 1, e sono di per sè soli idonei a fondare un corrispondente accertamento.
Ovviamente, come ripetutamente affermato da questa sezione (sentenze 30 giugno 2006 n. 15124, 13 dicembre 2003 n. 19163 e 14 maggio 2003 n. 7420) “in ipotesi di legittima utilizzazione dei coefficienti presuntivi da parte dell’amministrazione finanziaria, è sempre consentito al contribuente di provare, anche con presunzioni (che il giudice deve configurare e valutare nel suo prudente apprezzamento), la inapplicabilità dei parametri alla sua posizione reddituale. A questa prospettiva, pur senza fare espresso riferimento al concetto di presunzione legale, sembra aderire la sentenza n. 10945 del 14/05/2007, Pres. Raggio, Est. Merone, in relazione ad una fattispecie in cui l’avviso era stato emesso sulla base dei parametri di cui al d.P.C.M. 29 gennaio 1996, ha affermato che l’applicazione degli stessi “non necessita di motivazione specifica. È sufficiente l’indicazione dell’applicazione di tali parametri, in relazione ai quali, poi, è il contribuente a dovere, e potere, eccepirne la inapplicabilità per ragioni contingenti, collegate a specifiche realtà locali, eventi straordinari e così via47″. Altre decisioni, però, non fanno riferimento al concetto di presunzione legale relativa ed affermano la natura meramente presuntiva dei parametri, i quali ” rappresentano non già un fatto noto storicamente verificato, suscettibile di evidenziare in termini di rilevante probabilità l’entità dei ricavi del contribuente medesimo, ma, piuttosto, il risultato di una estrapolazione statistica di una pluralità di dati settoriali, che fissa soltanto una regola di esperienza. Pertanto, tali valori sono espressione di presunzioni non qualificabili come gravi, precise e concordanti, indicando, diversamente dai risultati valutativi emergenti da medie elaborate con riferimento all’andamento economico della specifica impresa interessata, solo in via ipotetica la redditività dell’attività dell’impresa medesima, cosicché, laddove essi siano contestati sulla base di allegazioni specifiche, si rivelano inidonei a suffragare la fondatezza dell’accertamento, ai sensi dell’art. 39, comma 1, lett d) del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 ove non risultino confortati da elementi concreti derivanti dalla realtà economica dell’impresa ” [Sez. V, sent. n. 26459 del 04/11/2008, Pres. D’Alonzo, Est. Cappabianca (Rv. 605429) 48]. Affermano altresì la natura meramente presuntiva dei parametri:
– sent. n. 23602 del 15/09/2008, Pres. Papa, Est. Sotgiu (Rv. 604439): ” (…) i parametri previsti dall’art. 3, comma 181, della legge 28 dicembre 1995, n. 549 e dal successivo d.p.c.m. in data 29 gennaio 1996, come tutti i parametri utilizzati dall’amministrazione finanziaria ai fini dell’accertamento induttivo, sono soltanto presuntivi, con la conseguenza che il contribuente può sempre dimostrare l’insussistenza dei presupposti per l’applicazione dei maggiori indici di reddito in essi previsti, tenuto, altresì, conto che, per espressa previsione di legge (art. 4, comma 1 del d.P.R. 31 maggio 1999, n. 195, in riferimento all’art. 10 comma 4, della legge 8 maggio 1998, n. 146), essi non trovano applicazione nei confronti dei soggetti per i quali operano le cause di esclusione degli accertamenti basati sugli studi di settore, allorché riguardino un periodo di svolgimento anomalo dell’attività del contribuente49″;
– sent. n. 27648 del 21/11/2008, Pres. D’Alonzo, Est. Sotgiu (Rv. 605855) : “(…) i parametri disciplinati dall’art. 3, comma 181, della legge 28 dicembre 1995, n. 549 e dal successivo d.p.c.m. 29 gennaio 1996, possono, alla stregua di tutti gli altri parametri presuntivi utilizzati per l’accertamento, essere contrastati, in ordine alla loro congruità, da contribuenti che siano in grado di dimostrare l’insussistenza di maggiori indici di reddito in essi previsti: detti parametri, infatti, a differenza dei coefficienti presuntivi di cui al d.l. 2 marzo 1989, n. 69, danno luogo ad un sistema di presunzioni semplici che non richiedono la presenza di specifiche e tipiche previsioni agevolative, ben potendo la prova contraria essere costituita anche da presunzioni formulate dal contribuente50″;
– sent. n. 4148 del 20/02/2009, Pres. Miani Canevari, Est. Cappabianca (Rv. 606845): ” (…) i parametri previsti dall’art. 3, commi da 181 a 187, della l. 28 dicembre 1995, n. 549 e dal successivo d.p.c.m. 29 gennaio 1996, quest’ultimo come modificato dal d.p.c.m. 27 marzo 1997, non costituiscono un fatto concreto noto e certo, specificamente inerente al contribuente, suscettibile di evidenziare in termini di rilevante probabilità l’entità del suo reddito, ma rappresentano la risultante dell’estrapolazione statistica di una pluralità di dati settoriali acquisiti su campioni di contribuenti e dalle relative dichiarazioni. Pertanto, tali coefficienti rivelano valori che, quando eccedono il dichiarato, integrano il presupposto per il legittimo esercizio da parte dell’Ufficio dell’accertamento analitico-induttivo ex art. 39, comma 1, lett. d) del d.P.R. n. 600 del 1973, ma, ove siano contestati sulla base di allegazioni specifiche, sono inidonei a supportare l’accertamento medesimo, se non confortati da elementi concreti desunti dalla realtà economica dell’impresa”. (Nella specie la S.C. ha cassato la sentenza della commissione tributaria regionale che aveva attribuito valore presuntivo ai dati parametrici, non solo contestati dal contribuente, ma riconosciuti inidonei dallo stesso Ufficio finanziario, seppure ai fini di un accertamento adesivo non andato a buon fine) 51.
Quanto alla motivazione degli accertamenti basati sui parametri, la sentenza n. 6758 del 21/03/2007, Pres. Paolini, Est. Genovese, ha affermato che “nella sola ipotesi di dati certi ed incontestati, può essere esclusa la necessità di una motivazione specifica sui criteri in concreto adottati per pervenire alle poste di reddito fissate in via sintetica (come nel cosiddetto redditometro), in quanto esse, proprio per fondarsi su parametri fissati in via generale, si sottraggono all’obbligo di motivazione, secondo il principio stabilito dalla legge 7 agosto 1990, n. 241, art. 3, comma 2, in presenza di mancata contestazione (sentenza n. 327 del 200652); che, al contrario, quando (…) il quadro considerato dal giudice risulti corredato solo dagli indizi offerti dai parametri astratti, e questo sia stato contestato e sminuito, proprio in ragione dell’allegazione e della prova (non specificamente contestata dall’Agenzia) di ulteriori circostanze e di variabili (di età, di professione, di economia locale più arretrata rispetto a quella nazionale, di tempo, ecc..), a fronte delle quali nessuna contestazione specifica sia stata formulata dall’Agenzia, il peso probatorio degli elementi astratti viene a scemare e a rivelarsi inidoneo all’accertamento operato solo in via sintetica”. Ancor più netta è la sentenza n. 10945 del 14/05/2007, Pres. Raggio, Est. Merone, cit., secondo cui l’applicazione dei parametri “non necessita di motivazione specifica. È sufficiente l’indicazione dell’applicazione di tali parametri, in relazione ai quali, poi, è il contribuente a dovere, e potere, eccepirne la inapplicabilità per ragioni contingenti, collegate a specifiche realtà locali, eventi straordinari e così via”.
Si è però distinto tra il profilo relativo alla motivazione e quello concernente la prova: ” (..) posto che l’avviso di accertamento ha la funzione di delimitare l’ambito delle contestazioni proponibili dall’Ufficio e di mettere il contribuente in grado di conoscere l'”an” ed il “quantum” della pretesa tributaria, per approntare idonea difesa, nel caso di accertamento delle imposte sui redditi in base a parametri (nella specie, quelli di cui all’art. 3, comma 181, della legge 28 dicembre 1995, n. 549 e dal successivo d.p.c.m. 29 gennaio 1996), l’obbligo di motivazione dell’avviso di accertamento deve ritenersi assolto con l’enunciazione dei presupposti dei parametri adottati e delle relative risultanze, mentre le questioni attinenti l’idoneità del criterio parametrico applicato in concreto attengono al diverso piano della prova della pretesa tributaria53″.
È infine emerso il principio della prevalenza degli studi di settore sui parametri .
Oltre alla sentenza n. 23602 del 2008, cit., che, riprendendo il dato normativo afferma che i parametri non trovano applicazione nei confronti dei soggetti per i quali operano le cause di esclusione degli accertamenti basati sugli studi di settore, allorché riguardino un periodo di svolgimento anomalo dell’attività del contribuente, si veda la sentenza n. 9613 del 11/04/2008, Pres. Lupi, Est. Lupi (Rv. 604394) che ha confermato la sentenza di merito la quale aveva fatto applicazione, in luogo dei parametri, degli studi di settore successivamente approvati in relazione al settore economico cui apparteneva il contribuente interessato dall’accertamento.
In tema di accertamento delle imposte, deve ritenersi incensurabile la decisione del giudice di merito di determinare il reddito ai fini IVA ed ILOR di una società di persone riferendosi alla normativa ex art. 62 bis del d.l. n. 331 del 1993, conv. in legge n. 427 del 1993, sui cosiddetti studi di settore, anche se successivamente introdotti (ed entrati in vigore nell’anno 1998) rispetto ai parametri di cui all’art. 39 del d.P.R. n. 600 del 1973 vigenti all’epoca dell’accertamento, attesa la natura più raffinata del nuovo mezzo di accertamento desumibile dalla normativa che lo ha introdotto. Ciò in quanto ” la giurisprudenza di questa Corte ha ritenuto costantemente la possibilità di applicazione retroattiva degli studi di settore (cfr. tra le tante Cass. n. 1790 del 2005), attesa la natura più raffinata del nuovo mezzo di accertamento desumibile dalla norma che lo ha introdotto, non sembra censurabile sui piano della logicità la decisione di merito ove ha deciso di preferire per l’anno in questione il dato degli studi di settore rispetto a quello dei parametri54 “.
Il principio era stato affermato anche dalla giurisprudenza di merito ed in particolare da Comm. trib. reg. Bari, Sez. XIV, 29 settembre 2006 n. 70 55 secondo cui ” l’elaborazione degli studi di settore, le cui risultanze siano applicabili alla posizione tributaria del contribuente oggetto di verifica da parte dell’Amministrazione finanziaria è sufficiente – come anche attestato dai consolidati chiarimenti della prassi – a far prevalere tale valutazione su quella rinvenibile dall’accertamento fondato sui parametri di cui all’art. 3 della legge n. 549 del 1995 nella misura in cui i dati reddituali rientrino nel grado di congruità richiesto”. La sentenza ricorda che “la circolare n. 25/E del 14 marzo 2001, nel richiamare le istruzioni già fornite con circolari n. 117/E del 13 maggio 1996 e n. 175/E del 2000, chiarisce che, qualora l’ammontare di ricavi o compensi risultante dall’applicazione dei parametri sia superiore a quello attribuibile al contribuente in base allo studio di settore approvato per l’attività in esame, l’ufficio deve tener conto in sede di contraddittorio di quest’ultimo risultato ai fini della valutazione della posizione fiscale del contribuente che, può motivare e documentare idoneamente le ragioni in base alle quali la dichiarazione dei ricavi o compensi di ammontare inferiore a quello presunto in base ai parametri possono ritenersi in tutto o in parte giustificate”.
Del principio di prevalenza degli studi di settore sui parametri, ha poi fatto applicazione Sez. V, Ord. n. 30188 del 23/12/2008, Pres. ed Est. Lupi, sia pure in sede di motivazione “ad abundantiam”, riguardo all’inapplicabilità degli accertamenti tramite parametri nei confronti dei contribuenti che abbiano cessato l’attività nell’anno, espressamente prevista in tema di studi di settore. Nella fattispecie la C.T.R. aveva annullato un avviso di accertamento per IRPEF 1996, ritenendo che le presunzioni stabilite dai parametri erano vinte dalla circostanza che il contribuente avesse cessato nell’anno la sua attività professionale e che pertanto si doveva presumere che avesse chiuso le attività in corso senza attivarne altre e l’Agenzia delle Entrate aveva proposto ricorso per cassazione, denunciando violazione degli artt. 2727 e 2729 cod. civ..
La Corte ha ritenuto il motivo ” insieme inammissibile e infondato”. Inammissibile perché censura l’accertamento di fatto della gravità e precisione di una presunzione denunziando una insussistente violazione di legge e non vizi della motivazione che: sorregge detto accertamento. Infondato in quanto la presunzione è divenuta a sensi della L. n. 146 del 1998, art. 10, comma 4, lett. b, presunzione legale di inapplicabilità dei criteri presuntivi, siano essi i parametri o gli studi di settore, all’ipotesi di cessazione nell’anno dell’attività professionale, norma applicabile retroattivamente in quanto a sensi del d.l. n. 331 del 1993, art. 62 bis, istitutiva degli studi di settore, costituisce un criterio di valutazione migliore degli elementi presuntivi rispetto ai precedenti parametri.
4.g. La dottrina sulla natura dei parametri.
La dottrina non si è diffusamente occupata della natura giuridica e della valenza probatoria dei parametri, probabilmente per la natura transitoria in attesa dell’entrata in vigore degli studi di settore. MARCHESELLI 56 incentra la propria analisi sulla mancanza di chiare indicazioni del testo normativo, senza prendere espressamente posizione sulla natura degli accertamenti tramite i parametri:
La dizione legislativa, generica circa i presupposti, rappresentava, rispetto alla minimum tax, un passo indietro: un ritorno a una base allargata per la elaborazione delle presunzioni. Tale sistema evitava le critiche relative al riferimento esclusivo al contributo diretto lavorativo. Ugualmente è a dirsi della soppressione della riscossione anticipata e della limitazione della prova contraria. Si possono richiamare le conclusioni già svolte circa l’accertamento tramite coefficienti presuntivi, con le precisazioni che seguono. La lettera delle disposizioni relative è ugualmente neutra circa la natura del meccanismo presuntivo. La norma parla di potere di accertamento in base ai parametri. Attira l’attenzione il fatto che tale accertamento avviene “senza pregiudizio della ulteriore azione accertatrice concernente le altre categorie di reddito”. Interpretata a contrario, la norma attribuisce portata esclusiva a tale forma di accertamento, per le categorie di reddito contemplate e per i contribuenti cui essa si applicava. Così intesa, essa però sacrificherebbe tutto il patrimonio di conoscenza acquisibile dagli uffici attraverso altre metodologie. Non è una interpretazione necessitata: l’uso del verbo potere fornisce un appiglio testuale per concludere che si tratta di una agevolazione normativa della attività di accertamento, che non esclude il ricorso, nel caso, agli strumenti ordinari57.
PATRIZI58, afferma che “i parametri rappresentano una presunzione semplice di tipo grave, precisa e concordante [richiesta per effettuare gli accertamenti di cui all’art. 39 comma 1 lett. d) del d.P.R. 600/73], qualora i contribuenti in contabilità semplificata non abbiano adeguato, in sede di dichiarazione dei redditi e dell’imposta sul valore aggiunto, i ricavi o i compensi scaturenti dalla loro attività secondo i parametri contenuti nel d.P.C.M. 29 gennaio 1996 e in base al cosiddetto “fattore di adeguamento” di cui al d.P.C.M. 27 marzo 1997″.
ANTICO59, si limita ad affermare che “nell’attività parametrica si realizza l’inversione dell’onere della prova e pertanto il contribuente o il suo rappresentante, deve fornire, in sede di contraddittorio, la cosiddetta prova contraria, motivando e documentando, idoneamente e validamente, le ragioni in base alle quali i ricavi o i compensi dichiarati sono inferiori a quelli presunti dai parametri e congrui in relazione alle concrete modalità di svolgimento dell’attività”.
Secondo FAZZINI60 “.. il nuovo accertamento in base ai parametri non può che configurarsi come un accertamento fondato su presunzioni semplici in relazione alle quali la valutazione circa la loro idoneità ai fini della prova indiretta del fatto ignoto è interamente rimessa al prudente apprezzamento del giudice di merito”. Anche MARONGIU61, ritiene che le risultanze dei parametri rappresentano delle presunzioni semplici in considerazione del rinvio operato dall’art. 3, comma 181, della legge n. 549 del 1995 all’art. 39, primo comma, lettera d) del d.p.r. n. 600 del 1973, pur precisando che, “ove comunque non si convenga con tale inquadramento, e pertanto si ritenga che gli stessi rappresentino presunzioni legali relative, in quanto elementi forniti ex lege dei requisiti di gravità, precisione e concordanza di cui all’art. 39 del d.p.r. n. 600 cit., è comunque possibile far valere tutti gli elementi che giustificano uno scostamento dalle situazioni di “normalità” che lo schema dei decreti ministeriali presuppone. Questo insegna la giurisprudenza per la quale occorre escludere una acritica applicazione dei parametri che prescinda dalla valutazione “della adattabilità e congruità con riferimento alla specifica situazione esaminata da esplicitarsi nella motivazione dell’avviso di accertamento”.
Di presunzione legale parla, invece, PAPA62:
…. è indubbio che ci troviamo di fronte ad una rettifica nella quale lo scostamento, tra l’ammontare dei ricavi o compensi dichiarati e quelli desumibili dai parametri, integra di per sè una presunzione legale, con inversione dell’onere della prova. Infatti non è l’Ufficio a dovere dimostrare la presunta condotta evasiva del contribuente, ma è quest’ultimo che deve dimostrare in che modo la sua condotta non abbia concretizzato un’evasione. Si ritiene che la legittimità di tali presunzioni possa essere suffragata dalle seguenti considerazioni.
Ai sensi del comma 186 dell’art. 3 citato “il Ministero delle Finanze provvede alla distribuzione gratuita, anche tramite le associazioni di categoria e gli ordini professionali, dei supporti meccanografici contenenti i programmi necessari per il calcolo dei ricavi o dei compensi sulla base dei parametri”.
Per evitare l’accertamento, il comma 188 ha riconosciuto ai contribuenti la facoltà di indicare nella dichiarazione dei redditi i componenti positivi determinabili in base ai parametri. Nelle circolari n. 117 del 13 maggio 1996, n. 203 del 20/10/1999 e n. 57 del 7/8/2000 sono stati previsti e disciplinati gli inviti degli Uffici al contraddittorio, con lo scopo di riconoscere al contribuente il “diritto di fornire la prova contraria, motivando e documentando idoneamente le ragioni in base alle quali la dichiarazione di ricavi o compensi di ammontare inferiore a quello presunto in base ai parametri può ritenersi giustificata, in relazione alle concrete modalità di svolgimento dell’attività”. In altri termini, la conoscibilità delle modalità di calcolo dei ricavi (sulla base dei parametri), la previsione di un contraddittorio finalizzato a riconoscere al contribuente la facoltà di giustificare lo scostamento, dimostrando la non applicabilità dei parametri in relazione alle specifiche condizioni di esercizio della propria attività (prova contraria), l’individuazione (art. 3 d.P.C.M. 29/1/96) delle categorie dei contribuenti esclusi dall’elaborazione dei parametri, sono elementi convincenti per ritenere i parametri legittimi in quanto presunzioni legali relative.
A tale riguardo non è senza importanza ricordare che la Corte Costituzionale ha costantemente escluso, in linea generale, l’illegittimità costituzionale del ricorso a prove legali ed a presunzioni in materia tributaria. In questo senso si era espressa con la sentenza n. 50 del 26/6/65, dichiarando non fondata la questione di legittimità costituzionale di norme che prevedano un sistema di prove legali per la determinazione dell’esistenza del presupposto dell’obbligazione tributaria e della sua entità concreta.
Ciò fu confermato nella sentenza n. 103 del 1983 nella quale si stabilì che la configurazione di prove legali rigorose, in materia tributaria, non comporta l’attribuzione di una base fittizia all’imposizione e si sottolineò che in tale materia la prova legale mira a tutelare l’interesse generale alla riscossione dei tributi contro le evasioni, affermandosi che rientra nella discrezionalità del legislatore, non sindacabile in sede di giudizio di costituzionalità, ove non trasmodi in palese arbitrarietà o irrazionalità, la scelta dei meccanismi probatori che si ritengano maggiormente idonei a conseguire tale risultato.
In altri termini (Corte Costituzionale n. 200 del 1976), le presunzioni, per potere essere considerate in armonia con il principio della capacità contributiva sancito dall’art. 53 della Costituzione, devono essere confortate da elementi concreti che le giustifichino razionalmente.
Infine (Corte Costituzionale n. 22 del 1992), nell’esaminare l’art. 2 comma 29 del d.l. 19 dicembre 1984 n. 853 convertito nella legge 17 febbraio 1985 n. 17, il Giudice delle leggi, ribadita, in linea di principio, la legittimità del ricorso a presunzioni in materia tributaria purché non irragionevoli e fondate su indici concretamente rivelatori di ricchezza, ritenne giustificata l’assunzione degli elementi indicati in tale norma ad indici di significazione di conseguiti ricavi. Con la stessa pronuncia si ritenne ragionevole l’utilizzazione di parametri conoscitivi extracontabili nei confronti di soggetti che si avvalgono di scritture semplificate che, in quanto tali, non necessitano di essere previamente smentite in forme predeterminate. L’A. affronta poi il tema, nella prospettiva della tesi accolta, della motivazione degli accertamenti basati sui parametri. In relazione alla tesi, secondo la quale la rettifica derivante dall’applicazione dei parametri sarebbe viziata per difetto di motivazione, si osserva che, dall’esame della disciplina normativa prima esposta, tale eccezione appare sicuramente infondata, anche perché ha un vizio logico, giacché non tiene conto che l’accertamento si fonda su presunzioni legali, per le quali è esclusa qualsiasi rilevanza di ordine probatorio.
In altri termini, è auspicabile che gli Uffici (…), dopo avere esposto i motivi di determinazione del reddito secondo le regole dei parametri (e degli studi di settore, quando saranno utilizzati per i controlli delle dichiarazioni dei redditi), in presenza di seri elementi od indizi, diversi rispetto a quelli già legislativamente previsti ma ugualmente idonei a rappresentare una realtà reddituale diversa rispetto a quella desumibile dai parametri, contestualmente procedano, con lo stesso atto impositivo, ad una revoca parziale, riducendo il reddito accertato.
Per quanto riguarda il rilievo secondo il quale la procedura dei parametri non terrebbe conto delle singole caratteristiche dell’attività svolta, è agevole obiettare che è, innanzitutto, smentita dalla stessa disciplina legislativa (comma 184), laddove chiarisce che i parametri sono stati elaborati in base alle caratteristiche e alle condizioni di esercizio della specifica attività svolta. La previsione, poi, di un contraddittorio (punto 6 della circolare n. 117 del 13 maggio 1996) che, tranne isolate eccezioni, precede la redazione dell’atto impositivo, esclude che non si tenga conto – anche facendo riferimento alla valutazione di fatti d’esperienza – degli aspetti peculiari di ciascuna fattispecie, onde pervenire alla determinazione di una capacità contributiva maggiormente aderente alla singola realtà operativa (il punto 2.2 della citata circolare individua anche i soggetti esclusi dall’applicazione dei parametri).
In altri termini, prosegue l’A. è la stessa legge che attribuisce ai parametri i requisiti di gravità, precisione e concordanza. Secondo la giurisprudenza, con la gravità si fa riferimento al grado ed all’intensità della probabilità che fa acquistare verosimiglianza alle conseguenze derivanti dal fatto noto, con la precisione ci si riferisce alla indiscutibilità del fatto noto, la concordanza impone che gli indizi debbano muoversi nella stessa direzione.
L’elaborazione dei parametri si è mossa in questa prospettiva, perché nella determinazione delle “variabili” si è fatto riferimento a quanto di norma avviene in realtà aziendali analoghe (fatto noto) a quelle oggetto del controllo.
In particolare, dapprima la capacità reddituale viene determinata facendo riferimento a quanto avviene nella normalità di casi analoghi, secondo il noto principio dell’id quod plerumque accidit63 .
Successivamente, nella fase del contraddittorio, si tiene conto di tutti gli aspetti peculiari a ciascuna fattispecie, in modo che il fatto noto (il parametro) viene “adattato” per essere più aderente alla singola realtà. La conferma della linearità e fondatezza di questo ragionamento arriva proprio dalla sentenza della Cassazione sopra citata (n. 2891 del 2002). Secondo i giudici di legittimità le presunzioni rappresentate dagli strumenti statistici sono riconducibili a delle regole tecniche di esperienza che devono essere verificate e adattate alla fattispecie e di volta in volta oggetto di accertamento.
In conclusione siamo in presenza di presunzioni legali relative che, in quanto tali, non abbisognano di altri elementi di prova o indizi affinché possano essere a fondamento di un accertamento di maggiori componenti positivi.
Secondo FORTE-FAGIOLO64, lo scostamento rispetto ai parametri costituisce presunzione semplice, grave, precisa e concordante, il cui richiamo è sufficiente per la motivazione dell’atto di accertamento, ma inidoneo a fondare, in sè, la relativa pretesa tributaria.
La motivazione negli accertamenti parametrici per gli anni dal 1995 al 1997 (e successivamente per le categorie economiche per le quali non sono stati approvati gli studi di settore), costituisce tuttavia una novità senza precedenti. L’avviso di accertamento è infatti emesso, in caso di discostamento dagli indici previsti per legge, ai sensi dell’art. 39, comma 1, lettera d), del d.P.R. n. 600/1973, sulla base dei dati dichiarati e sul presupposto di fatto che il maggiore ricavo presunto non abbia costituito motivo di adeguamento in dichiarazione dei redditi. Le circolari esplicative emesse dal Ministero delle finanze in materia di parametri 65 non specificano in alcun modo la gradualità o la necessità di esporre nell’atto di accertamento ulteriori motivazioni rispetto ai dati risultanti dalla applicazione dei calcoli matematico-statistici; ne deriva, nella pratica, che gli uffici altro non fanno che (ri)applicare i dati del “ricavometro” secondo i dati risultanti dai quadri della dichiarazione dei redditi , derivandone il maggior ricavo o provento presunto. ……….. è piuttosto evidente che rispetto ad altre forme di catastizzazione del reddito (ad esempio: i coefficienti presuntivi) il percorso logico-giuridico-informatico utilizzato dal programma di calcolo dei parametri non sia del tutto intelligibile e trasparente. Si pone quindi il dubbio se è necessario che l’ufficio esponga in motivazione proprie deduzioni che facciano cogliere quell’ulteriore vaglio critico che generalmente viene richiesto al fine di dare compiutezza alla motivazione dell’atto. Tuttavia se dal lato della informazione del contribuente il dato parametrico non costituisce di certo un esempio di trasparenza, non si può nascondere che un approfondimento delle ragioni che sottendono al perfezionamento dell’atto sarebbe quantomeno difficoltoso per lo stesso funzionario redigente, il quale non potrebbe offrire niente di personale in aggiunta al risultato tecnico scaturente dal calcolo matematico; inoltre l’iter procedimentale che precede l’emissione dell’avviso di accertamento (ad esempio: la convocazione per un contradditorio preliminare) dovrebbe quantomeno rendere edotto il contribuente circa i motivi alla base dell’atto. D’altro canto è stato autorevolmente sostenuto66 che non sembra che ci siano dubbi circa la attendibilità del percorso logico presupposto di applicazione dei parametri i quali, nella inevitabile incertezza che li caratterizza, possono in termini medi essere accettati soprattutto per la modesta entità di scostamento, rilevata in valori percentuali e di imposta. L’analisi, più pratica che non giuridica del problema, dovrebbe far concludere che non esistano problemi di legittimità dell’avviso di accertamento sotto l’aspetto formale, seppure la motivazione opera un mero rinvio al calcolo parametrico e alla dichiarazione dei redditi del contribuente. In tal senso appare necessario appurare se l’ufficio abbia rispettato le istruzioni in tema di convocazione e contraddittorio e se il contribuente sia stato ritualmente ascoltato e reso partecipe del procedimento di accertamento. (……..).
Per quanto sopra esposto appare chiaro che la distinzione fra motivazione dell’atto amministrativo quale requisito formale dell’avviso di accertamento e la prova sostanziale della esistenza di elementi concreti di evasione, costituiscono, nell’accertamento sulla base dei parametri, quasi un tutt’uno, risultando evanescente la fase della concretizzazione dell’aspetto formale (redazione dell’atto e motivazione), in quanto l’aspetto matematico-informatico di fatto priva l’ufficio di capacità valutativa, a vantaggio della fase “processuale” (che può essere anche anticipata in sede di contraddittorio) di prova dell’esistenza dei maggiori ricavi accertati.
Come detto, il discostamento dai parametri legittima l’ufficio ad emettere avvisi di accertamento ai sensi dell’art. 39, comma 1, lettera d), del d.P.R. n. 600/1973, senza pregiudizio per l’ulteriore attività di accertamento, in quanto tale discostamento costituisce presunzione grave, precisa e concordante circa la esistenza di ricavi non dichiarati (legge n.549/1995, art. 3, commi da 181 a 187, e circolare n. 117/E del 13 maggio 1996, par. 4). La normativa introduttiva dei parametri presuntivi di reddito (legge n. 549/1995, citata) prevede infatti l’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente in contabilità semplificata di dimostrare l’invalidità o l’assenza dei presupposti di fatto alla base dell’avviso di accertamento. Si tratta indubbiamente di presunzioni semplici, benché gravi, precise e concordanti le quali ammettono la prova contraria, la quale, tuttavia, secondo il testo della norma, deve essere fornita dal contribuente in sede di opposizione all’atto o in contraddittorio. L’avviso di accertamento emesso dall’ufficio è dunque un accertamento analitico-induttivo, vale a dire un accertamento induttivo non del reddito ma di una delle componenti reddituali (in tal caso i ricavi o proventi). A tale proposito è utile richiamare autorevole dottrina che ha definito l’accertamento induttivo “semplice frutto di illazioni, cioè risultato di un ragionamento valutativo circa la probabilità che un dato fatto o evento siano la conseguenza di altri fatti o eventi 67; l’accertamento induttivo presuppone infatti la esistenza di elementi che qualifichino il fatto ignoto come diretta conseguenza del fatto noto: il rapporto fra i due, secondo le definizioni comunemente adottate, deve evidenziare un alto grado di attendibilità e consequenzialità (gravità), vi deve cioè essere stretta interferenza fra i due fatti o atti, ai quali va aggiunta una inequivocabile chiarezza del risultato conclusivo del ragionamento relativo alla connessione fra di essi (precisione). In più la norma richiede che il fatto ignoto sia tratto come conclusione univoca e coerente delle conclusioni d’ordine logico che ragionevolmente possono trarsi dal fatto o dai fatti posti a base del ragionamento presuntivo” (concordanza).
Sebbene l’art. 3, comma 184, della legge n. 549/1995 qualifichi lo scostamento dai parametri come presunzione (semplice) grave, precisa e concordante, non è tuttavia detto che ciò assolva l’ufficio sotto l’aspetto della formalizzazione della motivazione, non esentandolo, a parere di chi scrive, dall’onere di sostenere concretamente le proprie ragioni in sede contenziosa. È stato scritto che l’automatismo (parametri) si presenta alquanto blindato per quanto attiene ai profili di legittimità mentre non può dirsi altrettanto sotto l’aspetto di merito. Tale distinzione, seppure giuridicamente non collocata in fasi procedimentali, si ritiene debba riferirsi appunto alla fase giudiziale in cui l’ufficio non dovrebbe limitarsi ad un semplice rinvio al dato parametrico dovendo al contrario sostenere, nei modi consentiti, la pretesa di imposta. BELLINI68 esclude ogni automatismo dell’accertamento del maggior reddito tramite i parametri, attribuendo allo strumento natura facoltativa per l’Amministrazione con onere di provare la pretesa tributaria. Nega, poi, che i parametri abbiano natura di presunzione grave, precisa e concordante.
L’art. 39 del d.P.R. n. 600/1973 prevede che l’ufficio può procedere alla rettifica dei redditi d’impresa e derivanti dall’esercizio di arti e professioni anche sulla base di presunzioni semplici, purché esse siano gravi, precise e concordanti L’utilizzo del verbo “potere” da parte del legislatore suggerisce una prima considerazione, ovvero l’assoluta facoltatività e non automaticità dell’accertamento, legata, evidentemente, all’esistenza di elementi ulteriori rispetto alla mera discordanza tra il reddito dichiarato e quello derivante dall’applicazione dei moltiplicatori parametrici
Infatti, sul piano strettamente probatorio, l’ufficio deve comunque provare la sua pretesa.
È l’Amministrazione finanziaria, attore in senso sostanziale ai sensi dell’art. 2697 del codice civile, a dover quindi fornire dimostrazione di come è stato esercitato un potere suscettibile di conseguenze patrimoniali sul destinatario (in tal senso Cass. 2990/1979; 863/1991; 3023/1983).
In altre parole, occorre verificare caso per caso se nella fattispecie concreta l’accertamento parametrico può dirsi legittimo, in quanto sussistano elementi atti ad integrare i requisiti di gravità, precisione e concordanza
Nei casi specifici, in sede contenziosa ed anche, precedentemente, in sede amministrativa, dovranno essere evidenziate tutte le possibili circostanze influenti sul risultato finale del reddito dichiarato
Quanto sopra anche al fine di consentire al giudice una statuizione favorevole al contribuente per quanto riguarda le spese del giudizio Del resto, se è vero che il dettato dell’art. 39 del d.P.R. n. 600/1973 prevede che la rettifica del reddito possa avvenire mediante utilizzo di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti, delle due l’una: – i parametri sono già stati implicitamente definiti e riconosciuti dal legislatore come presunzioni legali, relative come intenzione, ma assolute di fatto;
– oppure i parametri possiedono la valenza probatoria propria delle presunzioni cosiddette “semplici”.
Nel primo caso si appalesa una manifesta incostituzionalità del sistema (…).
Se, viceversa, si vuole affermare che i parametri integrino presunzioni semplici, come potrebbe dedursi dalla collocazione normativa dell’accertamento parametrico tra gli accertamenti analitico-induttivi di cui all’art. 39, comma 1, lettera d), del d.P.R. n. 600/1973, nonché dall’assenza di qualsivoglia accenno legislativo in merito, ne consegue che essi risultano aggredibili, in sede processuale, opponendo qualsivoglia argomentazione contraria La forza probatoria di cui essi apparirebbero portatori, secondo questa ipotesi, sarebbe infatti assai limitata, stante la discriminante tra presunzioni semplici e presunzioni legali Queste ultime istituiscono una relazione diretta tra fatto noto e fatto dedotto, la cui valenza probatoria ha già preventivamente riscosso l’apprezzamento del legislatore, così da vincolare il giudice a recepire il risultato generalizzato dalla campionatura (cosiddetta inferenziale).
Con riguardo alle presunzioni semplici si verifica (rectius: si dovrebbe verificare) il contrario.
Per esse, la capacità probatoria deve rendersi manifesta attraverso l’indagine analitica del caso.
Per quanto riguarda i parametri, l’indagine dovrà essere tesa a verificare se i conteggi rivestano, anche tecnicamente, attitudine a correlare criticamente, se non con un nesso di univocità, perlomeno con verosimiglianza, rispondendo ad un criterio di probabilità, il fatto noto ed il fatto che si intende provare
In tal caso, pertanto, il giudice tributario resta libero di apprezzare il valore probatorio che le presunzioni riescono ad esprimere (così l’art. 2729 del codice civile)
Ne consegue, anche sotto questo profilo, l’illegittimità dell’atto, derivante dall’utilizzo di presunzioni contrarie alle norme quadro che le disciplinano, ovvero gli artt. 2727 e seguenti del codice civile, nonché alle norme specifiche sull’accertamento, ovvero l’art. 39 del d.P.R. n.600/1973.
Gravità, precisione e concordanza non sembrano in verità per nulla caratterizzare i parametri.
Per quanto riguarda la gravità essi non risultano attendibili e convincenti (si ricordi che la legge esclude espressamente la valenza probatoria ai fini penali); quanto alla precisione, essi appaiono immotivati, contraddittori, privi di riscontro in altri dati ed elementi, e suscettibili di diversa interpretazione, come da esempi precedenti; infine, sotto il profilo della concordanza, essi contrastano con elementi certi (quali le risultanze di una regolare contabilità)
Del resto il decreto attuativo dei parametri costituisce un mero atto amministrativo; a questo, quale fonte normativa subordinata alla legge, non può riconoscersi certo forza superiore alle norme civilistiche violate, in quanto ciò costituirebbe una palese violazione del principio di gerarchia delle fonti, con conseguente giuridica impossibilità che la disciplina dettata dalla fonte superiore possa essere abrogata dalla fonte inferiore. BASILAVECCHIA69, criticando la sentenza n. 10945 del 2007, cit. (secondo la quale l’applicazione dei parametri non necessita di motivazione specifica), osserva.
Quale che sia il metodo di accertamento adottato dall’ufficio impositore, infatti, non vi è dubbio, sia in base all’art. 42 d.p.r. 600/73, sia in base all’art. 7 della l. 212/2000 e all’art. 3 della l. 241/9070, che esso debba dare anche conto delle risultanze istruttorie e del modo in cui le stesse vengono valutate nel momento della “confezione” dell’avviso di rettifica della dichiarazione. Val quanto dire che l’indicazione dei parametri applicati può anche costituire una motivazione corretta e sufficiente dell’avviso di accertamento, nella sola ipotesi in cui l’ufficio non abbia ricevuto, in sede di contraddittorio procedimentale, alcun apporto collaborativo, o difensivo, da parte del contribuente controllato71;
in tal caso, infatti, sarà sufficiente l’indicazione del tentativo di contradditorio, mentre la mancanza di attività difensiva procedimentale del contribuente dispensa ovviamente l’ufficio dal dare conto di qualsiasi altra valutazione.
Quando però l’attività istruttoria abbia condotto già in sede procedimentale alla emersione di elementi contrapposti a quelli che l’ufficio intende far valere, non è pensabile che l’atto conclusivo del procedimento ometta di dare conto del se, e del come, quegli elementi siano considerati dall’ufficio. Nel caso di specie, la carenza motivazionale dell’accertamento, la cui struttura minimale emerge dalla stessa sentenza, appare con tutta evidenza se si considera che, dalla lettura delle premesse in fatto, si apprende non solo che il contribuente aveva fornito all’ufficio una serie di documenti relativi a proprie situazioni personali, ritenute rilevanti al fine della diminuzione della propria capacità reddituale, ma anche che tra le parti era stata avviata, ma non conclusa, una analisi in contradditorio di tali elementi, finalizzata ad un eventuale definizione con adesione dell’accertamento.
L’aspetto criticabile della sentenza è che essa riconduce necessariamente alla fase processuale la valutazione degli elementi forniti dal contribuente: in tale ottica, l’ufficio – quale che sia stato lo sviluppo del contraddittorio – confeziona l’accertamento sulla base dell’indicazione dei parametri previsti dall’atto generale; il contribuente si oppone davanti al giudice tributario, ripetendo peraltro la segnalazione di circostanze particolari già effettuata in sede procedimentale: il giudice di merito, infine, decide quantificando, finalmente, anche sulla base del materiale difensivo apportato dal ricorrente.
Questa ricostruzione, che per la verità la sentenza non esplicita, ma che pare inevitabilmente posta a base di tutto il ragionamento, è in primo luogo da criticare per lo svilimento, che essa comporta, delle fasi di contraddittorio: le quali, oltre a rispondere ormai ad esigenze fondamentali recepite dallo Statuto dei diritti del contribuente (principio di collaborazione, art. 10), debbono invece essere concepite anche e soprattutto in funzione dell’interesse pubblico alla migliore individuazione del fatto imponibile. Quale lo scopo di una partecipazione procedimentale, che poi possa restare senza esito alcuno – e senza neppure giustificazioni – nella motivazione dell’atto di accertamento finale?
(…) In secondo luogo, e conseguentemente, una volta depotenziato e sminuito il contraddittorio, nei suoi riflessi sul contenuto dell’atto impugnato, ne deriva la conseguenza, parimenti inaccettabile ad avviso di chi scrive, che la competenza alla valutazione delle prove offerte in fase di contraddittorio procedimentale si riversa esclusivamente sulla commissione tributaria: l’accertamento ed il ricorso forniscono, ciascuno per la sua parte, la visione del fatto imponibile effettuata dai soggetti in conflitto, il giudizio compete poi alla commissione tributaria, ed è ad essa che spetta confermare o rimuovere in tutto o in parte l’atto impositivo, “riquantificando” la pretesa originaria dell’ufficio.
Le conseguenze della impostazione della Suprema Corte sono, nella vicenda in esame, particolarmente evidenti: potendo l’atto di accertamento dell’ufficio prescindere dalla risultanze del contraddittorio, il giudice tributario è legittimato ad effettuare direttamente una valutazione dell’incidenza dei materiali offerti dal contribuente al fine di invocare una inapplicabilità, ovvero un’attenuazione, delle risultanze dell’applicazione dei parametri:
la commissione tributaria non è più chiamata a verificare se l’ufficio abbia correttamente tenuto conto di quanto proposto in fase istruttoria dal contribuente, ma direttamente procede a confermare, o a ridurre, l’applicazione dei parametri: esercita, in sostanza, direttamente, la funzione impositiva, secondo una logica che, ad avviso di chi scrive, deve essere invece nettamente rifiutata. Nel caso di specie, è stata la commissione tributaria regionale, in sede di appello, a quantificare la riduzione del 50 riconducibile alle circostanze rappresentate dal contribuente. Questa quantificazione, però, non è correttiva di quanto già correttamente accertato dall’ufficio, ma costituisce essa stessa la prima valutazione delle circostanze offerte dal contribuente. Avrebbe invece, nella prospettiva qui adottata, meritato accoglimento il ricorso del contribuente, il quale in sostanza lamentava che, della documentazione offerta in istruttoria, era l’ufficio a doversi dare carico, affermandone l’irrilevanza, ovvero la piena o la parziale neutralizzazione dell’applicazione dei parametri. Su questo primo, insopprimibile giudizio valutativo dell’ufficio, da esternare anche in una compiuta motivazione del provvedimento di accertamento, si sarebbe poi sviluppato un sindacato “in seconda battuta” da parte del giudice tributario. La carenza assoluta, invece, del momento valutativo – necessaria conseguenza da trarre dalla carenza formale di ogni traccia di tale compiuta valutazione – doveva di per sè condurre alla invalidità dell’avviso di accertamento, non potendo al giudice tributario essere assegnata una funzione supplente delle prerogative non esercitate dall’ufficio impositore72.
5. Gli studi di settore.
5.a. La disciplina degli accertamenti basati sugli studi di settore. 5.a.1. Le norme.
Gli studi di settore furono introdotti dall’art. 62-bis del d.l. 30 agosto 1993, n. 331, aggiunto dalla legge di conversione 29 ottobre 1993, n. 427 (All. 1.3) che ne prevedeva l’approvazione entro il 31 dicembre 1995, termine prorogato al 31 dicembre 1996, dall’art. 3, comma 180, della l. 28 dicembre 1995, n. 549 (All. 1.4.) ed al 31 dicembre 1998 dall’art. 3, comma 124, della l. 23 dicembre 1996, n. 662 (All. 1.6.), il quale stabilì che “i detti studi hanno validità ai fini dell’accertamento a decorrere dal periodo di imposta 1998″.
Lo stesso d.l. 30 agosto 1993, n. 331, all’art. 62-sexies, comma 3, prevedeva e continua a prevedere:
” Gli accertamenti di cui agli articoli 39, primo comma, lettera d), del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, e successive modificazioni, e 54 del decreto del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, e successive modificazioni, possono essere fondati anche sull’esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta, ovvero dagli studi di settore elaborati ai sensi dell’articolo 62-bis del presente decreto”.
Numerose sono state le modifiche ed integrazioni alla disciplina degli studi di settore:
– la legge 8 maggio 1998, n. 146, all’art. 10, fissò le modalità di utilizzazione degli studi di settore in sede di accertamento a partire dal periodo di imposta 1998. Come meglio specificato in seguito, la norma fu poi oggetto di diversi interventi di modifica ed alla stessa si aggiunsero gli articoli 10-bis e 10-ter (in All. 1.7., trovasi il testo originario dell’art. 10; in All. 1.7-bis trovasi il testo vigente, unitamente agli artt. 10/10-ter);
– con d.P.R. 31 maggio 1999, n. 195, fu poi approvato il regolamento recante disposizioni concernenti i tempi e le modalità di applicazione degli studi di settore, parimenti oggetto di successive modifiche (in All. 1.8 trovasi il testo vigente, con in nota gli interventi di modifica);
– la legge 21 novembre 2000, n. 342, all’art. 70 disciplinò il rapporto tra gli accertamenti basati sugli studi di settore e l’ulteriore azione accertatrice (in All. 1.9 trovasi il testo originario della norma, mentre in All. 1.9-bis, il testo vigente);
– il d.l. 30 settembre 2003 n. 269, convertito in legge, con modificazioni, dall’art. 1, L. 24 novembre 2003, n. 326, all’art. 23, previde la revisione degli studi di settore entro il 31 dicembre 2003 (All. 1.10);
– la legge 30 dicembre 2004, n. 311 (Finanziaria 2005) fissò la regola della revisione degli studi ogni quattro anni con possibilità di anticipazione (art. 1, commi 399-401), previsione poi abrogata dal comma 15 dell’art. 1, della legge n. 296 del 2006 (Finanziaria 2007, infra). I successivi commi 407-411 modificarono, inoltre, le condizioni oggettive e soggettive per l’applicazione degli studi, con la modifica, in particolare, dell’art. 70 della legge 21 novembre 2000, n. 342 in relazione al rapporto tra gli accertamenti basati sugli studi di settore e l’ulteriore azione accertatrice; fu altresì introdotto il comma 3-bis nell’art. 10 della legge 8 maggio 1998, n. 146, con la previsione dell’obbligo dell’ufficio, prima della notifica dell’avviso di accertamento, di invitare il contribuente a comparire, ai sensi dell’articolo 5 del decreto legislativo 19 giugno 1997, n. 218, così prevedendosi espressamente la necessità del previo contraddittorio con il contribuente anche in tema di accertamenti mediante gli studi di settore (in All. 1.11 trovasi il testo originario delle norme e in All. 1.11-bis il testo vigente);
– l’art. 7-sexies del d.l. 30-9-2005 n. 203, aggiunto dalla legge di conversione 2 dicembre 2005, n. 248 (All. 1.12), previde la possibilità, in caso di mancato adeguamento ai ricavi o compensi determinati sulla base degli studi di settore, di attestazione delle cause giustificatrici della non congruità dei ricavi o compensi dichiarati rispetto a quelli derivanti dall’applicazione degli studi medesimi;
– l’art. 37 del d.l. 4 luglio 2006, n. 223, convertito con modifiche nella legge 4 agosto 2006, n. 248 modificò ulteriormente l’articolo 10 della legge 8 maggio 1998, n. 146, prevedendo altresì alcune deroghe temporali per l’adeguamento agli studi (All. 1.13);
– la legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Finanziaria 2007) intervenne in più punti sulla l. 8 maggio 1998, n. 146. L’art. 1, comma 13, introdusse l’art. 10-bis in tema di modalità di revisione ed aggiornamento degli studi di settore, da attuarsi al massimo ogni tre anni, sulla base di indicatori di coerenza, risultanti da specifici indicatori definiti da ciascuno studio, rispetto a comportamenti considerati normali per il relativo settore economico. Il successivo comma 14 previde che, nella fase transitoria (cioè fino alla elaborazione e revisione degli studi di settore…. che tengono conto degli indicatori di coerenza) si sarebbe dovuto tenere conto di specifici indicatori di normalità economica di significativa rilevanza, idonei alla individuazione di ricavi, compensi e corrispettivi fondatamente attribuibili al contribuente in relazione alle caratteristiche e alle condizioni di esercizio della specifica attività svolta. Furono poi modificati in più punti (commi 16-26) l’art. 10 l. 8 maggio 1998, n. 146 e disposizioni varie collegate. In particolare, quanto all’art. 10: il comma 1 fu modificato prevedendo la possibilità di procedere ad accertamento sulla base degli studi di settore “qualora l’ammontare dei ricavi o dei compensi dichiarati risulti inferiore a quello dei ricavi o compensi determinabili sulla base degli studi stessi”;
vennero poi introdotte limitazioni alla possibilità di accertamento nei confronti di contribuenti che dichiarino, anche per effetto dell’adeguamento, ricavi o compensi pari o superiori al livello della congruità (art. 1, comma 17, che introdusse il comma 4-bis dell’art. 10 della l. n. 146 del 1998, con effetto a decorrere dal periodo d’imposta in corso alla data del 1 gennaio 2007, come previsto al comma 18). In All. 1.14 trovasi il testo originario delle predette norme della legge 27 dicembre 2006, n. 296; in All. 1.14-bis trovasi il testo vigente;
– gli indicatori di normalità economica furono approvati con d.m. 20 marzo 2007 (All. 1.15), poi modificato con d.m. 4 luglio 2007 ( All. 1.16);
– il d.l. 2 luglio 2007, n. 81 introdusse, dopo il comma 14 dell’art. 1 della legge 27 dicembre 2006, n. 296, i commi 14-bis e 14-ter (il secondo aggiunto dalla legge di conversione 3 agosto 2007, n. 127) rilevanti ai fini della valenza probatoria degli studi di settore, prevedendo il primo che “Gli indicatori di normalità economica di cui al comma 14, approvati con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, hanno natura sperimentale e i maggiori ricavi, compensi o corrispettivi da essi desumibili costituiscono presunzioni semplici” ed il secondo che ” I contribuenti che dichiarano un ammontare di ricavi, compensi o corrispettivi inferiori rispetto a quelli desumibili dagli indicatori di cui al comma 14-bis non sono soggetti ad accertamenti automatici e in caso di accertamento spetta all’ufficio accertatore motivare e fornire elementi di prova per gli scostamenti riscontrati” (All. 1.17);
– la legge 24 dicembre 2007, n. 244, all’art. 1, comma 113, escluse i contribuenti minimi dall’applicazione degli studi di settore ed al comma 252 aggiunse all’articolo 1, comma 14, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, dopo il primo periodo, i seguenti: “Ai fini dell’accertamento l’Agenzia delle entrate ha l’onere di motivare e fornire elementi di prova per avvalorare l’attribuzione dei maggiori ricavi o compensi derivanti dall’applicazione degli indicatori di normalità economica di cui al presente comma, approvati con il decreto del Ministro dell’economia e delle finanze 20 marzo 2007, pubblicato nel supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficiale n. 76 del 31 marzo 2007, e successive modificazioni, fino all’entrata in vigore dei nuovi studi di settore varati secondo le procedure, anche di concertazione con le categorie, della disciplina richiamata dal presente comma. In ogni caso i contribuenti che dichiarano ricavi o compensi inferiori a quelli previsti dagli indicatori di cui al presente comma non sono soggetti ad accertamenti automatici” (All. 1.18);
– l’art. 33 del d.l. 25 giugno 2008, n. 112, convertito nella legge 6 agosto 2008, n. 133, modificò il comma 1 dell’articolo 1, del regolamento di cui al d.P.R. 31 maggio 1999, n. 195 disponendo, in particolare, che, a partire dall’anno 2009 gli studi di settore devono essere pubblicati nella Gazzetta Ufficiale entro il 30 settembre del periodo d’imposta nel quale entrano in vigore. Il successivo art. 83, al comma 19 (modificato dalla legge di conversione) previde che, in funzione dell’attuazione del federalismo fiscale, a decorrere dal 1 gennaio 2009 gli studi di settore vengono elaborati, sentite le associazioni professionali e di categoria, anche su base regionale o comunale, ove ciò sia possibile ed al successivo comma 20 dispose che le modalità di attuazione del comma 19 sarebbero state stabilite con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze (All. 1.19);
– il decreto ministeriale sugli studi di settore su base regionale o comunale è stato emesso il 19 maggio 2009 (All. 19-bis);
– il d.l. 29 novembre 2008, n. 185, all’art. 8 previde la revisione congiunturale speciale degli studi di settore e, all’art. 27, aggiunse l’art. 10-ter alla legge 8 maggio 1998, n. 146, per il quale, in caso di accertamento con adesione, “gli ulteriori accertamenti basati sulle presunzioni semplici di cui all’articolo 39, primo comma, lettera d), secondo periodo, del decreto del Pres. della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600, e all’articolo 54, secondo comma, ultimo periodo, del decreto del Pres. della Repubblica 26 ottobre 1972, n. 633, non possono essere effettuati qualora l’ammontare delle attività non dichiarate, con un massimo di 50.000 euro, sia pari o inferiore al 40 dei ricavi o compensi definiti “(All. 1.20).
Per l’interpretazione del quadro normativo descritto l’Amministrazione ha emanato, a partire da 1999, diverse circolari. Di queste, vengono allegate quelle emanate a partire dal 2007 in considerazione delle significative modifiche introdotte a partire dalla Finanziaria 2007 e del fatto che quelle precedenti vengono comunque richiamate (e, peraltro, le stesse sono sintetizzate, per le parti rilevanti, nel corpo della relazione).
Nell’ordine sono allegate:
– circ. 22 maggio 2007 n. 31/E (All. 2.2.);
– circ. 12 giugno 2007, n. 38/ E (All. 2.3.);
– circ. 6 luglio 2007, n. 41/ E (All. 2.4.);
– circ. 23 gennaio 2008, n. 5/ E (All. 2.5.);
– circ. 29 maggio 2008, n. 44/ E (All. 2.6.);
– circ. 18 giugno 2009, n. 29/ E (All. 2.7.).
5.a.2. Segue: i presupposti dell’accertamento; il contraddittorio con il contribuente.
Va premesso che, nonostante l’introduzione degli studi di settore, l’accertamento si svolge sulla base dei parametri di cui ai commi da 181 a 187 dell’articolo 3 della legge 28 dicembre 1995, n. 549 “nei confronti dei contribuenti esercenti attività d’impresa o arti e professioni per le quali non risultano approvati gli studi di settore ovvero, ancorché approvati, operano condizioni di inapplicabilità non estensibili ai parametri individuate nei decreti di approvazione degli stessi studi di settore” (art. 4 del d.P.R. 31 maggio 1999, n. 195).
Sotto il profilo soggettivo, poi, relativamente ai periodi d’imposta 2003 e precedenti, gli studi di settore potevano essere utilizzati ai fini dell’accertamento (art. 10, commi 2 e 3 della l. n. 146 del 1998):
– per le imprese in regime di contabilità semplificata73, in caso di semplice scostamento tra i ricavi dichiarati e quelli stimati dagli studi di settore, anche in relazione ad un unico periodo d’imposta (art. 10, comma 1);
– per le imprese in regime di contabilità ordinaria per opzione e per gli esercenti arti e professioni74, se i ricavi o i compensi derivanti dall’applicazione degli studi di settore risultavano superiori a quelli determinati dal contribuente per almeno due periodi d’imposta – anche non consecutivi – su tre considerati (art. 10, commi 2 e 3);
– per le imprese in regime di contabilità ordinaria per obbligo, qualora fosse dichiarata l’inattendibilità della contabilità, sulla base dei criteri stabiliti dal d.P.R. n. 570/1996. Questo assetto fu riformato dalla Finanziaria per il 2005 (art. 1, comma 409, della legge n. 311/2004) con cui, a decorrere dal periodo d’imposta in corso al 31 dicembre 2004, fu realizzata un’assimilazione tra i soggetti in contabilità ordinaria per obbligo e gli altri, rendendo possibile la ricostruzione dei ricavi o compensi sulla base degli studi di settore secondo la c.d. regola del “due su tre”.
Indipendentemente da tale ultima regola, nei confronti degli esercenti attività d’impresa in regime di contabilità ordinaria, anche per effetto di opzione, era possibile far ricorso agli studi di settore in sede di accertamento nelle situazioni in cui si realizzava una significativa incoerenza rispetto ad appositi indici di natura economica, finanziaria, patrimoniale, individuati con provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate75, sentito il parere della Commissione di esperti.
Il d.l. n. 223/2006 [art. 37, comma 2, lettera a)], convertito con modificazioni nella legge n. 248/2006, abrogò i commi 2 e 3 dell’art. 10 della legge n. 146/1998.
Pertanto, già dai ricavi e compensi conseguiti nel 2005 76, l’accertamento mediante studi di settore fu generalizzato, potendo essere applicato a prescindere dal tipo di contabilità adottato ed anche in caso di scostamento per un singolo periodo d’imposta, salva la possibilità per i contribuenti di adeguare i ricavi e i compensi risultanti dalla contabilità alle risultanze degli studi, entro il termine di presentazione della dichiarazione (art. 2 del d.P.R. n. 195/1999).
Così precisate le condizioni soggettive dell’accertamento, il principio generale stabilito dall’art. 10, 1 comma, della l. n. 146 del 1998, come modificato dal comma 23 dell’art. 1, della l. n. 296 del 2006 con effetto a decorrere dal periodo d’imposta in corso al 1 gennaio 2007 (comma 24) è che “gli accertamenti basati sugli studi di settore (…) sono effettuati nei confronti dei contribuenti (..) qualora l’ammontare dei ricavi o compensi dichiarati risulta inferiore all’ammontare dei ricavi o compensi determinabili sulla base degli studi stessi”.
La norma, nella versione originaria, si limitava a prevedere che ” gli accertamenti basati sugli studi di settore (…) sono effettuati nei confronti dei contribuenti (..) con periodo d’imposta pari a dodici mesi “.
Quanto al rapporto tra l’art. 10, comma 1, cit., come modificato, e l’art. 62-sexies del d.l. n. 331/1993, MANZONI77 afferma:
Mentre, infatti, quest’ultimo” richiede espressamente, quale condizione per l’accertamento, la sussistenza di “gravi incongruenze” tra quanto dichiarato e quanto desumibile dagli studi settore, tale condizione non è più richiesta dal comma 1 dell’art. 10 della legge n. 146/1998.
Ciò sembrerebbe far ritenere che il legislatore, con quest’ultima disposizione, abbia volutamente inteso modificare la normativa preesistente, consentendo pertanto l’accertamento anche in presenza di un sia pur minimo scarto tra quanto dichiarato e quanto desumibile dagli studi di settore.
Sennonché, se così fosse, la disposizione del comma 1 dell’art. 10 risulterebbe di assai dubbia costituzionalità. Come ampiamente illustrato in altra sede (MANZONI-VANZ, Il diritto tributario, op. cit., pagg. 336 e seguenti), è infatti consolidata giurisprudenza della Corte Costituzionale che le presunzioni legali (siano esse assolute o relative) in tanto si legittimino costituzionalmente, in quanto trovino fondamento nell’id quod plerumque accidit, cioè in quello che, secondo le regole d’esperienza, succede nella normalità o generalità dei casi. E le regole d’esperienza ci dicono che, nella realtà, un certo scostamento dei dati effettivi rispetto ai coefficienti presuntivi riportati dagli studi di settore (come nei confronti di qualsiasi altro parametro di tipo statistico) è del tutto normale e fisiologico. Proprio per questo il legislatore ha ritenuto necessaria, a giustificare l’accertamento, la sussistenza di “gravi incongruenze” tra quanto dichiarato e quanto riportato dai predetti studi.
Pretendere di ravvisare un fatto d’evasione anche in presenza di una sia pur minima divergenza rispetto ai predetti coefficienti presuntivi sarebbe quindi in palese contrasto con quelle stesse regole d’esperienza, alla luce delle quali dovrebbe valutarsi la legittimità costituzionale di una presunzione legale, sia pure relativa.
Di conseguenza, o si ritiene di poter superare un tale dubbio interpretativo sulla base di una interpretazione costituzionalmente orientata (diretta cioè a “salvare” la norma, conformandola ai precetti costituzionali), affermando quindi la sopravvivenza del requisito delle “gravi incongruenze” (come appunto sostiene l’Agenzia delle entrate nella circolare n. 5/2008 78, pur senza richiamarsi ai principi costituzionali), oppure deve concludersi per l’illegittimità costituzionale delle modifiche apportate dalla legge n. 296/2006 al comma 1 dell’art. 10 della legge n. 146/1998. Anche NICCOLINI 79 nega che la modifica abbia confermato l’automatismo nell’accertamento, perché “la norma se così interpretata, si porrebbe in contrasto non solo con i principi generali che sono alla base dell’utilizzo degli strumenti presuntivi di accertamento, trasformando, di fatto, nella prassi applicativa, gli studi di settore da mezzi di controllo in strumenti di determinazione sostanziale del reddito, violando in tal modo il principio della capacità contributiva, ma altresì con l’intero sistema delle norme in materia di studi di settore”.
In tale ipotesi interpretativa, infatti, il contribuente avrebbe quale unica possibilità di scampo quella di adeguarsi spontaneamente ai maggiori ricavi risultanti dagli studi, non risultando, di fatto, contestabile nel merito il metodo inferenziale di accertamento del reddito attuato mediante l’applicazione di tale strumento.
Ci sembra quindi di poter affermare che con la suddetta precisazione il legislatore abbia soltanto voluto ribadire quanto già contenuto nelle specifiche norme che disciplinano lo strumento in esame, ovvero che lo scostamento trai ricavi dichiarati e quelli, determinabili sulla base degli studi costituisce presupposto affinché si proceda a tale metodologia di accertamento. L’utilizzo da parte del legislatore dei termini sono effettuati non attribuisce quindi maggior valenza probatoria a tale strumento ma costituisce semplicemente il riconoscimento del fatto che in presenza del suddetto scostamento, ed in assenza di un adeguamento spontaneo del contribuente al maggior valore risultante dall’applicazione degli studi, l’Amministrazione potrà procedere all’emanazione di un avviso di accertamento qualora: le incongruenze tra quanto dichiarato dal contribuente e le risultanze degli studi di settore siano gravi; dagli studi di settore sia fondatamente desumibile l’effettiva operatività del soggetto accertato; non sussistano elementi oggettivi che inducano a ritenere inadeguato il percorso tecnico-metodologico seguito dallo studio per giungere alla stima; risulti corretta l’imputazione al cluster di riferimento; non sussistano nel caso di specie cause particolari che abbiano potuto influire negativamente sul normale svolgimento dell’attività, collocando il contribuente al di sotto del livello determinato dallo studio, anche con il contributo degli indicatori di normalità. Ovviamente, di tutti gli elementi suddetti e delle eventuali giustificazioni addotte dal contribuente in merito ai medesimi in sede di contraddittorio procedimentale, l’ufficio dovrà opportunamente dare motivazione nell’atto, pena, si ribadisce, la nullità del medesimo.
Sul punto è intervenuta l’Agenzia con la circ. n. 11/E del 16 febbraio 2007, che ha giustificato la modifica legislativa operata all’art. 10, comma 1, della legge n. 146/1998 con ragioni di coordinamento a seguito dell’abrogazione del comma 2 del medesimo art. 10, operata dal d.l. n. 223/2006. Di conseguenza, a suo giudizio, nulla sarebbe stato modificato rispetto al passato circa la valenza probatoria degli studi di settore in termini di “presunzione relativa dotata dei requisiti di gravità, precisione e concordanza”. Si è rilevato80 come tale posizione comportava che, ad avviso dell’Amministrazione, “il semplice scostamento dagli studi si sarebbe dovuto ritenere sufficiente a legittimare gli uffici ad accertare maggiori redditi sulla sola base delle risultanze degli stessi. Tutto ciò significava riconoscere al maggior ricavo/compenso risultante dall’applicazione degli studi di settore valore di presunzione legale relativa, in grado, in quanto tale, di fondare da sola gli avvisi di accertamento, senza necessità di alcun impegno probatorio da parte degli uffici accertatori”. In ogni caso, l’art. 10, 1 comma, l. n. 146 cit. non si applica ai contribuenti che dichiarino ricavi di ammontare superiore a quelli previsti dal successivo comma 4, prima modificato dal comma 2 dell’art. 37, del d.l. n. 223 del 2006 (Al. 1.13.) e poi sostituito dal comma 16 dell’art. 1 della l. n. 296 del 2006 (per il testo originario e vigente dell’art. 10 v., rispettivamente, gli allegati 1.7. ed 1.7-bis).
Per quanto riguarda il rapporto tra gli accertamenti basati sugli studi di settore e l’ulteriore azione accertatrice, va registrata l’evoluzione subita dall’art. 70 della l. n. 342 del 2000 che, inizialmente, escludeva l’effetto preclusivo rispetto all’ulteriore azione accertatrice con riferimento alle categorie reddituali diverse da quelle che avevano formato oggetto degli accertamenti mediante gli studi. Tale esclusione è venuta meno, a seguito della modifica da parte del comma 408 dell’art. 1, della l. n. 311 del 2004, che ha escluso qualsiasi “pregiudizio dell’ulteriore azione accertatrice con riferimento alle medesime o alle altre categorie reddituali nonché con riferimento ad ulteriori operazioni rilevanti ai fini dell’imposta sul valore aggiunto”.
Analoga evoluzione si registra nel passaggio dalla versione originaria a quella modificata della norma per quanto riguarda la possibilità di accertamenti ulteriori a seguito di accertamento con adesione (per il testo originario e vigente v., rispettivamente, gli allegati 1.9. ed 1.9-bis).
In caso di adesione ai contenuti degli inviti a comparire rivolti al contribuente nel caso di non congruità rispetto agli studi di settore, vale lo sbarramento per gli ulteriori accertamenti previsto dall’art. 10-ter della l. n. 146 del 1998 aggiunto dal comma 4 dell’art. 27, d.l. 29 novembre 2008, n. 185 (All. 1.7-bis). Tale sbarramento segue quello previsto dal comma 4-bis dell’art. 10 della l. n. 146 cit., aggiunto dal comma 17 dell’art. 1, L. 27 dicembre 2006, n. 296, per la diversa ipotesi in cui i contribuenti dichiarino, anche per effetto dell’adeguamento, ricavi o compensi pari o superiori al livello della congruità 81.
Per quanto riguarda il contraddittorio con il contribuente, va ricordato che l’art. 10 della legge n. 146 cit., nella versione originaria, non lo prevedeva espressamente, ma in diverse occasioni (circ. n. 110/E del 21 maggio 1999, n. 29/E dell’11 aprile 2002, n. 58/E del 27 giugno 2002, n. 74/E dell’11 settembre 2002) il Ministero aveva precisato che per l’effettuazione degli accertamenti basati sugli studi di settore gli uffici dovevano tener conto delle disposizioni che regolano il procedimento dell’accertamento con adesione, in particolare, inviando ai contribuenti un invito al contraddittorio contenente gli elementi rilevanti ai fini dell’accertamento, al fine di pervenire ad una definizione. Anche la giurisprudenza si era costantemente espressa per la necessità del previo contraddittorio (infra)
Successivamente la legge 30 dicembre 2004, n. 311 (Finanziaria 2005) introdusse il comma 3-bis nell’art. 10 della legge 8 maggio 1998, n. 146, con la previsione dell’obbligo dell’ufficio, prima della notifica dell’avviso di accertamento, di invitare il contribuente a comparire, ai sensi dell’articolo 5 del decreto legislativo 19 giugno 1997, n. 218, così prevedendosi espressamente la necessità del previo contraddittorio con il contribuente anche in tema di accertamenti mediante gli studi di settore.
5.a.3. Il funzionamento degli studi di settore in generale. Gli studi di settore “costituiscono una ricostruzione statistica dell’ammontare dei ricavi e dei compensi delle imprese e degli esercenti arti e professioni elaborata in funzione del settore di appartenenza e variabile in base ad una serie di parametri82, di carattere qualitativo, quantitativo e territoriale83, relativi ai volumi di attività esercitata rilevati dalle dichiarazioni o da appositi questionari84 compilati dai contribuenti. Tali studi – soggetti ad approvazione85 e revisione periodica con decreto ministeriale e a pubblicazione sulla Gazzetta Ufficiale86 – sono, infatti, costruiti con la collaborazione delle categorie economiche87 e delle parti sociali e costituiscono, in sostanza, una griglia di indici in grado di consentire la ricostruzione dei ricavi o compensi congrui88, nonché della coerenza economica dei dati dichiarati dal contribuente89. In particolare, tramite lo studio il contribuente viene collocato nel proprio gruppo omogeneo di riferimento (cluster)90 e si determina l’entità di ricavi o compensi (definita dal c.d. intervallo di confidenza) che alla luce degli elementi caratterizzanti l’attività in concreto esercitata si ritiene debba essere di norma dichiarata dal contribuente. Gli studi di settore sono così divenuti uno strumento di conoscenza destinato ad orientare, da un lato, gli adempimenti dei contribuenti in sede di dichiarazione e, dall’altro, gli accertamenti presuntivi nei diversi settori economici, migliorando la capacità dell’amministrazione di selezionare i soggetti da sottoporre a controllo e accertamento 91”.
GARBARINO 92 precisa che i diversi studi di settore sono basati su sei fasi distinte che così ricostruisce.
In una prima fase vengono eliminati i questionari ritenuti non corretti. In una seconda fase vengono identificati i gruppi omogenei (c.d. clusters) con caratteristiche similari, giudicate con riferimento a particolari indicatori economici. In una terza fase vengono selezionati i contribuenti significativi, mediante l’eliminazione dei contribuenti ritenuti “anormali”. In una quarta fase è definita la funzione ricavo ed inserita la variabile di territorialità. In una quinta fase è definita la funzione matematica che ricostruisca i ricavi per ciascun gruppo omogeneo di soggetti. In una sesta fase ogni singolo soggetto viene attribuito al gruppo omogeneo di riferimento con la correlata applicazione dei ricavi in base allo studio di settore e con l’indicazione di un c.d. intervallo di confidenza entro il quale il ricavo così ottenuto (c.d. ricavo puntuale) può essere ritenuto congruo pur variando rispetto al ricavo minimo ed al ricavo massimo entro cui si situa il c.d. intervallo di confidenza
La prima fase di eliminazione dei questionari non corretti è stata effettuata mediante analisi statistiche volte a rilevare la completezza, la correttezza e la coerenza delle informazioni in essi contenute. Trattasi di modalità di selezione dei dati tipiche della statistica che introducono un elemento di induttività negli studi di settore, che tuttavia non pare possa essere oggetto di controprova da parte del contribuente, pena la totale inapplicabilità dei criteri a specifici casi di specie. In concreto il contribuente potrebbe addurre elementi in relazione alla illogicità/illegittimità della selezione dei dati a cui conseguono le fasi successive, ma nel confutare la(conseguente) applicabilità dell’apparato a sè stesso necessariamente dovrebbe confutare la logicità generale dell’apparato stesso
Maggiori elementi di valutatività si riscontrano nella seconda fase in cui vengono identificati i gruppi omogenei (c.d. clusters) con riferimento esclusivo alle informazioni di tipo non contabile. Ed infatti le variabili considerate sono state desunte dai dati contenuti nei questionari, ad eccezione di quelli del quadro M, riferito, appunto, ai dati contabili delle attività. Tramite questa analisi si sono costituiti gruppi che fra loro si differenziano sia qualitativamente – per il tipo di attività svolta – che quantitativamente – per le dimensioni -. Un cluster è quindi costituito da una ben specifica tipologia produttiva nell’ambito del settore di riferimento93.
Nella terza fase, dopo aver costruito i gruppi omogenei, si è proceduto alla selezione dei contribuenti significativi, sulla base dei quali si è in seguito costruita la funzione che descrive l’andamento dei ricavi all’interno di ciascun gruppo omogeneo. Per ciascun settore sono stati infatti definiti specifici indicatori economici, quali il ricarico, la produttività per addetto, la rotazione del magazzino etc. Con riferimento a questi indicatori sono state calcolate le distribuzioni cd. ventiliche in base a cui l’universo dei contribuenti è suddiviso in venti intervalli ognuno caratterizzato dallo stesso numero di contribuenti (medesima frequenza) 94.
Sulla base di tali distribuzioni si è potuto procedere all’eliminazione dei contribuenti che presentavano valori “anormali”, selezionando così, solamente quelli normali e coerenti. Nella eliminazione dei contribuenti anormali sono necessariamente attuate scelte del tutto valutative, ad esempio sono state eliminati i soggetti con perdite, omettendo così di considerare elementi che potrebbero essere indicativi di una difficoltà ad operare in un determinato settore oppure una situazione generalizzata di decremento nel tasso di sviluppo.
Nella quarta e quinta fase è stata determinata, per ciascun gruppo omogeneo, la funzione matematica per la determinazione dei ricavi mediante la tecnica statistica cd. della regressione multipla, tecnica che “permette di descrivere l’andamento della variabile dipendente in funzione di una serie di variabili indipendenti relativamente alla loro variabilità statistica”. La stima della funzione ricavo è stata effettuata, quindi, individuando la relazione tra il ricavo (variabile dipendente) e alcuni dati contabili e strutturali delle imprese (variabili indipendenti). I coefficienti delle variabili sono differenti per ciascun gruppo omogeneo di ciascun studio di settore, e ciò allo scopo di rendere la determinazione del ricavo quanto più adatta possibile alla specifica attività
Anche l’elemento dell’area di riferimento (cd. territorialità) interviene, nella funzione di ricavo, come un correttivo alle variabili indipendenti dei diversi gruppi omogenei, al fine di tenere conto delle differenze in termini di opportunità economiche legate al luogo di esercizio dell’attività. La classificazione dei Comuni è finalizzata a misurare l’influenza della localizzazione territoriale delle imprese sulla loro capacità di produrre ricavi. L’impresa subisce infatti condizionamenti dall’ambiente in cui essa opera sia livello indifferenziato (è evidente la differenza tra aree più o meno sviluppate), che a livello specifico per un singolo settore (una certa attività può prosperare in una specifica zona e non in un’altra). Conseguentemente per determinare l’influenza della territorialità sulla funzione dei ricavi si è svolta una duplice classificazione dei Comuni: una generale ed una settoriale. Successivamente tutti i comuni del territorio sono stati collocati all’interno di uno di questi gruppi omogenei.
Mentre le prime cinque fasi appena descritte consentono di individuare i clusters ed i contribuenti significativi senza in pratica consentire la prova contraria, la sesta ed ultima fase costituisce il vero e proprio nucleo degli studi di settore in quanto, mediante la attribuzione della funzione di ricavo ad uno specifico soggetto, consente la concreta quantificazione del reddito rideterminato. Questa fase consiste nell’attribuzione del singolo soggetto al gruppo omogeneo di riferimento, con la correlata applicazione dei ricavi ad esso attribuibili in base allo studio di settore. La tecnica statistica utilizzata a tal fine è la c.d. analisi discriminante, che consente di associare ogni soggetto ad uno dei gruppi omogenei individuati per la sua attività attraverso la definizione di una probabilità di appartenenza a ciascuno dei gruppi stessi. Per ciascuno studio di settore sono infatti determinatele variabili strutturali utilizzate nell’analisi discriminante, le quali sono, in sostanza, le stesse contenute nei questionari. Trattasi dunque delle principali variabili che, in un’ottica aziendale, consentono di determinare induttivamente la produttività e quindi l’ammontare dei ricavi.
La appena evidenziata struttura degli studi di settore conferma che essi consistono in un ragionamento pratico nel quale i casi di applicazione di regole non-logiche sono svariati: ad esempio la eliminazione dei questionari ritenuti non corretti, la selezione dei contribuenti in base al grado di anormalità, la definizione della variabile della territorialità. Gli studi di settore non dimostrano quindi una verità empirica non contestabile, ma sono basati su prove presuntive che muovono da fatti rilevati dall’Amministrazione finanziaria per giungere induttivamente al fatto incerto, l’ammontare di ricavi del cluster di riferimento.
5.a.4. Il c.d. intervallo di confidenza.
In materia di parametri il d.p.c.m. 29 gennaio 1996 (All. 1.5.) prevedeva al punto 2 dell’allegato 1) un intervallo di confidenza “ad un livello di probabilità del 95 intorno alla previsione del ricavo o compenso di riferimento”.
In materia di studi di settore manca un’espressa previsione normativa e l’intervallo di confidenza viene automaticamente generato dalla procedura di calcolo alla base del programma informatico “Gerico” (Gestione dei ricavi e compensi). Questa, infatti, determina per ogni contribuente:
– il “ricavo di riferimento puntuale”, che può essere presuntivamente accertato in relazione ai fattori interni ed esterni dell’impresa considerata;
– l'”intervallo di confidenza”, ossia il margine di oscillazione tecnicamente ammesso fino alla soglia del ricavo minimo, oltre la quale lo scostamento tra il dato contabile e quello reale non è giustificabile.
La circolare n. 110/E del 21 maggio 1999, precisato che “l’intervallo di confidenza è ottenuto come media degli intervalli di confidenza, al livello del 99,99 , per ogni gruppo omogeneo ponderata con le relative probabilità di appartenenza”, cioè “un’ottima approssimazione statistica 95”, afferma che i contribuenti che si avvalgono della possibilità di adeguare i propri ricavi alle risultanze della applicazione degli studi di settore in sede di dichiarazione dei redditi devono effettuare il predetto adeguamento tenendo conto del valore che nella applicazione GE.RI.CO. viene indicato quale ricavo di riferimento puntuale. Ai contribuenti che ritengono ve ne sia motivo è, peraltro, consentito collocarsi anche in caso di adeguamento, all’interno dell’intervallo di confidenza e quindi anche al livello del ricavo minimo indicato nel quesito.
La circolare n. 148/E del 5 luglio 1999 ha altresì precisato che in sede di controllo della applicazione degli studi di settore l’amministrazione finanziaria in caso di adeguamento all’interno dell’intervallo tra ricavo minimo e ricavo congruo, fermo restando che si tratta, comunque, di un ricavo “possibile”, potrà verificare e quindi chiedere al contribuente di giustificare per quali motivi abbia ritenuto di adeguarsi a un livello di ricavi inferiore a quello di riferimento puntuale.
Nel nuovo quadro normativo conseguente all’introduzione degli INE, l’Agenzia delle Entrate, con la circ. n. 5/E del 23 gennaio 2008, ha fornito i seguenti chiarimenti circa il posizionamento dei contribuenti soggetti agli studi di settore che si collocano all’interno dell’intervallo di confidenza.
In più occasioni è stato posto il problema di come occorra considerare la posizione del contribuente “non congruo”, che dichiara ricavi o compensi compresi all’interno del cosiddetto “intervallo di confidenza” segnalato dal software GERICO. Nella circolare n. 110/E del 21 maggio 1999 e nella circolare n. 148/E del 5 luglio 1999, l’Amministrazione finanziaria aveva già precisato che i valori di adeguamento alle risultanze degli studi di settore dovevano effettuarsi “.. tenendo conto del valore che nella applicazione GERICO viene indicato quale ricavo di riferimento puntuale..”.
Nelle stesse circolari risultava altresì evidenziato che l’adeguamento del ricavo all’interno del cosiddetto “intervallo di confidenza”, è comunque da ritenersi un ricavo o compenso “possibile”, ferma restando la facoltà dell’Ufficio di chiedere al contribuente di giustificare per quali motivi avesse ritenuto di adeguarsi ad un livello di ricavi o compenso inferiore a quello di riferimento puntuale.
Nella circolare n. 110/E del 21 maggio 1999 veniva peraltro chiarito che l’intervallo di confidenza viene “.. ottenuto come media degli intervalli di confidenza al livello del 99,99 per ogni gruppo omogeneo ponderata con le relative probabilità di appartenenza”. I citati contribuenti che si collocano “naturalmente” all’interno del cosiddetto “intervallo di confidenza”, devono, tenuto conto delle predette probabilità, considerarsi generalmente in linea con le risultanze degli studi di settore, in quanto si ritiene che i valori rientranti all’interno del predetto “intervallo” hanno un’elevata probabilità statistica di costituire il ricavo/compenso fondatamente attribuibile ad un soggetto esercente un’attività avente le caratteristiche previste dallo studio di settore. Pertanto, tenendo conto che lo strumento presuntivo degli studi di settore deve essere sempre utilizzato verificando in concreto la possibilità degli stessi di rappresentare correttamente la capacità del contribuente di produrre ricavi o compensi, al fine del raggiungimento di tale primario obiettivo, l’attività di accertamento sulla base degli studi di settore deve essere prioritariamente rivolta nei confronti di quei contribuenti “non congrui” che, sulla base delle risultanze della contabilità, hanno dichiarato un ammontare di ricavi o compensi inferiori al ricavo o compenso minimo di riferimento derivante dall’applicazione delle risultanze degli studi di settore.
5.a.5. Gli indicatori di normalità economica: fase transitoria e definitiva.
Si è detto che la legge 27 dicembre 2006, n. 296 (Finanziaria 2007, All. 1.14) all’art. 1, comma 13, introdusse l’art. 10-bis nella legge n. 146 in tema di modalità di revisione ed aggiornamento degli studi di settore, da attuarsi al massimo ogni tre anni. Il secondo comma della norma prevede che “ai fini dell’elaborazione e della revisione degli studi di settore si tiene anche conto di valori di coerenza, risultanti da specifici indicatori definiti da ciascuno studio, rispetto a comportamenti considerati normali per il relativo settore economico”96.
La fase transitoria è stata disciplinata dal successivo comma 14, per il quale “fino alla elaborazione e revisione degli studi di settore (…) che tengono conto degli indicatori di coerenza di cui al comma 2 dell’articolo 10-bis (…) si tiene altresì conto di specifici indicatori di normalità economica, di significativa rilevanza, idonei alla individuazione di ricavi, compensi e corrispettivi fondatamente attribuibili al contribuente in relazione alle caratteristiche e alle condizioni di esercizio della specifica attività svolta”.
Gli indicatori di normalità economica (INE) transitori sono stati approvati con d.m. 20 marzo 2007, poi modificato con d.m. 4 luglio 200797; la loro disciplina fu oggetto di modifiche e precisamente:
– il d.l. 2 luglio 2007, n. 81 introdusse, dopo il comma 14 dell’art. 1 della legge 27 dicembre 2006, n. 296, i commi 14-bis e 14-ter (il secondo aggiunto dalla legge di conversione 3 agosto 2007, n. 127) rilevanti ai fini della valenza probatoria degli studi di settore, prevedendo il primo che “Gli indicatori di normalità economica di cui al comma 14, approvati con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, hanno natura sperimentale e i maggiori ricavi, compensi o corrispettivi da essi desumibili costituiscono presunzioni semplici” ed il secondo che ” I contribuenti che dichiarano un ammontare di ricavi, compensi o corrispettivi inferiori rispetto a quelli desumibili dagli indicatori di cui al comma 14-bis non sono soggetti ad accertamenti automatici e in caso di accertamento spetta all’ufficio accertatore motivare e fornire elementi di prova per gli scostamenti riscontrati”;
– la legge 24 dicembre 2007, n. 244 (All. 1.18) all’art. 1, comma 252 aggiunse all’articolo 1, comma 14, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, dopo il primo periodo, i seguenti: “Ai fini
dell’accertamento l’Agenzia delle entrate ha l’onere di motivare e fornire elementi di prova per avvalorare l’attribuzione dei maggiori ricavi o compensi derivanti dall’applicazione degli indicatori di normalità economica di cui al presente comma, approvati con il decreto del Ministro dell’economia e delle finanze 20 marzo 2007, pubblicato nel supplemento ordinario alla Gazzetta Ufficiale n. 76 del 31 marzo 2007, e successive modificazioni, fino all’entrata in vigore dei nuovi studi di settore varati secondo le procedure, anche di concertazione con le categorie, della disciplina richiamata dal presente comma. In ogni caso i contribuenti che dichiarano ricavi o compensi inferiori a quelli previsti dagli indicatori di cui al presente comma non sono soggetti ad accertamenti automatici”. Con l’introduzione degli indicatori di normalità economica si è pertanto registrata un’ulteriore evoluzione degli studi di settore a partire dal periodo d’imposta 2007 98.
I. A seguito dell’introduzione degli indicatori di normalità economica (di seguito INE), prevista dai commi 13 e 14 della Finanziaria 2007, è necessario, però, distinguere nella disciplina degli studi di settore una disciplina “a regime” e una “transitoria”. La disciplina a regime riguarda gli studi revisionati a partire dal 2008 in cui i ricavi o compensi congrui sono definiti tenendo conto degli indici di coerenza definitivi previsti dall’art. 10-bis della legge n. 146/1998, introdotto dal comma 13 della Finanziaria 2007. La disciplina transitoria riguarda gli studi elaborati prima del 2008 in cui i ricavi o compensi congrui sono definiti tenendo conto degli INE transitori previsti dal comma 14 della Finanziaria 2007 99. Una volta riscontrati i risultati cui portava l’applicazione di questi ultimi100 e a seguito delle proteste delle associazioni di categoria e degli Ordini professionali101, il legislatore ha introdotto norme che disciplinano espressamente la loro efficacia probatoria.
A seguito delle modifiche apportate dal d.l. n. 81/2007, con il decreto 4 luglio 2007 modificativo del d.m. 20 marzo 2007, con la circ. n. 41/E del 6 luglio 2007 l’Agenzia ha chiarito che è necessario motivare gli eventuali accertamenti posti in essere sulla base degli studi fornendo ulteriori elementi probatori per avvalorare i maggiori ricavi e compensi derivanti dall’applicazione degli INE transitori102 nonché chiarito che tali accertamenti non potranno essere effettuati nei confronti dei contribuenti che dichiarino, anche per effetto di adeguamento, ricavi o compensi in misura non inferiore al maggiore tra il livello minimo dei ricavi derivante dall’applicazione degli INE e il livello di congruità puntuale previsto dagli studi103.
Si ricorda che con il d.l. 2 luglio 2007, n. 81, convertito con modificazioni dalla legge 3 agosto 2007, n. 127, il valore probatorio di mera presunzione semplice104 degli indicatori di normalità economica transitori è stato affermato anche a livello normativo, così come è stato ribadito, e sempre con norma di rango primario, che gli scostamenti del reddito dichiarato da quello risultante da tali indicatori non sono soggetti ad accertamenti automatici105, e che, in caso di accertamento, spetterà all’ufficio motivare e fornire elementi di prova degli scostamenti riscontrati106.
Infine, la legge Finanziaria 2008 107 ha ulteriormente ribadito che, ai fini dell’accertamento, l’Agenzia delle Entrate ha l’onere di motivare e fornire elementi di prova per avvalorare l’attribuzione di maggiori ricavi o compensi derivanti dall’applicazione degli INE transitori, questo fino all’entrata in vigore degli studi di settore revisionati.
II. Gli indicatori di normalità economica definitivi, introdotti per la prima volta con riferimento agli studi di settore revisionati nel 2008108, in vigore dal periodo d’imposta 2007, presentano un maggior grado di affidabilità ai fini del loro utilizzo in sede di accertamento rispetto a quelli transitori approvati con il d.m. 20 marzo 2007.
La procedura di Gerico 2008 permette, tuttavia, al contribuente, qualora ritenga che il risultato fornito dall’analisi di normalità economica non sia rispondente alla sua reale situazione, di segnalare agli Uffici la non corretta applicazione del singolo indicatore di normalità economica, con la possibilità di modificare, utilizzando l’apposita sezione “Note aggiuntive” della procedura, l’importo delle variabili che rilevano ai fini del calcolo della normalità economica (“Ricalcolo”), ovvero richiedere la non applicazione del singolo indicatore109.
Il contribuente, nella fase di contraddittorio con l’ufficio, dovrà dare dimostrazione, fornendo riscontri anche su base documentale, dei motivi che comprovano le attestazioni rese e il “ricalcolo” effettuato.
Sempre al fine di rendere più affidabili i risultati degli studi, sono stati introdotti appositi correttivi che rettificano gli effetti di determinate variabili che incidono sui ricavi o compensi stimati. Alcuni di questi operano in modo automatico110, altri, invece, dopo essere stati segnalati in un’apposita area del programma Gerico sono riconosciuti al contribuente in sede di contraddittorio, qualora l’ufficio accerti l’esistenza dei requisiti idonei per l’abbattimento dei ricavi stimati da Gerico. Alla stessa finalità di affinamento delle elaborazioni risponde anche l’aggiornamento della territorialità generale, della territorialità del commercio a livello comunale, provinciale e regionale, nonché l’introduzione di una nuova analisi della territorialità relativa al livello dei canoni di affitto dei locali commerciali a livello comunale. Si è operata in tal modo una nuova classificazione della territorialità generale111, che tiene conto del livello di benessere e di sviluppo socio economico del territorio, pervenendo così a diverse classificazioni dei comuni italiani112, nonché ad un aggiornamento delle aree della territorialità del commercio113.
Infine un’importante apertura va registrata da parte dell’Agenzia relativamente ai contribuenti che dichiarano ricavi o compensi di importo compreso nel cd. intervallo di confidenza, segnalato dal software Gerico.
Rispetto alle interpretazioni fornite in passato dalla stessa Agenzia delle Entrate114, si afferma per la prima volta115 esplicitamente che tale posizionamento ha una credibilità statistica.
L’Agenzia ha chiarito, infatti, che i contribuenti che si collocano all’interno dell’intervallo di confidenza devono considerarsi generalmente in linea con le risultanze degli studi, in quanto i valori rientranti all’interno del predetto intervallo hanno un’elevata probabilità statistica di costituire il ricavo/compenso fondatamente attribuibile ad un soggetto esercente un’attività avente le caratteristiche previste dallo studio di settore. Di conseguenza, l’attività di accertamento degli Uffici sulla base degli studi di settore sarà prioritariamente rivolta nei confronti dei contribuenti non congrui che hanno dichiarato un ammontare di ricavi e compensi inferiori al ricavo o compenso minimo di riferimento116.
Chiarimenti ulteriori sono presenti nelle due circolari che si sono occupate dei primi studi di settore di nuova formazione, cioè elaborati tenendo conto degli specifici indicatori di normalità economica previsti dall’art. 10-bis, comma 2, della legge n. 146 del 1998: la circ. 29 maggio 2008, n. 44/E, emessa a seguito dell’approvazione di nuovi 68 studi di settore con d.m. 6 marzo 2008 e la circ. n. 29/E del 18 giugno 2009, emessa a seguito
dell’approvazione di nuovi 69 studi di settore con d.m. 23 dicembre 2008.
Entrambe le circolari così chiariscono le differenze tra gli indicatori specifici di normalità economica e gli indicatori di normalità economica previsti in via transitoria dall’articolo 1, comma 14, della legge n. 296 del 2006 .
Meritano particolare evidenziazione le profonde differenze esistenti tra gli “indicatori specifici di normalità economica”, ora contemplati nei nuovi studi approvati per il periodo d’imposta 2008, e gli “indicatori di normalità economica” previsti in via transitoria dall’articolo 1, comma 14, della legge n. 296 del 2006 ed approvati con il decreto ministeriale del 20 marzo 2007, i quali continuano a trovare applicazione per gli studi di settore già in vigore per il periodo d’imposta 2006 e che non sono stati oggetto di revisione nel 2007 e 2008.
Gli indicatori transitori, pur avendo finalità simili a quelle dei nuovi indicatori specifici, si differenziano da questi ultimi in quanto: – sono i medesimi per tutti gli studi di settore del comparto delle imprese, da un lato, e delle professioni dall’altro (mentre i nuovi indicatori sono stati specificamente elaborati per ciascuno studio di settore); – sono stati individuati con riferimento alla intera platea dei contribuenti esercenti le attività considerate dai singoli studi di settore (mentre i nuovi indicatori sono stati specificamente enucleati per ciascun gruppo omogeneo, spesso distinguendo, all’interno del gruppo, tra i soggetti con dipendenti e quelli senza dipendenti oppure in funzione del luogo di esercizio dell’attività). In sostanza, i nuovi indicatori sono stati definiti con modalità molto più strutturate, in quanto basate su di una approfondita analisi economica. Essi contribuiscono quindi a garantire un grado di precisione della stima di gran lunga superiore rispetto a quello fornito dagli indicatori approvati con il citato decreto del 20 marzo 2007.
Va inoltre evidenziato che i nuovi indicatori specifici, in quanto definiti in sede di elaborazione dei nuovi studi, formano parte integrante degli studi medesimi; al contrario, i precedenti indicatori, data la loro valenza transitoria, erano stati individuati per macrocategorie ed applicati indistintamente a tutti gli studi di settore.
Per quanto riguarda gli indicatori di normalità introdotti a decorrere dal periodo d’imposta 2007, la circ. n. 29/E del 18 giugno 2009 afferma:
(…) gli indicatori di normalità introdotti nei nuovi studi di settore, approvati a decorrere dal periodo d’imposta 2007, presentano un maggior grado di affidabilità ai fini dell’utilizzo in sede di accertamento, rispetto a quelli approvati con il D.M. 20 marzo 2007.
Per questi ultimi, l’art. 15, comma 3-bis, del decreto legge n. 81 del 2007, nel sancire la “natura sperimentale”, ha stabilito che “i maggiori ricavi, compensi o corrispettivi da essi desumibili costituiscono presunzioni semplici”, aggiungendo inoltre che, in caso di accertamento, “spetta all’ufficio accertatore motivare e fornire elementi di prova per gli scostamenti riscontrati” (sul punto si fa rinvio ai chiarimenti forniti dalla circolare n. 5/E del 23 gennaio 2008).
La stima dei maggiori ricavi o compensi effettuata tenendo conto degli indicatori di normalità economica di cui all’art. 10-bis, comma 2, della legge n. 146 del 1998, ha invece la medesima valenza di quella derivante dalla tradizionale analisi di congruità effettuata dallo studio di settore.
Va tuttavia evidenziato che, anche con riguardo alla stima derivante dai nuovi indicatori, l’ufficio non è legittimato, comunque, all’emissione di atti di accertamento “automatici” basati esclusivamente sulla stima medesima. Infatti, come già precisato nella citata circolare n. 5/E del 23 gennaio 2008, l’utilizzo automatico degli studi non è mai consentito in sede di accertamento “dato che il suo contenuto dipende dall’esito, imprevedibile a priori, del contraddittorio”e tale assunto vale, naturalmente, anche con riguardo ai nuovi studi, approvati con i D.M. 6 marzo 2008, che prevedono l’applicazione degli indicatori di cui all’art. 10-bis, comma 2, della legge n. 146 del 1998.
Ne consegue dunque che gli accertamenti basati sui detti, nuovi studi di settore, anche nel caso di maggiori ricavi o compensi derivanti dall’applicazione degli indicatori di normalità, “devono essere sempre calibrati tenendo in debito conto tutti gli elementi offerti dal contribuente per dimostrare che i ricavi o compensi presunti non sono stati effettivamente conseguiti”. Ciò in quanto l’azione di controllo deve essere sempre ispirata a “…criteri di ragionevolezza tali da evitare la penalizzazione di contribuenti per i quali il meccanismo presuntivo potrebbe risultare non idoneo a cogliere le effettive condizioni di esercizio dell’attività, soprattutto nel caso in cui evidenzi scostamenti rilevanti rispetto al dichiarato….”.
Nella circolare n. 31/E del 22 maggio 2007 e nella circolare n. 38/E del 12 giugno 2007 sono state evidenziate alcune possibili situazioni e cause che potrebbero giustificare la stima dei maggiori ricavi o compensi derivanti dall’applicazione dei predetti indicatori approvati con il D.M. 20 marzo 2007. Tali indicazioni, in linea di massima, devono ritenersi valide anche con riguardo agli indicatori di normalità previsti nei nuovi studi approvati con D.M. 6 marzo 2008, in vigore a decorrere dal 2007.
5.b. La natura degli studi di settore secondo le circolari ministeriali. La relazione della Commissione “Rey”. Nelle circolari ministeriali succedutesi quasi annualmente dal 1999 è ricorrente l’affermazione per cui “lo scostamento dei ricavi dichiarati rispetto a quelli attribuibili al contribuente sulla base dello studio di settore approvato per la specifica attività svolta costituisce presunzione grave, precisa e concordante” (v., ad esempio, par. 3 circ. 11 aprile 2002, n. 29/E; par. 3 circ. 26 agosto 2003, n. 48/E; par. 3 circ. 7 giugno 2004, n. 21/E). Come già anticipato (retro paragrafo 5.a.2.), tale convincimento è stato confermato dalla circ. 16 febbraio 2007, n. 11/E, anche a seguito della modifica dell’articolo 10, comma 1, della legge n. 146 del 1998, da parte dell’art. 1, comma 23, lett. b), della legge finanziaria 2007, nel senso che la norma aveva ribadito ” ancora una volta, la valenza probatoria degli studi di settore quale presunzione relativa, dotata dei requisiti di gravità, precisione e concordanza”. Prosegue, peraltro, la circolare: “In altri termini, il nuovo disposto normativo intende semplicemente riaffermare che gli accertamenti basati sugli studi di settore possono essere effettuati ogni qualvolta il contribuente dichiari ricavi o compensi non congrui rispetto alla stima, senza che l’Amministrazione finanziaria debba fornire ulteriori dimostrazioni a sostegno della pretesa tributaria”.
Tali affermazioni, sembrano prospettare il favore per l’autosufficienza degli accertamenti basati sugli studi di settore o, almeno, per una soluzione in cui ” le questioni incentrate sulla motivazione della rettifica e sulla prova della pretesa erariale dovrebbero reputarsi in qualche modo incapsulate nella predeterminazione normativa e da quest’ultima legittimate117 “. In alcuni casi l’autosufficienza veniva implicitamente giustificata, con l’affermazione che la motivazione degli accertamenti basati sugli studi di settore fosse da ricercare nell’intero procedimento di approvazione dei singoli studi (circ. 27 giugno 2002, n. 58/E);
anche in questi casi, però, si chiariva che “la procedura di elaborazione degli studi di settore (…) non priva il contribuente della possibilità di fornire prova contraria adducendo argomentazioni tali da dimostrare la non attendibilità del risultato dell’applicazione dello studio in relazione alla specifica situazione oggetto di controllo” e che “lo scostamento potrà essere giustificato non solo in base a prove documentali certe, che abbiano un riscontro diretto ed immediatamente quantificabile sui ricavi dichiarati, ma anche in base ad un ragionamento di tipo presuntivo che si fondi su elementi certi e che conduca a valutazioni che abbiano una reale capacità di convincimento dell’ufficio”. In questa prospettiva, quindi, le circolari evidenziano la necessità del contraddittorio, al fine di mettere il contribuente in condizione di fornire tutti i chiarimenti che ritenga necessari ed opportuni, nonché l’obbligo per l’Amministrazione di motivare adeguatamente il conseguente avviso di accertamento118. Riguardo alla natura degli studi di settore la costante impostazione delle circolari ministeriali ha subito una significativa evoluzione a seguito dell’introduzione degli indicatori di normalità economica prevista dai commi 13 e 14 della Finanziaria 2007 (retro, par. 5.a.5.).
Con la circ. 23 gennaio 2008, n. 5/E, l’Agenzia delle Entrate ha infatti precisato che alla stima dei maggiori ricavi o compensi derivanti dall’applicazione degli indicatori di normalità economica, non viene riconosciuta una piena capacità di rappresentare adeguatamente l’effettiva situazione produttiva del contribuente. Per questo motivo, la stima in questione può essere utilizzata, in sede di accertamento, con modalità da considerare “sperimentali”. I maggiori ricavi o compensi da essi desumibili costituiscono una “presunzione semplice”, che assume valore probatorio ed efficacia persuasiva in giudizio in quanto dotata dei requisiti della gravità, precisione e concordanza.
Per natura, dunque, non si tratta di una presunzione
qualitativamente diversa da quella che, come si dirà nei successivi paragrafi, caratterizza l’utilizzo degli studi di settore. Mentre, nell’accertamento effettuato in base a questi ultimi, l’onere di fornire ulteriore materiale probatorio, in capo all’Ufficio, non è predefinito, nel senso che esso dipende dall’apporto di elementi particolari (sui quali v. infra) da parte del contribuente in sede di contraddittorio – che come noto va obbligatoriamente tentato -, in caso di applicazione degli indicatori l’Ufficio comunque deve accompagnare questi ultimi con ulteriori elementi, a prescindere dall’atteggiamento che il soggetto sottoposto a controllo terrà in sede di contraddittorio.
La stima effettuata mediante gli indicatori di normalità economica in parola non legittima, pertanto, l’emissione di atti di accertamento “automatici”, esclusivamente basati sulla stima medesima (come intende evidentemente chiarire il nuovo comma 14-ter e come ribadito dalle integrazioni apportate al comma 14). Ma, come si dirà di seguito e come è già stato chiarito nelle precedenti circolari in materia, l’uso automatico non è consentito neppure per l’accertamento che impiega gli studi, dato che il suo contenuto dipende dall’esito, imprevedibile a priori, del contraddittorio. Quest’ultima conclusione vale, peraltro, anche con riferimento agli studi in evoluzione e, in particolare, agli indicatori previsti dal comma 13 della legge finanziaria per il 2007.
Significative sono le conseguenze relative alla valutazione delle risultanze derivanti dall’applicazione degli studi di settore e la centralità del contraddittorio.
Fermo restando quanto già affermato nelle precedenti circolari in ordine alla valenza probatoria degli studi di settore (vedi, in particolare, la circolare n. 58/e del 27 giugno 2002), le descritte innovazioni normative, seppure riferite all’utilizzo degli indicatori di normalità economica di cui al comma 14 della legge finanziaria del 2007 (legge n. 296 del 2006), impongono un’ulteriore riflessione, di carattere generale, sull’utilizzo degli studi di settore in sede di accertamento secondo il disposto dell’art 62-sexies, comma 3, del decreto legge n. 331 del 1993. Quest’ultima disposizione si riferisce, come noto, alla modalità dell’accertamento analitico-presuntivo, nei confronti degli esercenti imprese, arti o professioni, prevista dall’art. 39, primo comma, lettera d), del d.P.R. n. 600 del 1973, e dall’art. 54 del d.P.R. n. 633 del 1972, e basata su presunzioni semplici, purché qualificate dai requisiti della gravità, precisione e concordanza. Con riguardo alla predetta modalità accertativa, la stessa disposizione stabilisce che la stessa può anche basarsi “sull’esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi e i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili….. dagli studi di settore elaborati ai sensi dell’articolo 62-bis”. L’espressione “fondatamente desumibili” rappresenta il cardine sul quale ruota il corretto utilizzo delle stime operate dagli studi di settore nell’ambito dell’accertamento analitico-presuntivo. Essa sta chiaramente a significare che le dette stime in tanto sono utilizzabili in quanto da esse sia “fondatamente desumibile” l’ammontare dei ricavi, compensi e corrispettivi effettivamente conseguiti nel periodo d’imposta considerato.
Ciò vale ad escludere, innanzitutto, che l’utilizzo possa avvenire in modo indiscriminato (o “automatico”), non solo con riguardo alle stime operate tenendo conto degli indicatori di normalità economica di cui al comma 14 della legge finanziaria del 2007 (come espressamente impongono le nuove norme citate al par. 1), ma anche per quelle effettuate senza il contributo degli indicatori medesimi. È infatti evidente l’intento di attribuire alle stime in parola la qualità di presunzione semplice, qualificata dai requisiti più volte ricordati, solo qualora le stesse siano “fondatamente” idonee allo scopo che si propongono, il quale consiste nel desumere da fatti noti, quello ignoto che si intende dimostrare. Nel caso di specie, il fatto ignoto coincide con il quantum dei ricavi, compensi e corrispettivi effettivamente conseguiti da parte del singolo contribuente oggetto di controllo. I fatti noti sono invece rappresentati dai dati strutturali e contabili, ivi compresi i ricavi, compensi e corrispettivi, dichiarati da un campione significativo di contribuenti che presentano forti analogie con quello controllato, selezionato in base al criterio della “normalità economica” (desunta dall’analisi dei dati dichiarati e dall’applicazione di specifici indicatori economico-contabili in funzione di filtro selettivo).
Risulta quindi evidente che la fondatezza della stima dipende sostanzialmente dalle seguenti circostanze:
– capacità del campione di rappresentare in modo adeguato le situazioni di “normalità economica” di una determinata realtà produttiva, ove per tale è da intendere quella espressa dai “gruppi omogenei” (cluster) individuati dagli studi di settore;
– effettiva coincidenza della situazione del singolo contribuente, oltre che con quella propria della detta realtà produttiva, anche (e soprattutto) con quella di “normalità economica” presa base per la individuazione del campione rappresentativo.
La prima circostanza trova in genere adeguata dimostrazione nel percorso metodologico seguito nella elaborazione degli studi di settore, sinteticamente descritto nelle note tecniche allegate ai decreti di approvazione.
La seconda circostanza deve invece essere di volta in volta appurata valutando attentamente le caratteristiche del singolo contribuente, onde stabilire se la sua situazione produttiva coincida effettivamente con quella del gruppo o dei gruppi omogenei in cui viene classificata e non presenti caratteristiche tali da poterla considerare “non normale” dal punto di vista economico, tenendo conto del concetto di “normalità” assunto dallo studio di settore che si intende applicare.
In casi particolari, le menzionate circostanze (e in specie la seconda) potrebbero rivelarsi non pienamente sussistenti, determinando di conseguenza la inidoneità dello studio a cogliere l’effettiva situazione produttiva del contribuente con una bassa probabilità di errore (quale quella già prevista da ciascuno studio e rappresentata dal cosiddetto “intervallo di confidenza”). La valutazione di affidabilità dello studio nel caso concreto deve essere effettuata nell’ambito del contraddittorio instaurato con il contribuente, dopo l’avvio della procedura di accertamento con adesione, sulla base anche degli elementi forniti, idonei ad incidere sulla fondatezza della presunzione, nei termini innanzi precisati.
I suddetti chiarimenti trovano peraltro corrispondenza nelle indicazioni già espresse nelle recenti circolare n. 31/E del 22 maggio 2007 e circolare n. 38/E del 12 giugno 2007.
L’inesistenza della possibilità di effettuare accertamenti “automatici”, basati sugli studi di settore, veniva infatti chiaramente esclusa dalla prima circolare, laddove evidenziava che gli accertamenti medesimi “.. devono essere sempre calibrati tenendo in debito conto tutti gli elementi offerti dal contribuente per dimostrare che i ricavi o compensi presunti non sono stati effettivamente conseguiti..”. Analoga indicazione veniva fornita nella seconda circolare, con la precisazione che l’azione di controllo deve essere sempre ispirata a “.. criteri di ragionevolezza tali da evitare la penalizzazione di contribuenti per i quali il meccanismo presuntivo potrebbe risultare non idoneo a cogliere le effettive condizioni di esercizio dell’attività, soprattutto nel caso in cui evidenzi scostamenti rilevanti rispetto al dichiarato..”.
Ad ulteriore chiarimento di quest’ultimo assunto si precisa, peraltro, che nei casi in cui lo scostamento del valore dei ricavi, compensi e corrispettivi dichiarati sia particolarmente elevato, sia in termini assoluti che in termini percentuali, l’Ufficio è sempre tenuto a verificare, anche nel contraddittorio con il contribuente, l’eventuale esistenza di cause che abbiano influito negativamente sul normale svolgimento dell’attività, indipendentemente dal fatto che si tratti o meno di situazioni coincidenti con quelle già contemplate dalla prassi amministrativa, così come la corretta attribuzione al “cluster” di riferimento dell’attività effettivamente esercitata.
Quest’ultima precisazione, tanto con riguardo alle cause di carattere negativo che alla esattezza dell’attribuzione al “cluster”, vale comunque, in casi particolari, per qualsiasi altro tipo di scostamento significativo, mentre per gli scostamenti di scarsa rilevanza restano confermate le indicazioni fornite con la citata circolare n. 31/E del 22 maggio 2007, le quali, muovendo dalla constatazione che i detti scostamenti potrebbero rivelarsi inidonei ad integrare le “gravi incongruenze” di cui parla il più volte citato art. 62-sexies, giungevano ad affermare che gli scostamenti medesimi vanno considerati “come elementi da utilizzare unitamente ad altri elementi disponibili o acquisibili con gli ordinari poteri istruttori”. A tal proposito, va ulteriormente evidenziato che per scostamenti di “lieve entità”, non devono necessariamente intendersi solo quelli che si collocano all’interno del c.d. “intervallo di confidenza”, potendo rientrare in tale ipotesi anche gli scostamenti inferiori al ricavo minimo di riferimento.
Pertanto, la motivazione degli atti di accertamento basati sugli studi di settore non deve essere di regola rappresentata dal mero, “automatico” rinvio alle risultanze degli studi di settore, ma deve dare conto in modo esplicito delle valutazioni che, a seguito del contraddittorio con il contribuente, hanno condotto l’Ufficio a ritenere fondatamente attribuibili i maggiori ricavi o compensi determinati anche tenendo conto degli indicatori di normalità. Nel caso di accertamento con adesione del contribuente, il suddetto adempimento può ritenersi assolto mediante il riconoscimento, da parte del contribuente, della predetta fondatezza. Fuori dalla suddetta ipotesi, l’Ufficio dovrà sempre enucleare gli esiti delle valutazioni effettuate, con particolare riguardo ai seguenti tre profili:
assenza di elementi oggettivi che inducano a ritenere inadeguato il percorso tecnicometodologico seguito dallo studio per giungere alla stima;
correttezza della imputazione al “cluster” di riferimento;
mancanza di cause particolari che abbiano potuto influire negativamente sul normale svolgimento dell’attività, collocandolo al di sotto del livello determinato dallo studio, anche con il contributo degli indicatori di normalità.
Qualora il contribuente abbia formulato eccezioni, con riguardo ad uno o più dei predetti profili, la motivazione dovrà ovviamente spiegare le ragioni che hanno indotto a ritenere infondate, in tutto o in parte, le argomentazioni addotte.
In caso di mancata partecipazione al contraddittorio, invece, la valutazione della affidabilità delle risultanze dello studio sarà svolta direttamente dall’Ufficio sulla base degli elementi in proprio possesso.
Può essere infine utile riportare le conclusioni sulla natura degli studi di settore contenute nella relazione finale del 31 gennaio 2008 [c.d. Relazione Rey] rimessa dalla Commissione tecnica istituita dal Ministero per lo studio e l’approfondimento delle problematiche di tipo giuridico ed economico inerenti alla materia degli Studi di Settore (Presidente Prof. Guido Rey – Membri Prof. Massimo Basilavecchia e Dott. Roberto Monducci). Si riporta stralcio del capitolo 6 (Gli studi di settore nelle norme e nelle controversie).
6.1 Poca chiarezza normativa nell’attività di accertamento. Come si è visto in precedenza, nell’accertamento la funzione degli sds è plurima e ambigua. È stata rifiutata dal legislatore, ma anche dalle parti in causa, la funzione degli studi quale catasto delle attività autonome e almeno in teoria, e nonostante qualche ambiguità, si può anche negare che gli studi diano luogo ad accertamenti automatici.
Tecnicamente, l’atto di approvazione degli studi non può essere definito regolamento: è probabilmente atto amministrativo generale, che, svolgendo la propria funzione nel procedimento, e non quale regola di determinazione dell’imponibile come accade ad es. per le rendite catastali, può anche essere dotato di efficacia retroattiva, applicandosi a periodi d’imposta già chiusi. Gli studi costituiscono un quadro di riferimento e di stima dei ricavi probabili di ciascuna impresa o struttura professionale;
quadro:
a) di cui tutti devono tener conto; b) da cui nessuno è vincolato;
c) che pone in una situazione di relativa preminenza il soggetto che conforma la sua azione, nel procedimento di accertamento, agli sds;
d) che lascia perciò persistere i normali obblighi contabili e procedurali per i soggetti compresi negli sds; e) nel quale l’adeguamento alle risultanze degli sds non esonera dalla soggezione ai poteri di accertamento.
A loro volta gli uffici non possono invocare l’esito degli sds per evitare la propria azione di controllo e di accertamento: si tratta di un ausilio a tale azione, non risolutivo ne’ esaustivo, che non ipoteca neppure l’esito del processo.
In effetti il risultato migliore in teoria l’Agenzia lo ottiene se il contribuente si conforma alle risultanze degli studi in sede di dichiarazione (congruità e coerenza). Su tutti i congrui e coerenti l’accertamento può aver luogo, perché il contribuente ha pur sempre l’obbligo di dichiarare tutti i ricavi che produce, ma occasionalmente e in base a criteri selettivi che considerano anche elementi diversi dagli sds; il congruo e coerente è dunque ragionevolmente protetto, anche se ha intenzionalmente appiattito i ricavi sulla base degli sds
6.2 Il ruolo degli attributi qualitativi assegnati alla singola dichiarazione.
Lo studio è di regola reso noto dopo che il periodo d’imposta è chiuso, il che comporta la possibilità, per il congruo non naturale, di porsi in condizioni di conformità alla “richiesta” degli studi mediante adeguamento in dichiarazione: adeguamento peraltro consentito dal sistema senza limiti anche per periodi d’imposta non interessati da studi nuovi o modificati. Essendo peraltro nota l’influenza degli sds sul dichiarato, è da valutare il possibile effetto positivo, in termini anche etico-pedagogici, di una modifica che stabilisca da un lato l’obbligo, normativo, di dare effetto allo studio dal periodo d’imposta successivo a quello della sua approvazione o, al più, dallo stesso periodo in cui lo studio viene approvato, eliminando, d’altro canto, la possibilità di adeguamento spontaneo che riconosce implicitamente le infedeltà contabili compiute nel periodo d’imposta, mettendo gli sds in una condizione assimilabile ad un mini condono. Insomma, in un contesto finalmente rispettoso dello Statuto dei diritti del contribuente, il contribuente dovrebbe conoscere lo studio, al più tardi, a periodo d’imposta ancora in corso (o meglio prima), e lo applica non ex post, sanando l’evasione “tentata”, ma adeguando già in corso d’anno i ricavi contabilizzati e dichiarati. Si eliminerebbe così il pretesto per effettuare, unitamente all’adeguamento, quella “manipolazione” dei dati rilevanti ai fini degli studi che appare come la principale causa della loro scarsa efficacia sino ad oggi. Naturalmente dovrebbe esserci, in contropartita, una certa pressione che combatta i fenomeni di appiattimento In sostanza, si tratterebbe di anticipare quanti ricavi si aspetta l’Agenzia dalle modifiche apportate agli studi e nel contempo la relativa risposta (fermo restando, a dichiarazione presentata, il ravvedimento operoso). Per i contribuenti che non si adeguano, e che dunque restano definitivamente incongrui, si apre la concreta prospettiva di essere sottoposti ad accertamento “sulla base degli studi di settore”. Anche i congrui non coerenti sono passibili di controlli, ma in tal caso l’incoerenza funge da fonte di innesco di un controllo non necessariamente imperniato sul livello dei ricavi. 6.3 Il ruolo degli sds nell’accertamento in senso classico e tradizionale.
Si ipotizzi come prima situazione standard, quella dell’accertamento effettuato sui non congrui e basato sugli sds.. È pacifico che questi non diano luogo ad una presunzione relativa (di quella assoluta si è già negata la consistenza). Quindi non opera la regola per cui l’ammontare dei ricavi si considera pari alle risultanze prodotte dagli sds (Rsds). Recenti studi, inoltre, tendono a negare anche la valenza probatoria degli sds quale elemento costitutivo di presunzioni semplici ma la conclusione sembra eccessiva. Invero, gli sds costituiscono una presunzione semplice (2729c.c.: lasciata alla prudenza del giudice, il quale le ammette solo se gravi precise e concordanti), non in ordine all’effettiva entità dei ricavi conseguiti attraverso operazioni economiche singolarmente identificate, ma sulla base di un ragionamento probabilistico, non destinato a rimanere meramente interno all’amministrazione finanziaria, funzionale a stimare verosimilmente i ricavi in misura non inferiore ad un certo ammontare. Si ottiene così un ricavo probabile, per il singolo contribuente, desunto da dati forniti dal contribuente medesimo e frutto dell’applicazione di una formula in precedenza avallata dai rappresentanti delle categorie interessate.
Premesso, dunque, che sul piano dei ricavi complessivi stimati, gli sds hanno indubbia attitudine ad essere utilizzati dall’agenzia e poi dal giudice tributario (ove questi, secondo prudenza, ritenga di condividere la valenza presuntiva, nel complessivo contesto probatorio di cui dispone, inclusa la possibilità di avvalersi di ausiliari quali i consulenti tecnici), risulta erronea, e comunque frutto di un equivoco, la tesi che sostiene l’inidoneità degli sds a legittimare un accertamento basato sulla sola constatazione della divergenza tra ricavi e sds ricavi dichiarati.
Sul piano letterale, la tesi travisa il dato dell’art. 62 sexies d.l. 331/93, richiamato poi dalla legge 146/98, art. 10, il quale non richiede affatto gravi incongruenze, nella situazione economico contabile del soggetto controllato, ulteriori rispetto allo scostamento, ma al contrario identifica il presupposto dell’accertamento proprio nell’incongruenza (non qualsiasi, ma grave), tra Rsds e ricavi dichiarati. Come è del resto storicamente confermato dalla circostanza che nell’introdurre gli studi il legislatore non ha affatto inteso fare passi indietro rispetto alla svolta compiuta nel 1989 con i coefficienti: tutti i metodi susseguitisi, nella stessa logica, hanno la funzione di rendere possibile per l’ufficio una rettifica presuntiva dei ricavi senza dover preventivamente ispezionare, e magari invalidare, le scritture contabili.
Lo scostamento è, dunque, a tutti gli effetti un’anomalia che può anche sorreggere da sola l’accertamento, tenuto conto del contesto probatorio complessivo.
La ragione per cui gli sds non possono essere utilizzati in via automatica non deriva dalla necessità di abbinare agli stessi ulteriori, gravi incongruenze, ma dalla circostanza che la procedura richiede, a norma di legge, necessariamente un contraddittorio preventivo (che l’agenzia deve obbligatoriamente attivare, ma senza doverlo far precedere da attività istruttorie) cioè un confronto concreto tra situazione specifica del soggetto e Rsds, confronto, la cui ampiezza e complessità dipende dalla quantità e qualità degli elementi, anche presuntivi, che il contribuente offrirà alla fase partecipativa. Al contribuente inerte o silente, potrà essere notificato un accertamento basato anche sul mero scostamento, mentre l’applicazione dello studio risulterà più complessa e articolata (fino a poter essere del tutto impedita) là dove lo scostamento trovi giustificazione negli elementi addotti in contraddittorio, e dei quali la motivazione dell’avviso dovrà dare conto. Tale relatività delle Rsds in ordine alla quantificazione dell’accertamento, caratterizza sia la fase procedimentale destinata a sfociare auspicabilmente in un accertamento con adesione, sia quella processuale, nella quale spetterà al giudice procedere ad una quantificazione che, ove le domande del ricorrente lo consentano, potrà anche essere intermedia tra Rsds e dichiarato. In definitiva: – rispetto al caso del non congruo, l’Agenzia parte da una posizione di forza, perché, senza altre indagini, può invitarlo a contraddittorio per giustificare lo scostamento; – lo scostamento potrà anche sorreggere da solo l’accertamento, ma nel solo caso in cui nessuna indicazione, neanche presuntiva, venga offerta dal contribuente; – in ogni altro caso, lo scostamento, intero o ridotto, andrà inserito in una più complessa motivazione dell’avviso di accertamento, che tenga conto di quanto rappresentato dal contribuente e di quanto eventualmente acquisito dall’ufficio attraverso ulteriori verifiche; – di regola, dunque, l’accertamento basato sugli sds non è diverso da ogni altro accertamento, così come non vi sono specialità della metodologia ne’ in ordine alla possibile definizione con adesione, ne’ in ordine alle valutazioni decisorie affidate in giudizio alla commissione tributaria. – Deve peraltro essere segnalato che le ambiguità interpretative imputabili alle tesi in precedenza criticate, e la particolare insistenza delle stesse sulla inidoneità del mero scostamento, trovano in qualche modo degli appigli, sia pure apparenti, in alcune contraddizioni normative che trattano gli accertamenti da studi come accertamenti speciali, di contenuto necessariamente parziale, legittimando così la critica verso l’uso automatizzato. È come se il legislatore separasse gli accertamenti che si limitano ad applicare gli studi dagli accertamenti che hanno ad oggetto il reddito d’impresa o la dichiarazione IVA, considerandoli accertamenti ad oggetto limitato; il che indubbiamente è contraddittorio con l’assunto teorico, che tutti i soggetti sentiti nelle audizioni hanno mostrato di voler confermare, secondo il quale lo studio è uno strumento per compiere meglio la normale attività di accertamento.
In tale logica, sembra da suggerire l’abrogazione dell’art. 70 della l. 342/2000, che considera gli accertamenti da sds come sempre integrabili senza particolari condizioni, ancorché definiti per adesione (con disincentivo a ricorrere a quest’ultima). La stessa recentissima normativa dell’estate scorsa (comma 3bis art.15 d.l. 81/2007, convertito dalla legge 127/2007; ma si veda anche quella desumibile dalla finanziaria per il 2008), emanata per disciplinare l’uso degli INE nell’accertamento, appare foriera, ancorché comprensibile sotto il profilo politico del rapporto con le categorie, di ulteriori confusioni e polemiche, nel mentre essa, nel ribadire l’efficacia di presunzioni semplici delle Rsds con obblighi di motivazione e insussistenza di automatismi, non è che meramente confermativa delle disposizioni già in vigore: nulla di nuovo quindi, ma una serie di rassicurazioni normative dovute all’ambigua lettura delle norme sull’accertamento in base agli sds, e l’indicazione di maggiori cautele quando si utilizzano gli INE. Tirando le somme, l’uso degli studi di settore nell’accertamento dei contribuenti non congrui non dà certezze ma dà garanzie ad ogni soggetto di poter svolgere il proprio ruolo senza peraltro assicurare ad alcuno un risultato sicuro preventivabile in partenza. Per tale ragione si ritiene generalmente – e le statistiche sembrano confermarlo – che gli sds si prestino soprattutto all’accertamento con adesione, nel senso che essi fanno da parametro di riferimento per una quantificazione concreta dei ricavi che può essere ragionevolmente, e in tutta trasparenza, concordata tra le parti. 5.c. La giurisprudenza della Sezione V sugli studi di settore. Anche riguardo agli studi di settore viene costantemente escluso che l’accertamento possa automaticamente fondarsi sullo scostamento tra quanto dichiarato ed i dati forniti dagli studi stessi. Il principio è stato ripetutamente affermato in tema di scostamento rispetto alla percentuale di ricarico mediamente riscontrata nel settore di appartenenza. È ormai da tempo acquisito che i valori percentuali medi del settore non costituiscono un fatto noto, storicamente provato, dal quale argomentare, con giudizio critico, quello ignoto da provare, e che, peraltro, da solo, è insufficiente a dare fondamento alla prova presuntiva, ma il risultato di una estrapolazione statistica di una pluralità di dati disomogenei, che fissa una regola di esperienza, in base alla quale poter ritenere statisticamente meno frequenti i casi che si allontanano dai valori medi rispetto a quelli che ad essi si avvicinano. Pertanto, tali valori in nessun caso possono giustificare presunzioni qualificabili come gravi e precise, indicando, diversamente dai risultati valutativi emergenti da medie elaborate con riferimento all’andamento economico della specifica impresa interessata, solo in via ipotetica la redditività dell’attività dell’impresa medesima, cosicché si rivelano assolutamente inidonei ad integrare i presupposti di cui all’art. 39, primo comma, lett. d), del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, laddove non confortati da elementi ulteriori – tra cui ad esempio l’abnormità e l’irragionevolezza della difformità tra la percentuale di ricarico applicata dal contribuente e la media di settore – incidenti sull’attendibilità complessiva della dichiarazione, ovverosia dalla concreta ricorrenza di circostanze gravi, precise e concordanti, e senza peraltro che il richiamo a tale regola di esperienza comporti un’inversione dell’onere della prova, addossando al contribuente l’onere di dimostrare le ragioni specifiche della divergenza dei propri dati da quelli medi119.
In generale, quindi, si afferma che gli “studi di settore introdotti dagli artt. 62-bis e 62-sexies del d.l. n. 331 del 1993, direttamente derivanti dai “redditometri” o “coefficienti di reddito e di ricavi” previsti dal d.l. 2 marzo 1989, n. 69, convertito in legge 27 aprile 1989, n. 154, idonei a fondare semplici presunzioni, sono da ritenere supporti razionali offerti dall’amministrazione al giudice, paragonabili ai bollettini di quotazioni di mercato o ai notiziari Istat, nei quali è possibile reperire dati medi presuntivamente esatti: i dati in tal modo presunti possono, pertanto, essere utilizzati dall’ufficio anche in contrasto con le risultanze di scritture contabili regolarmente tenute, finché non ne sia dimostrata l’infondatezza mediante idonea prova contraria, il cui onere è a carico del contribuente120. Nè, data la loro natura di atti amministrativi generali di organizzazione, ” li si possono considerare sufficienti perché l’ufficio tributario operi l’accertamento di un rapporto giuridico tributario di specie ultima, senza che l’attività istruttoria amministrativa sia completata nel rispetto del principio generale del giusto procedimento, cioè consentendo al contribuente, ai sensi della legge 27 luglio 2000, n. 212, art. 12, comma 7, di intervenire già in sede procedimentale amministrativa, prima di essere costretto ad adire il giudice tributario, di vincere la mera praesumptio hominis costituita dagli studi di settore121.
L’affermazione secondo cui gli studi di settore costituiscono una mera fonte di presunzioni assimilabili alle comuni presunzioni “hominis”, vale a dire di supporti razionali offerti dall’amministrazione al giudice, è prevalente122, anche se non mancano pronunce che fanno riferimento al concetto di presunzione legale.
E così, in tema di rettifica delle dichiarazioni IVA, si è affermato che la previsione dell’art. 62 sexies, comma 3, del d.l. n. 331 del 1993 – secondo cui l’ufficio, allorché ravvisi gravi incongruenze fra i valori dichiarati e quelli ragionevolmente attesi in base alle caratteristiche dell’attività svolta od agli studi di settore, può fondare l’accertamento di maggiore volume di affari, anche su tali gravi incongruenze – ” e, quindi, anche al di fuori delle ipotesi previste dall’art. 55 del d.P.R. cit. art. 55 del d.P.R. n. 633, costituisce, in pratica, un ulteriore elemento presuntivo, di carattere legale, certamente ammissibile anche in presenza di contabilità formalmente regolare (come, in genere, si verifica in presenza di gravi, precise e concordanti presunzioni:
Cass. civ. nn. 10649/2001, 8494/1998, 4555/1998)”. Identiche affermazioni sono state fatte, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, con riferimento al rapporto tra l’art. 62-sexies, comma 3, cit. e l’art. 39, primo comma, lettera d, del d.P.R. n. 600 del 1973 123.
Nessun dubbio, invece, sussiste circa l’obbligatorietà del contraddittorio in materia di studi di settore, anche prima che la legge 30 dicembre 2004, n. 311 lo prevedesse espressamente (retro), la cui omissione comporta la nullità dell’accertamento 124. Sotto il profilo dell’inquadramento sistematico, alcune decisioni collocano gli accertamenti basati sugli studi di settore nell’ambito delle presunzioni gravi, precise e concordanti di cui all’art. 39, 1 comma, lettera d), del d.P.R. n. 600 del 1973.
Emblematica appare Sez. V, sent. n. 2891 del 27/02/2002 Pres. Cantillo, Est. Falcone.
È l’art. 39, comma 1, lett. d), a consentire, sulla base della disamina della contabilità operata dall’ufficio, di ricostruire l’esistenza di attività non dichiarate attraverso presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti; e questo valore possono assumere, se confortate da altri indizi, le difformità delle percentuali applicate in concreto rispetto a quelle mediamente riscontrate nel settore di appartenenza, emergenti da studi di settore, quando vi sia uno scostamento che renda del tutto non credibile il risultato della dichiarazione”. l’amministrazione può contestare la dichiarazione anche facendo riferimento alla percentuale di ricarico applicata e spetta al giudice il duplice compito di verificare prima se sussistono le condizioni per introdurre, in una vicenda che vede presente una contabilità formalmente regolare, lo strumento delle presunzioni semplici, purché gravi precise e concordanti, e poi di verificare se la pretesa formulata dalla amministrazione su tale base sia condivisibile o meno, nel senso che deve verificare anche il grado di affidabilità delle presunzioni utilizzate. L’evoluzione legislativa che si è avuta a partire dal 1985 in poi ha confermato sempre di più la possibilità che l’amministrazione utilizzi strumenti presuntivi legittimati dalla prassi e valutati già in sede preventiva a livello generale, tanto che ormai da qualche anno gli studi di settore si stanno consolidando e stanno offrendo soluzioni sempre più accettate e condivise. Ora, è chiaro che se lo strumento delle presunzioni viene introdotto legittimamente, nei sensi innanzi precisati, nel dibattito tendente alla ricostruzione del reddito, a favore della amministrazione può determinarsi una situazione probatoria che investe anche la quantità dei valori ottenuti sulla base delle presunzioni medesime. E poiché si tratta di presunzioni relative (che ammettono la prova contraria), il contribuente che voglia contestare il risultato delle presunzioni medesime ha l’onere di attivarsi e di mostrare o l’impossibilità di utilizzare le presunzioni in quella fattispecie o l’inaffidabilità del risultato ottenuto attraverso le presunzioni, eventualmente confermando al contempo con altre presunzioni la validità del suo operato. In un tale contesto, è vero che si verifica una inversione dell’onere della prova, ma si tratta di una inversione conseguente e legittima in un sistema che consente l’utilizzazione delle presunzioni a favore dell’amministrazione. Nella specie, il giudice di merito, dopo avere ritenuto legittimo l’accertamento, ha disatteso con una valutazione pertinente ed a lui spettante sia la percentuale utilizzata dalla parte che quella proposta dall’ufficio, e si è attestato sulla percentuale che ha ritenuto meglio rispondente alle caratteristiche presentate dal caso sottoposto al suo esame 125.
Non mancano, però, decisioni in cui si fa riferimento agli studi di settore come collocati al di fuori delle ipotesi previste dall’art. 39, 1 comma, lettera d), del d.P.R. n. 600 del 1973 126, peraltro senza indicazioni sulla diversa collocazione (in generale per le posizioni della dottrina sull’inquadramento sistematico degli accertamenti basati sugli studi di settore, si rinvia al paragrafo 5.d.1.).
Inoltre, nelle decisioni secondo le quali l’accertamento non può automaticamente fondarsi sullo scostamento tra quanto dichiarato ed i dati forniti dagli studi di settore, è ricorrente l’affermazione che essi “si rivelano assolutamente inidonei ad integrare i presupposti di cui all’art. 39, primo comma, lett. d), del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, laddove non confortati da elementi ulteriori”, così spostandosi al momento applicativo, cioè alla fase di “personalizzazione” sul contribuente dei dati rivenienti dagli studi, l’inquadramento nell’ipotesi delineata dalla norma generale di riferimento.
Nel rapporto tra l’art. 62-sexies, comma 3, cit. e l’art. 39, primo comma, lettera d, del d.P.R. n. 600 del 1973 sembra avere rilevanza il principio, recentemente affermato dalle ordinanze n. 12956 del 4/06/2009 e n. 13915 del 15/06/2009, entrambe Pres. Lupi, Est. D’Alessandro, della prevalenza degli studi di settore sulle presunzioni di cui all’art. 39, 1 comma, lett. d), cit., alle quali non si può ricorrere quando il reddito del contribuente sia coerente con gli studi127.
Va precisato che le due decisioni si riferiscono a fattispecie anteriori alla modifica del comma 4-bis dell’art. 10 della l. n. 146 cit., da parte del comma 17 dell’art. 1, L. 27 dicembre 2006, n. 296, che ha introdotto una sbarramento per gli accertamenti nei confronti dei contribuenti che dichiarino, anche per effetto dell’adeguamento, ricavi o compensi pari o superiori al livello della congruità (retro paragr. 5.a.2)128.
Sempre riguardo al rapporto tra l’art. 62-sexies, comma 3, cit. e l’art. 39, primo comma, lettera d, del d.P.R. n. 600 del 1973 si è affermato che :
– il singolo ufficio accertatore, nel compiere un accertamento, anche induttivo, non è tenuto a sua volta a prendere in considerazioni tutti i dati che sarebbero richiesti per uno studio generale di settore, potendo basarsi invece, volta per volta, solo su alcuni elementi sintomatici. L’accertamento, del resto, può basarsi, alternativamente, o sui criteri indicati dagli studi di settore, oppure – come nella specie – sull’esistenza di gravi incongruenze tra i costi ed i ricavi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche dell’attività svolta129;
– sussistendo nella contabilità gravi irregolarità per la presenza di false fatture, l’accertamento ex art. 39, lett. d), del d.P.R. n. 600 del 1973 è perfettamente legittimo, mentre è congruamente motivata la determinazione della percentuale di redditività applicata, conformemente a quella desunta dall’anno successivo, costituendo il riferimento agli studi di settore soltanto un possibile, ma non cogente, parametro di calcolo di tale redditività, fondato sulla estrapolazione statistica di dati, su cui prevale, quale elemento idoneo a fondare la presunzione di reddito, il diverso risultato che può emergere dall’andamento economico della specifica impresa interessata130. Riguardo, infine, all’applicazione degli studi di settore nel tempo, ricorrente è l’affermazione che l’art. 62-sexies del d.l. 30 agosto 1993, n. 331, convertito in legge 29 ottobre 1993, n. 427, avendo palesemente natura procedimentale, è certamente applicabile anche ai periodi d’imposta anteriori alla sua entrata in vigore, analogamente ai coefficienti presuntivi di reddito, introdotti dall’art. 1 della legge 30 dicembre 1991, n. 413131.
Il principio della retroattività degli studi di settore è stato applicato anche nel caso di successione nel tempo di studi di settore, con prevalenza di quello più aggiornato ed evoluto rispetto al precedente, soluzione già anticipata dalle circolari ministeriali 132 e seguita, nella giurisprudenza di merito, da Comm. trib. prov. di Torino, Sez. XX, 19 dicembre 2007 n. 148133, secondo cui ” è illegittimo e deve essere annullato l’avviso di accertamento fondato sull’applicazione di uno studio di settore contenente stime non più attuali, in luogo del quale sia stato introdotto uno nuovo studio maggiormente aderente alla concreta situazione patrimoniale e reddituale del contribuente, anche avuto riguardo alla circostanza che, giusta i nuovi criteri di valutazione, i ricavi dichiarati dal contribuente appaiono in linea con il canone della congruità”.
BEGHIN134, commentando tale decisione, osserva:
La sentenza dà per scontato che, attraverso il procedimento di revisione, venga affinata o potenziata la capacità dimostrativa delle predeterminazioni, ponendo le premesse, però, per la sostanziale disapplicazione degli strumenti più vecchi. In altre parole, i nuovi studi renderebbero obsoleti quelli mento recenti, fino a sostituirli, ad espungerli dal sistema: un fenomeno di darwinismo tributario, centrato su di un procedimento di selezione naturale degli armamentari fiscali.
Nell’abbracciare la linea argomentativa accolta dai giudici di merito, la revisione ed il conseguente ammodernamento degli studi di settore potrebbe generare effetti dirompenti quanto al modo d’essere dell’attività degli uffici finanziari. Nel turbinio generato dall’approvazione dei nuovi studi e dal rimpiazzo di quelli precedentemente utilizzati, le posizioni di “non congruità” i più risalenti potrebbero attenuarsi – e finanche scomparire – a distanza di qualche anno, a seguito, appunto, della suddetta revisione. La pronuncia della Commissione Tributaria Provinciale di Torino desta, perciò, un certo interesse. Essa dimostra, infatti, che, se da una parte lo studio di settore costituisce uno strumento idoneo a cogliere un dato di normalità economica, dall’altra la stessa normalità non assume le sembianze di un monolite: non rappresenta, insomma, un dato fermo e immodificabile. C’è poi l’aspetto cronologico: se per davvero gli studi migliorano e divengono, con la nuova release, più precisi; rimane da stabilire se tale incrementata capacità di rappresentazione valga “qui ed ora” oppure se essa – come lascia intuire la prima sentenza in rassegna – incida anche sulle annualità precedenti rispetto a quella nella quale è entrato in funzione il nuovo studio”.
L’A. precisa che “il concetto di “normalità economica” è “un elemento artificiale esprimente un concetto elastico, dinamico, suscettibile di modificarsi nel tempo e incline ad evolversi fino ad assumere una fisionomia ben diversa da quella che, originariamente, gli era stata impressa dallo studio di settore. Non brilla di luce propria, bensì di luce riflessa, generata, nel nostro caso, dal mercato e dal particolare procedimento che porta alla ricognizione di dati acquisiti dal SOSE sia attraverso questionari, sia attraverso i prospetti inseriti ad hoc nelle dichiarazioni tributarie. Questa peculiare connotazione della “normalità economica” dipende dal fatto che esistono comparti produttivi i quali non obbediscono a ferree leggi economiche, che sono maggiormente esposti alle fluttuazioni o alle contrazioni della Borsa, che possono venire più pesantemente influenzati dalle vicende politiche e così via. Nel momento in cui il legislatore italiano ha deciso di incentrare l’attività di accertamento intorno ad uno strumento di tal natura, ha accettato il rischio di una repentina metamorfosi del settore di riferimento”. Ed è proprio in questa prospettiva che “la legge finanziaria per il 2007 (…) nell’intervenire sul corpo della legge n. 146/1998, con l’innesto del nuovo art. 10-bis, ha fissato in tre anni l’arco temporale (massimo) all’interno del quale procedere alla revisione degli studi di settore. La disposizione precisa, senza lasciare spazio a dubbi, che si tratta di attività di monitoraggio – citiamo testualmente – funzionale a “mantenere, nel medio periodo, la rappresentatività degli stessi rispetto alla realtà economica cui si riferiscono”. Sottolineiamo la parola “rappresentatività”, trattandosi di un dato testuale di estrema importanza sistematica.
In effetti, il mancato aggiornamento degli studi inciderebbe sulla loro capacità di offrire indicazioni su ciò che “normalmente” ci si aspetta da un imprenditore che operi in un determinato settore economico. Ergo, in difetto di revisione, o a fronte di una attività di revisione scadente dal punto di vista qualitativo oppure limitata – come detto – ad aspetti formali, lo studio si trasformerebbe in una cattedrale nel deserto: un high tech system ridotto ad un ruolo ornamentale, obsoleto, incapace di fornire indicazioni circa la dimensione – “normale”, beninteso – di un fatto economico rilevante ai fini dell’applicazione dell’imposta”. D’altra parte, anche lo studio aggiornato non è idoneo a fondare “ex se” l’accertamento in rettifica, essendo necessario “l’adattamento dei dati di normalità economica alla situazione nella quale versa il contribuente”.
L’A. richiama al riguardo le Circolari dell’Agenzia delle Entrate (Circolari n. 23/E del 22 giugno 2006 e 32/E del 21 giugno 2005) erroneamente citate dalla sentenza come confermative della possibilità di utilizzo dello studio evoluto per i periodi di imposta precedenti e con riferimento alle medesime attività esercitate e previste nello studio evoluto, è stata confermata in più circostanze dall’Agenzia delle Entrate. In realtà “l’amministrazione finanziaria non afferma affatto il predominio dello studio evoluto su quello meno evoluto. Essa precisa solamente che, in sede di contraddittorio, gli uffici valutino di volta in volta l’eventuale accoglimento delle istanze del contribuente incentrate sullo studio più recente. Nessun automatismo, dunque, bensì la netta richiesta di procedere “caso per caso” (così, testualmente, la circolare n. 23/2006). E evidente che, nell’aprirsi a questa possibilità, l’amministrazione dà per scontato che il nuovo studio non si limiti affatto a migliorare ed a rendere più incisiva, da quel momento in poi, la rappresentazione della situazione di normalità economica non più suscettibile di rappresentazione sulla base del vecchio strumento, ma assolva, invece, il compito di correggere gli errori contenuti nello studio precedente. Insomma, dovrebbe trattarsi di un’evoluzione dichiaratamente orientata ad operare per il passato. Diversamente, l’applicazione “retroattiva” non avrebbe alcun senso, ed anzi sarebbe fonte d’incertezza nei rapporti tra contribuente e Fisco135. In secondo luogo, dobbiamo sottolineare – con il pericolo, forse, di ripeterci – che l’illegittimità dell’avviso di accertamento non dipende dai risultati desumibili attraverso l’applicazione dello studio evoluto, ne’ essa dipende dal fatto che codesta applicazione sia stata in qualche modo caldeggiata in una circolare dell’amministrazione.
Il riferimento alla circolare, in particolare, non dovrebbe a nostro avviso trovare spazio nel corpo della sentenza, come è invece accaduto nel nostro caso.
Lo schema generale all’interno del quale deve collocarsi l’accertamento fondato sugli studi è infatti quello della esistenza delle “gravi incongruenze” tra ricavi dichiarati e ricavi predeterminati. Queste “gravi incongruenze”, tuttavia, nulla ,hanno a che vedere con la manutenzione degli studi, la quale può produrre effetti soltanto sul fronte della normalità economica, senza però trasformare le predeterminazioni in esame in strumenti funzionali alla automatica rettifica della dichiarazione.
In conclusione, quale che sia lo studio di settore applicato, l’Ufficio deve pur sempre compiere lo sforzo che gli consente di calare il dato di normalità economica nel contesto produttivo del quale si sta occupando.
Il principio di retroattività degli studi di settore, ha poi quale corollario quello della prevalenza degli studi di settore sui parametri (retro, paragr. 4.f, in fine).
5.d. La natura degli studi di settore secondo la dottrina. 5.d.1. L’inquadramento sistematico degli accertamenti basati sugli studi di settore.
Collegata (ed anzi preliminare) alla questione della natura degli accertamenti basati sugli studi di settore è quella del loro inquadramento sistematico.
Già si è fatto riferimento agli arresti giurisprudenziali in relazione al rapporto tra gli accertamenti basati sugli studi di settore e quelli previsti dall’art. 39, 1 comma, lettera d), del d.P.R. n. 600 del 1973 ed in particolare alla collocazione degli stessi in alcune decisioni (peraltro non in modo netto) al di fuori delle ipotesi previste da tale norma (retro, paragr. 5.c.), soluzione, questa, cui sembra aderire FALSITTA 136, il quale, qualificato l’accertamento di cui all’art. 39, 1 comma, lettera d), del d.P.R. n. 600 del 1973 come misto (in quanto sulla base del metodo analitico si innestano elementi di tipo induttivo) afferma che con l’introduzione degli studi di settore lo stesso “viene trasformato in metodo induttivo globale, pur nell’assenza degli specifici e più gravi presupposti che (..) giustificano il ricorso a questo metodo di determinazione del reddito”.
Una sintesi delle posizioni della dottrina è svolta da FANTOZZI 137. Poiché l’art. 62 sexies, d.l. 30 agosto 1993, n. 331, rinvia espressamente all’art. 39, comma 1, lett. d), d.P.R. 600/1973, è da ritenere che si tratti di una predeterminazione legislativa di un caso in cui l’esistenza di attività non dichiarate è desumibile sulla base di presunzioni. È evidente che le “attività non dichiarate” de quibus concernono non già singole operazioni, bens l’eventuale differenza tra l’ammontare totale dei ricavi che gli studi di settore consentono di presumere e l’ammontare dei ricavi risultante dalle scritture contabili (ove il contribuente non abbia provveduto all’adeguamento extra-contabile in dichiarazione). Si tratta, quindi, di uno strumento presuntivo volto a superare le risultanze contabili, ma limitato alla determinazione di una singola categoria di componenti del reddito: i ricavi.
Per tale aspetto gli studi di settore sembrano collocarsi a cavallo delle due modalità d’accertamento presuntivo tipiche del reddito d’impresa: l’accertamento presuntivo-analitico di cui al primo comma e quello presuntivo-sintetico di cui al secondo comma dell’art. 39. Ciò ha condotto parte della dottrina a ritenere che l’art. 62 sexies, d.l. 30 agosto 1993, n. 331, avrebbe dovuto far rinvio non già al primo, bens al secondo comma dell’art. 39, poiché l’applicazione degli studi di settore poggia su un sostanziale giudizio di inattendibilità delle scritture138.
In senso opposto si è osservato che l’accertamento in base agli studi di settore è comunque limitato alla determinazione induttiva di una componente del reddito e non si estende alla determinazione del reddito nel suo complesso, talché è pi appropriata la collocazione di tale accertamento tra quelli di tipo analitico139. Invero, posto che l’accertamento in base agli studi di settore è autonomamente e compiutamente regolato da disposizioni specifiche, che ne individuano i presupposti, i contenuti e le modalità, la questione pare soltanto di rilievo dogmatico. Sotto tale profilo mi pare preferibile la seconda tesi, anche se la prima ha il merito di sottolineare che l’accertamento extra-contabile dell’ammontare complessivo dei ricavi, pur se formalmente limitato ad una componente del reddito, ha un impatto sostanziale simile a quello dell’accertamento induttivo extra-contabile.
5.d.2. I vari orientamenti sulla natura degli studi di settore:
quadro generale.
Per l’esame delle varie tesi espresse dalla dottrina sulla natura e valenza probatoria degli studi di settore può partirsi dalla ricostruzione fatta da VERSIGLIONI140 (lettere a-d che seguono). a) Gli studi di settore quali presunzioni semplici non in grado di invertire l’onere della prova.
I vari contributi dottrinali aventi ad oggetto gli studi di settore appaiono in parte orientati alla tesi secondo cui questi costituirebbero presunzioni semplici 141; come tali, essi, ai fini della prova della situazione fiscale del contribuente, dovrebbero essere necessariamente armonizzati con altri elementi di prova che l’Amministrazione finanziaria sarebbe tenuta ad allegare. D’altra parte, non invertendosi l’onere della prova, il contribuente potrebbe sempre contestare l’applicazione acritica dello studio da parte dell’ufficio e, poiché il giudice potrebbe sempre disporre, in base all’art. 7, comma 1, D.lgs. 546/92, l’integrazione della prova con uno spazio ben maggiore rispetto a quello che avrebbe se vi fosse una presunzione legale142, si fa osservare che l’ufficio, per assolvere l’obbligo di motivazione dovrebbe, di volta in volta, argomentare la plausibilità dello studio nel caso concreto, non potendosi limitare al semplice rinvio ai dati delle elaborazioni ministeriali.
I più frequenti argomenti posti a base di questo orientamento teorico si rifanno a tracce di tipo normativo. Si fa leva, ad esempio, sull’art. 62-sexies del d.l. 331/93, deducendo che tale disposizione colloca gli studi a fondamento dell’accertamento ex art. 39, comma 1, lett. d) del d.P.R. 600/73 che, come è noto, prevede presunzioni semplici. Ciò troverebbe conferma in continui referenti generici – quali le condizioni e le caratteristiche di esercizio dell’attività, la normalità del periodo di imposta – invero incompatibili con praesumptiones legis. Nello stesso senso deporrebbero sia la parzialità dei dati utilizzati per “fotografare” le attività economiche, sia la peculiarità della loro fonte. In effetti, da un lato, essi costituirebbero solo una parte di quelli utilizzabili, e dall’altro essi, in quanto costituiti da mere “risposte” dei contribuenti, non potrebbero, secondo l’insegnamento della Corte Costituzionale, essere posti a base di una presunzione legale 143. Da ultimo, ma non per ultimo, l’assunto sarebbe dimostrato dal fatto che la norma pone a presupposto di utilizzo degli studi le “gravi incongruenze”; ciò implicherebbe che non sia sufficiente una differenza qualsiasi tra dati dichiarati e dati dello studio perché questa possa essere automaticamente accertata; ciò che, invece, si verificherebbe se si trattasse di una prova legale144.
b) Gli studi di settore quali presunzioni semplici dotate ex lege dei requisiti di gravità, precisione e concordanza o quali presunzioni legali.
Secondo altra differente impostazione, in cui sembrano confluire vari indirizzi, diversificati solo in parte l’uno dall’altro, l’assunta fonte normativa degli studi indurrebbe a ritenere che essi non possano essere considerati presunzioni semplici e che, invece, siano vincolanti per il giudice.
Tutte le realtà fattuali per le quali si applica lo studio troverebbero posto nel ragionamento inferenziale che quindi, per tale motivo, dovrebbe considerarsi normativo. Proprio per questo la legge, al fine di evitare le distorsioni cui, in certi casi, potrebbe condurre l’effetto presuntivo tipizzato, indica espressamente le cause di esclusione 145; infatti l’avvenuta individuazione di ipotesi di non operatività della presunzione146 ne dimostrerebbe la loro natura legale, dato che, se invece la presunzione fosse semplice, non vi sarebbe stata la necessità di prevedere casi di esclusione. Il ragionamento inferenziale, essendo basato su un metodo così rigoroso, sofisticato e normativamente previsto, non potrebbe non esercitare una qualche forma di coercizione sul giudizio; in mancanza di prova contraria, si concretizzerebbe quella relevatio ab onere probandi, tipica delle presunzioni legali relative147. D’altro canto, quest’effetto vincolante degli studi non indurrebbe dubbi di tipo costituzionale, poiché il loro campo di applicazione atterrebbe unicamente al piano della prova di una categoria di componenti (ricavi o compensi) e non a quello della determinazione del risultato complessivo (reddito/perdita); pertanto, gli studi non potrebbero essere assimilati al catasto, poiché essi, a differenza di questo, non avrebbero come oggetto di inferenza il reddito.
c) Gli studi di settore quali presunzioni miste o frutto di atti vincolanti.
Colta l’impossibilità di indirizzarsi univocamente verso l’una o l’altra delle due impostazioni sin qui sintetizzate, alcuni Autori hanno sostenuto una tesi che può considerarsi intermedia 148. Secondo tale orientamento, nel caso degli studi di settore, una parte del ragionamento presuntivo (date certe caratteristiche dell’azienda, che devono essere provate) sarebbe prestabilito normativamente e costituirebbe soltanto una base di partenza per ulteriori elaborazioni effettuate dall’ufficio 149. La tesi in discorso sposa l’impostazione teorica di coloro che, in sede civilistica, teorizzano le c.d. “presunzioni giurisprudenziali”150. Queste prescinderebbero dall’accertamento del fatto ignoto; non conterrebbero, perciò, l’inferenza del fatto ignoto dal fatto noto e sarebbero in grado di sollevare il giudice dalla conoscenza della veridicità del fatto 151. In tal modo, gli studi di settore potrebbero considerarsi “massime di comune esperienza (tecnica)” 152. Tale conclusione sarebbe dimostrata dalla circostanza che gli studi individuano un intervallo di confidenza (una fascia di valori) e non un fatto puntuale; e che invece, solo in tal caso, potrebbe configurarsi una presunzione legale153. Pertanto, l’inversione dell’onere della prova sarebbe limitata soltanto alla massima (al nesso logico), ed in ogni caso non potrebbe riguardare quelle componenti dell’inferenza legale che presentano una particolare debolezza in termini probabilistici, come il correttivo territoriale 154.
Vi è poi un’altra autorevole parte della dottrina155 che considera i decreti contenenti gli studi di settore atti provvedimentali (e non regolamentari), vincolanti per i contribuenti (in quanto adottati dall’esecutivo in virtù della delega contenuta nell’art. 62-bis del d.l. 331/93). In conseguenza di ciò, potrebbe propriamente parlarsi di prova contraria soltanto a proposito della prova dei presupposti di non applicazione della ricostruzione induttiva standardizzata156. Ma, in definitiva, si tratterebbe pur sempre di criteri presuntivi per i quali il percorso inferenziale è normativamente predeterminato, con intuibili conseguenze sulla spettanza dell’onus probandi in sede processuale.
d) Gli studi di settore quali predeterminazioni normative (equiparate negli effetti alle presunzioni legali). Da ultimo, ma non certo per ultimo, è doveroso pure dar conto di quella profonda impostazione dottrinale secondo cui gli studi di settore non rientrerebbero nel novero dei mezzi (presuntivi) di prova, sibbene in quello, ben distinto, delle c.d. predeterminazioni normative 157.
Si tratterebbe, in sostanza, di criteri di quantificazione dei ricavi e compensi normativamente “cristallizzati” al fine di agevolare (rectius: indirizzare) l’amministrazione finanziaria nell’attività di ricostruzione dei fatti rilevanti in sede di accertamento; onde, la funzione formalmente procedimentale degli studi finirebbe in realtà col penetrare nel tessuto sostanziale, contribuendo a delimitare il presupposto dell’imposta 158. Secondo la teoria in discorso, gli studi condividerebbero la loro struttura essenziale, in particolare la matrice lato sensu normativa, con le presunzioni legali relative, ma se ne differenzierebbero, poiché in essi il percorso che conduce dal fatto noto a quello ignorato non sarebbe di tipo logico-argomentativo 159. In effetti, tale percorso risulterebbe asetticamente ed acriticamente trasfuso nel contenuto precettivo della norma, prescindendo esso dall’osservazione e dalla rappresentazione della realtà, in quanto funzionale (unicamente) al conseguimento delle finalità perseguite dal legislatore160. Sicché, in sede di accertamento, l’amministrazione finanziaria sarebbe chiamata ad applicare la predeterminazione normativa contenuta negli studi, “sostituendo” alla ricognizione della realtà rappresentata dai ricavi e compensi effettivi, la quantificazione forfetaria operata direttamente sul piano normativo. Nondimeno, sul terreno processuale, e questo appare il punto più rilevante della tesi, gli studi determinerebbero inevitabilmente, al pari delle presunzioni legali relative e delle presunzioni c.d. giurisprudenziali, l’inversione dell’onere della prova161. e) Gli studi di settore come fatti di mera conoscenza. VERSIGLIONI non aderisce ad alcuna di tali teorie e risolve la questione della qualificazione giuridica degli studi di settore, negando l’appartenenza degli stessi al concetto giuridico di prova, in quanto gli studi di settore rappresenterebbero non già fatti di accertamento, bensì fatti di mera conoscenza.
L’A. giunge a questa conclusione partendo dalla natura meramente descrittiva (e non inferenziale) delle tecniche statistiche utilizzate nella metodica di elaborazione degli studi di settore. La breve analisi delle pur dettagliate note metodologiche che accompagnano tali elaborazioni dimostrano che queste non costituiscono altro che una rigorosa e scientifica formazione di medie di dati storici, contabili e strutturali, dichiarati dai contribuenti e, per questo, assunti come verità minimale. Anche a voler prescindere dalla circostanza ( .. ) che sono il frutto di tecniche invero contaminate da parecchie scorie di soggettività, in ogni caso gli studi costituiscono medie: purissime (in teoria), ma pur sempre medie. Essi, insomma, non presentano alcuna delle due strutture tipologiche della prova: ne’ quella scientifica, che postula inferenze statistiche basate su frequenze o propensità, ne’ quella etica, che necessita di congetture giustificate da un’idonea premessa maggiore. Non sono cioè un passaggio dal noto all’ignorato, ma una mera (ri)sistemazione ordinata del noto, attuata con criteri convenzionali.
Inoltre, la previsione di una revisione degli studi di settore che tenga conto di ulteriori indicatori idonei ad agganciarli alla realtà economica ed a comportamenti normali, conferma che il legislatore “mostrando di condividere le segnalazioni giurisprudenziali, ha previsto che l’amministrazione finanziaria possa (debba) servirsi di ulteriori indicatori che vanno ad integrare o corredare le procedure informatizzate (..) nel palese intento di dotarle di un collegamento logico con le situazioni reali”.
L’A. evidenzia poi che sembra arduo qualunque tentativo di qualificare gli studi di settore come presunzioni semplici. Essi non possiedono ne’ idoneità persuasiva, ne’ capacità dimostrativa del fatto ignorato, se questo, come coerentemente dovrebbe essere, resta costituito dalle attività esistenti e non dichiarate dal singolo professionista o dal singolo imprenditore. Infatti, tali elaborazioni descrivono soltanto, senza poterle attribuire ai soggetti, le differenze matematiche tra entità asseritamene note e la loro media: cioè tra l’ammontare dei ricavi dichiarati da ognuno e l’ammontare dei ricavi mediamente dichiarato da tutti; ma esse non presentano alcun aggancio logico (deduttivo, induttivo, abduttivo), o etico, o scientifico tra questi fatti ed il fatto ignorato (i ricavi effettivi realizzati dal singolo). Più specificamente, gli studi non seguono il tipico ragionamento della presunzione semplice , dato che non spiegano le loro conseguenze mediante un passaggio del pensiero supportato da una massima di comune esperienza, da una legge naturale o da un principio universale comunemente accettato. E poiché solo un nesso del genere, se ed in quanto associato al fatto noto, può dimostrare il fatto ignorato, essi nella misura in cui ne sono carenti, non sono idonei ad integrare una presunzione semplice in quanto tendono ad ottenere un risultato in base ad una semplice operazione matematica e non già a scoprire un fatto inizialmente ignorato tramite un processo razionale o spirituale.
In altri termini, “gli studi di settore non potrebbero essere qualificati neppure quali presunzioni semplici, in quanto difetterebbero di un ragionamento inferenziale, non costituirebbero cioè un discorso argomentativo probante, con la conseguenza che può definirsi accertamento in base a studi di settore quel discorso (lungo) nel quale medie tecniche sono utilizzate in una ben più ampia argomentazione presuntiva che, per costituire prova – e quindi obbligare il contribuente alla prova contraria – abbisogna di altri elementi di convincimento idonei a dimostrare sia la fondatezza della deduzione (affidabilità della funzione ricavo e sua applicabilità al caso concreto), sia l`incongruenza (rispetto alla situazione di normale congruenza), sia, infine, la gravità di quest’ultima162.”.
Analogamente, secondo VERSIGLIONI, “non sembrano convincenti le impostazioni che attribuiscono ad essi gli effetti tipici di una prova legale, sia quando li inquadrano tra le presunzioni relative – proprie o improprie -, sia quando li collocano tra le
predeterminazioni normative. In effetti, queste ricostruzioni sembrano suscitare perplessità di natura logica e normativa, sia di rango ordinario sia, soprattutto, di fonte costituzionale”. Sotto il primo profilo
non appare accettabile interpretare le leggi vigenti come se contenessero il tipico referente della presunzione legale (es.: i ricavi si presumono realizzati, salvo prova contraria, in misura pari a quella risultante dagli studi di settore). Anzi, proprio l’assenza nelle disposizioni in parola di tale referente (invero assai diffuso in ambito fiscale), il quale è frutto di una consolidata tecnica legislativa e di un’altrettanto inveterata prassi interpretativa, sembra dimostrare che la voluntas legis, nel caso degli studi, sia proprio quella di escludere gli effetti della presunzione legale .
Resta [poi] da comprendere in quali termini anche i principi costituzionali depongano a sfavore di quelle tesi che sussumono gli studi di settore nelle presunzioni legali relative, o comunque, in quella categoria di strumenti (di non chiara natura) ad esse equiparati negli effetti. Va premesso che, da oltre quarant’anni, la Corte Costituzionale consente sistematicamente al legislatore tributario di introdurre presunzioni legali relative. Ciò in vista dell’appaga mento di esigenze di semplificazione e nell’ottica di perseguire l’interesse erariale, inteso come precipuo ed essenziale per la vita della comunità. Anzi, la Corte ritiene che in tal modo possa essere ottenuta, nella sostanza, la stessa certezza altrimenti ottenibile con la prova libera.
Ma questa facoltà, compresa nella più ampia discrezionalità legislativa di prediligere il valore della certezza quando l’accertamento riguardi fatti sfuggenti o difficilmente accertabili, è stata da sempre condizionata all’esistenza di una massima di comune esperienza, o comunque, all’id quod plerumque accidit, quali presupposti legittimanti l’introduzione del meccanismo presuntivo legale. (..) Pertanto, proprio ciò che ha permesso sin qui di escludere che possa parlarsi di presunzione semplice e finanche di prova presuntiva in genere, vale a dire la mancanza nel processo determinativo degli studi di settore di una massima di esperienza, di una legge di natura o di un principio comunemente accettato, permette anche di ritenere che, secondo l’insegnamento della Corte, in essi non posa vedersi una presunzione iuris tantum. (…) una prospettiva del genere, qualora fosse ipotizzata, renderebbe la normativa sugli studi incoerente con l’art. 24 (e 111) Cost. e porrebbe i presupposti per una verifica ex art. 53 da condurre con riferimento al fatto secondario.
In definitiva, gli studi di settore, non potendo essere qualificati come presunzioni semplici o legali, non integrano il concetto di prova, “nè secondo il tipo scientifico, ne’ secondo quello etico, conducendo, invece, ad una conoscenza deliberativa (e non probatoria) volta cioè ad indirizzare la discrezionalità della scelta cui sono necessariamente tenuti gli operatori del diritto. [Essi] non costituiscono fatti di accertamento, correttamente intesi, rispetto al settore fiscale, quali risultati di un processo, spirituale o razionale, idoneo ad obliterare – preclusivamente – una data situazione di incertezza – obiettiva o soggettiva. A supporto di questa conclusione possono essere addotti vari argomenti generali offerti dal diritto positivo – sia in via puntuale sia in via concettuale -, i quali appaiono fonti o sintomi di principi. In merito alle prime (fonti), va sinteticamente evidenziato che gli studi non rilevano ai fini dell’obbligo della denuncia all’autorità giudiziaria (ai sensi dell’art. 10 dell’ art. 10 della l. n. 146 del 1998) e che, d’altro canto, gli stessi costituiscono una deroga espressa alla non integrabilità dell’accertamento definito con adesione (art. 70 della l. n. 342 del 2000). In entrambi i casi, si tratta di norme le quali, investendo ab imis la questione della loro efficacia, dimostrano inesorabilmente che tali elaborazioni non hanno, in quanto non possono averla per loro intima natura, una funzione di accertamento.
Con riguardo ai secondi (sintomi) ….. può dirsi che il diritto positivo qualifica gli studi come indici (medi) presuntivamente esatti, cioè tecnicamente corretti. Come tali essi, almeno nella loro autonoma essenza, non costituiscono un discorso argomentativo probante, cioè animato da uno spirito o da una ragione di verità (degli enunciati fattuali). Si tratta, invece, di fatti di mera conoscenza, cioè di supporti logici e razionali per i quali il giudizio, vero o falso, può riguardare solo l’affermazione che essi fanno di un fatto convenzionale. In altre parole, gli studi costituiscono espressioni di logica meramente estimativa ed enunciano un valore medio calcolato su un insieme di valori collocati all’interno di una classe resa, tecnicamente, quanto più possibile omogenea. Quindi, tali elaborati, in sè considerati, non accertano alcun fatto reale inizialmente ignorato. D’altro canto, anche nella loro esattezza, essi pervengono, in ogni caso, ad una conoscenza parziale ed astratta dei fatti da provare (altrimenti), tale essendo la potenziale sommatoria annuale di questi. A sostegno di queste affermazioni VERSIGLIONI richiama Sez. V, sent. n. 9135 del 03/05/2005, cit. (v. retro paragrafo 5.c., in nota) con cui la Corte “ha espressamente affermato, anche se in via del tutto incidentale, che gli studi di settore sono paragonabili ai bollettini di quotazioni di mercato o ai notiziari Istat, nei quali è possibile reperire dati medi presuntivamente esatti”. Questa affermazione, assunta con metodo comparativo (per associare agli strumenti predetti i regolamenti pubblicati dai comuni per la valutazione del valore venale delle aree edificabili determinata per aree omogenee) …… in quanto riferisce la presunzione di veridicità soltanto alla misurazione -obiettiva ed astratta – di valori medi, sembra avvicinarsi più di ogni altra alla natura giuridica degli studi di settore che si è desunta dall’analisi discreta delle fasi in cui l’elaborazione è realizzata. Si tratterebbe, cioè, ad avviso della Suprema Corte, di meri criteri di stima e, quindi, concettualmente, di strumenti coerenti con gli argomenti negatori della loro natura presuntiva, semplice o legale, sin qui proposti. D’altro canto, la pronuncia citata si inserisce naturalmente nell’alveo dogmatico che separa, in teoria generale, i fatti di accertamento dai fatti di conoscenza, tanto che, in esito all’ipotesi proposta, non dovrebbe risultare incongruente l’accostamento degli studi di settore alla perizia (o alle planimetrie catastali).
L’A., peraltro, si fa carico delle ragioni per cui gli studi di settore sono stati inseriti “nella dinamica applicativa degli accertamenti tipicamente presuntivi, quale risulta plasmata dal legislatore tramite la disposta connessione con la disciplina dell’art. 39, comma 1, lett. d) del d.P.R. 600/73”, giungendo alla conclusione della funzione concorrente degli studi di settore rispetto alla formazione di una presunzione semplice. Nell’ambito [dall’art. 62-sexies del d.l. n. 331 del 1993] appare necessario focalizzare l’attenzione sulle seguenti locuzioni:
“esistenza di gravi incongruenze ( … )” e “ricavi fondatamente desumibili dagli studi di settore”. Queste formule segnalano la differenza esistente tra gli studi di settore, (dai quali è possibile desumere, mediante elaborazioni, l’entità media dei ricavi dichiarati dai contribuenti che afferiscono ad una stessa classe) e gli accertamenti fondati sugli studi di settore: i primi sono disciplinati come parte dei secondi o, meglio, come elementi concorrenti in via necessaria, ma non esaustiva, alla formazione di questi. Gli studi, insomma, possono ritenersi un discorso breve idoneo a far parte di un discorso lungo e quest’ultimo (rectius:
solo quest’ultimo), poiché in altro modo dotato di qualità argomentativi idonea a conseguire il convincimento, può costituire prova e fondare l’accertamento.
L’elemento logico presuntivo che il legislatore attribuisce all’accertamento basato (anche) sugli studi di settore sta, infatti, nei due citati passi della disciplina e non già nel riferimento agli studi in quanto tali. Nel contesto delineato dall’art. 62-sexies, la prova consegue al convincimento conseguito dal destinatario, contribuente o giudice, sia rispetto alla fondatezza della deduzione che trae i ricavi (specifici) dalle elaborazioni (generali), sia rispetto all’ esistenza di una grave incongruenza tra i ricavi dichiarati e quelli desumibili dagli studi medesimi. Trattasi, quindi, di oggetti che, alla luce dell’impostazione teorica elaborata in precedenza, afferiscono alla categoria dei fatti eticamente determinabili ed implicano il tipo (di prova) etico, escludendo assolutamente quello scientifico. Pertanto, osservando la normativa ed al contempo la distinzione concettuale tra credenza e scienza, appare evidente che l’ufficio debba convincere il suo interlocutore intorno a due temi.
È cioè necessario che sia condivisa tanto la credibilità della conoscenza del caso concreto desumibile dall’applicazione degli studi, presuntivamente esatti in quanto frutto di scienza (oggettivamente intesa), quanto la non credibilità della conoscenza ottenuta dalla dichiarazione presentata dal contribuente interessato, presuntivamente esatta quale manifestazione di scienza (soggettiva) assistita dalla regola di riparto dell’onere probatorio. Se gli studi di settore fossero presunzioni, tutti i discorsi umani o legali necessari alla loro applicazione, sia riguardo alla fondatezza, sia riguardo all’incongruenza, sarebbero già stati assorbiti (nella norma) dall’automatismo inferente. La scienza (fattispecie astratta) si sarebbe imposta sulla giustizia (corrispondenza della fattispecie concreta alla fattispecie astratta), poiché avrebbe volutamente eluso l’accertamento della realtà.
Aggiunge VERSIGLIONI che ” Nella stessa direzione, ma con maggior vigore, induce a pensare il referente della grave incongruenza”. Trattasi di un concetto intervallare, evidentemente incompatibile con la natura della presunzione legale, ove invece il fatto noto (da dimostrare) è (dovrebbe essere) necessariamente puntuale. Tale e ben diversa ipotesi si sarebbe appunto verificata qualora il legislatore avesse configurato come fatto noto (da dimostrare) la mera differenza matematica tra due dati: i ricavi medi indicati dallo studio di settore e quelli dichiarati. In tal caso, infatti, non si sarebbe potuto far altro che osservare acriticamente un dato oggettivato: vale a dire, il risultato di un semplicissimo discorso matematico. Tale dato è, però, ben differente da quello scaturente da una valutazione, responsabile e scrupolosa, della situazione complessiva del contribuente nel caso concreto.
D’altro canto, questo permette anche di escludere che lo studio rappresenti, in sè considerato, una presunzione semplice: invero la legge, lungi dal preconfezionare un risultato presuntivo dotato di gravità, precisione e concordanza, impone bensì un giudizio di congruità, cioè un discorso congetturale, quindi tipicamente presuntivo, da eseguirsi in un momento logico appena successivo a quello del vaglio circa la fondatezza del dato desumibile dallo studio. Tuttavia, ciò, implica che la natura di questo dato, già di per sè frutto di varie iterazioni approssimative, non possa essere anch’essa inferenziale. Altrimenti, si dovrebbe ritenere ammissibile un concatenamento indefinito di presunzioni. Tuttavia ciò, anche nella moderna prospettiva, ove si assiste al progressivo tramonto del divieto dogmatico della doppia presunzione, non sembra consentito dalla struttura della praesumptio hominis. In effetti, così tacendo, il grado di probabilità (soggettiva) dell’inferenza scemerebbe al punto da non poter più ottenere quel livello di persuasività (attendibilità) idoneo a conseguire il convincimento quale presupposto dell’effetto probatorio.
La conclusione è che “nella previsione della grave incongruenza e del fondatamente desumibili non può che scorgersi il più inequivocabile segno di conferma normativa delle ipotesi sin qui elaborate. In effetti, ai referenti in argomento sembra attagliarsi in modo particolarmente stringente la nozione di fatti eticamente determinabili, che si è inteso, più che contrapporre, accostare a quella di fatti scientificamente determinabili, con il consequenziale (rectius: necessitato) rinvio, quanto alla prova di tali fatti, al tipo etico. Del resto………. gli enunciati circa la “grave incongruenza” e il “fondatamente desumibili”, pur implicando un giudizio di valore (o comunque, la determinazione di un concetto giuridico indeterminato), appaiono logicamente inerenti alla questione di fatto quali parti integranti del thema probandum, poiché inscindibili da esso”.
5.d.3. Il concetto di gravi incongruenze.
Le ultime affermazioni di VERSIGLIONI introducono all’esame dei vari orientamenti sulla portata del concetto di “grave incongruenza”, scarsamente affrontato dalla dottrina, che spesso si limita ad evidenziare la necessità di adeguata motivazione anche sulle suddette gravi incongruenze, senza peraltro precisare quando esse ricorrano163.
MARCHESELLI 164 affronta, invece, la questione definitoria del concetto di gravi incongruenze, osservando:
Nell’art. 62-sexies compaiono un aggettivo e un avverbio: “gravi”, riferito alle incongruenze e “fondatamente” riferito al procedimento di ricostruzione dell’imponibile.
Un primo significato della disposizione è ovvio, già solo adoperando il buon senso. E necessario che l’accertamento sia plausibile: lo studio di settore non costituisce una deroga al principio della tassazione dei redditi effettivi e, pertanto, deve essere ragionevole affermare che il contribuente abbia effettivamente conseguito l’ammontare che risulta dagli studi. A ben vedere, però, a stabilire la necessità di questa condizione è sufficiente l’avverbio fondatamente. Resta sul tappeto la questione del significato da attribuire al fatto che le incongruenze devono essere gravi. La giurisprudenza di merito ha talora ritenuto che tale aggettivo indichi la necessità del superamento di una soglia minima, talvolta espressamente fissata165. Non vi è dubbio che questa soluzione sia linguisticamente corretta. Nel linguaggio giuridico l’aggettivo “grave”, contrapposto a “lieve”, segnala un requisito quantitativo: il fatto che una grandezza non sia di piccola entità. Come tutti i concetti relativi, è però del tutto illusorio pensare di fissare una volta per tutte la soglia superata la quale si arrivi alla gravità. Nei valori esiste una serie continua e non discreta e la gravità, comunque, è qualità che dipende dal contesto complessivo166.
Ma quale è la ragione per cui l’incongruenza deve essere grave? Se non ci si inganna, solo due possono essere i motivi. O perché il legislatore vuole evitare l’emissione di accertamenti per rettifiche di ammontare risibile, e quindi antieconomici. Oppure perché assume l’approssimazione insita negli studi e ritiene che solo in caso di forte discrepanza essi diano risultati accettabilmente convincenti. Tuttavia, la prima alternativa o esprime una cosa ovvia e di poco rilievo pratico (nessun accertamento se l’importo da accertare è di pochi spiccioli) oppure esprimerebbe l’attribuzione agli uffici di un potere dispositivo della pretesa che, da un lato non trova molte corrispondenze nell’ordinamento tributario (forse nell’esercizio dei poteri di autotutela) e, dall’altro, non è neanche certo che corrisponderebbe a un interesse del contribuente (evitare accertamenti che rendono meno del loro costo è finalità certamente apprezzabile, ma è da domandarsi se sarebbe motivo di annullamento del medesimo, visto che si tratta di accertamento che non lede le ragioni dirette del contribuente).
Resta la seconda possibilità. Se, tuttavia, il motivo è il carattere approssimativo della determinazione effettuata con gli studi, l’aggettivo gravi non fa altro che ricadere nell’area di significato di quel fondatamente: l’accertamento deve essere plausibile. Torniamo al punto di partenza, insomma e tale aggettivo non esprime alcun concetto autonomo e innovativo.
FANTOZZI 167, così cerca di individuare criteri oggettivi per l’individuazione delle gravi incongruenze.
Sotto altro profilo è da osservare che, poiché il citato art. 62 sexies parla di “gravi incongruenze tra i ricavi .. dichiarati e quelli fondatamente desumibili dagli studi di settore”, non è chiaro se il semplice scostamento dei ricavi dichiarati rispetto a quelli risultanti dagli studi di settore costituisca presupposto sufficiente per l’accertamento ovvero sia necessario un quid pluris. L’amministrazione finanziaria ha ritenuto che l’esplicita previsione delle condizioni di applicazione da parte dell’art. 10, 1. 146/1998, costituisce una disciplina volta a fornire garanzie in presenza delle quali si può ritenere che sussistano le “gravi” incongruenze anche in caso di piccoli scostamenti; pertanto l’importo determinato in base agli studi di settore ha il valore di presunzione relativa e può essere senz’altro posto a base di eventuali avvisi di accertamento, senza che gli uffici siano tenuti a fornire altre dimostrazioni in ordine alla motivazione della loro pretesa. In senso contrario si è sostenuto che il presupposto della “gravità delle incongruenze” richiede un apprezzamento qualitativo delle ragioni delle scostamento, volto a discriminare le discrepanze imputabili a infedeltà da quelle imputabili alle insufficienze dello strumento presuntivo168.
Tuttavia, considerato che l’importo risultante dagli studi di settore costituisce il risultato dell’applicazione di formule matematiche determinate su basi statistiche, cioè è il risultato di uno strumento complesso non valutabile, è difficile immaginare in base a quali concreti elementi si potrebbe effettuare un tale apprezzamento qualitativo.
Pi agevole è immaginare un apprezzamento quantitativo della gravità dell’incongruenza.
Tuttavia, considerato che gli studi di settore determinano sia una stima puntuale che un intervallo di confidenza, ogni valutazione quantitativa degli scostamenti dovrebbe ritenersi assorbita nello stesso meccanismo operativo dello strumento presuntivo. In tale prospettiva mi parrebbe pi ragionevole la tesi per cui gli scostamenti dovrebbero reputarsi non gravi quando i ricavi si mantengono all’interno dell’intervallo di confidenza169. Tuttavia, (…..) le direttive e istruzioni dell’amministrazione finanziaria fanno derivare dall’intervallo di confidenza soltanto una sorta di obbligo rafforzato di contraddittorio preventivo, non escludendo affatto l’accertamento presuntivo sulla base del mero scostamento interno all’intervallo di confidenza. Inoltre, ad avviso di PARENTE170, essendo ” presupposto immancabile per procedere ad un accertamento induttivo fondato sugli studi di settore (…) la sussistenza di una grave incongruenza tra i ricavi dichiarati e quelli risultanti dall’applicazione degli studi” (…) la stessa ” deve sussistere ancor prima di procedere
all’accertamento”. La valutazione della ricorrenza delle condizioni legittimanti l’accertamento (nel caso di specie, la “grave incongruenza”) va eseguita, dunque, prima di procedere allo stesso, non potendosene affermare la legittimità con una valutazione ex post”.
In generale, comunque, a parte VERSIGLIONI, la dottrina non ha affrontato la questione se l’individuazione del concetto di gravi incongruenze sia determinante ai fini di stabilire la natura degli studi di settore.
Parimenti, la dottrina non si è occupata della questione se il presupposto delle gravi incongruenze, in quanto previsto per gli studi di settore, cioè lo strumento più aggiornato ed evoluto e, come tale, prevalente sui metodi precedenti (coefficienti e parametri) valga anche per questi ultimi. Sulla questione si rinvia alle conclusioni della relazione.
5.d.4. La tesi degli studi di settore come presunzioni legali relative: approfondimento. La teoria della natura sostanziale degli accertamenti basati sugli studi di settore.
Alla tesi per cui gli studi di settore costituiscono presunzioni legali relative hanno anche aderito:
LA ROSA171, il quale osserva che da una parte è stabilito che gli uffici debbano utilizzare i coefficienti presuntivi tenendo conto anche di altri elementi relativi al singolo contribuente già in possesso; dall’altra “sembra consentirsi al contribuente di contestare la significatività dei coefficienti solo in relazione alle specifiche condizioni di esercizio della sua attività (e quindi solo in quanto si distacchi dalla normalità);
DE MITA172, il quale afferma che gli studi di settore hanno l’effetto di invertire l’onere della prova, giacché è il contribuente che deve farsi carico di dimostrare la non applicabilità degli studi in relazione alle specifiche condizioni di esercizio della propria attività.;
Particolarmente significativa è la tesi di FANTOZZI173, il quale parla di presunzioni relative “sui generis”, sulla base delle seguenti considerazioni.
Il fatto noto è costituito dalle caratteristiche strutturali dell’attività d’impresa rilevanti ai fini dell’applicazione degli studi di settore (ad esempio: superficie produttiva, numero di addetti, consumo energetico ecc.), mentre il fatto ignoto è costituito dall’ammontare dei ricavi conseguiti nel periodo d’imposta. Da tale struttura emergono due caratteristiche peculiari:
l) la regola d’esperienza che collega il fatto noto al fatto ignoto è l’idea che, se le attività analoghe hanno mediamente un certo ammontare di ricavi, anche l’attività verificata ha quell’ammontare di ricavi;
2) l’applicazione di tale regola d’esperienza, cioè la selezione delle caratteristiche strutturali in base alle quali qualificare le attività come analoghe, il calcolo dei ricavi medi e quant’altro, non è rimessa all’ufficio (prima) e al giudice (poi), ma è automatizzata, cioè è assorbita in una funzione
statistico-matematica stabilita da appositi decreti ministeriali. Le peculiarità del meccanismo presuntivo in discorso rendono ben difficile parlare di adeguamento al caso concreto e circoscrivono le possibilità di prova contraria ai soli fatti che rendono inapplicabile la presunzione.
Infatti, atteso che nell’impianto legislativo lo studio di settore supera le risultanze contabili ed esclusa la probatio diabolica (la prova di non aver conseguito maggiori ricavi), il contraddittorio potrebbe investire la persuasività della funzione statistica individuata dal decreto ministeriale sotto il duplice profilo:
– della correlazione statistica individuata dal decreto ministeriale. Tuttavia, sembra inverosimile che il contribuente possa contestare la metodologia statistica di costruzione della correlazione, non solo in quanto non disporrebbe dei dati necessari, ma anche in quanto ciò sarebbe in netto contrasto con la previsione legislativa che affida le determinazioni statistiche alla normativa attuativi;
– della selezione delle caratteristiche rilevanti per l’analogia tra attività. Invero, sebbene in linea di principio gli studi di settore configurino un sistema esaustivo, prevedendo anche le cause di esclusione, nella pratica la “prova contraria” sembra configurarsi sempre nel modo seguente: allegazione di specifiche circostanze “negative” relative all’attività d’impresa soggetta a controllo, non considerate dallo studio di settore tra le caratteristiche rilevanti o tra le cause di esclusione, ma tali da far pensare che non sia ragionevole l’analogia tra l’attività soggetta a rettifica e quella “normale” considerata dallo studio di settore.
In conclusione, quindi, può dirsi che in concreto la “prova contraria” non può attenere all’effettivo ammontare dei ricavi, bens alla circostanza che lo studio di settore non è ragionevole in un determinato caso, poiché non tiene conto di una o più circostanze specifiche che escludono l’attività d’impresa dalla “normalità” in esso considerata. In altri termini la “prova contraria” non è volta a dimostrare l’insussistenza del fatto ignoto (l’ammontare dei ricavi), bens a confutare la ricorrenza del fatto noto (l’analogia tra l’attività considerata e quella “normale”). Sotto il profilo concettuale ne deriva che la presunzione in discorso (cioè l’attività “normale” ha ricavi pari a quelli medi delle attività analoghe) è di fatto insuscettibile di prova contraria, potendosi confutare soltanto il presupposto della presunzione (la normalità” dell’attività soggetta a controllo).
D’altra parte, è chiaro che, cos come il contraddittorio probatorio può riguardare le circostanze che rendono inapplicabile la presunzione e non già l’ammontare effettivo dei ricavi, non pare possa aver un senso diverso il preteso adeguamento delle risultanze degli studi di settore alle caratteristiche del caso concreto. L’ufficio potrà valutare se le particolari circostanze del caso concreto rendono inapplicabile la presunzione, ma non si vede in quale modo potrebbe adeguarne il risultato numerico; posto che i ricavi stimati dallo studio di settore costituiscono il risultato di funzioni matematiche ricavate dall’esame statistico di una massa di dati, l’ufficio, non potendo rielaborare lo studio di settore, potrebbe adeguarne i risultati soltanto “ad occhio”, ciò che parrebbe illogico, oltre che del tutto estraneo al sistema normativò’.
Posto ciò, v’è da chiedersi se tale irrefutabilità parziale della presunzione sia compatibile con le garanzie costituzionali, come adombrato dalla Corte di cassazione e da alcuni autori174. Nell’ambito degli Autori che propendono per natura degli studi di settore come fondanti una presunzione legale, si è poi affermata la natura sostanziale degli stessi.
CORASANITI175, così ricostruisce la questione.
(…) hanno sostenuto una possibile rilevanza sostanziale degli studi di settore A. Di Pietro, Rilevanza sostanziale delle nuove procedure di accertamento?, in AA.VV., Il nuovo accertamento tributario tra teoria e processo, (a cura di) C. Preziosi, Roma – Milano, 1996, 29 ss.; F. Gallo, Ancora sulla questione reddito normale – reddito effettivo: la funzione degli studi di settore, in Atti del Convegno di Studi “I nuovi studi di settore”, in Fisco, allegato, 2000, 39 ss. Sostiene la rilevanza sostanziale degli studi di settore Tosi, Le predeterminazioni normative nell’imposizione reddituale, Milano, 1999, 14, secondo cui tali strumenti non rientrerebbero tra le presunzioni quali mezzi di prova, bensì nel novero delle c.d. predeterminazioni normative. In altri termini, secondo quest’ultimo Autore, gli studi di settore rappresenterebbero dei criteri di quantificazione dei ricavi e compensi stabiliti dal Legislatore al fine di agevolare l’attività di accertamento dell’Amministrazione finanziaria; tuttavia, in questo modo, finirebbero per penetrare nel tessuto sostanziale, incidendo sulla delimitazione del presupposto dell’imposta. Difatti, sempre secondo il citato Autore, la nozione di “predeterminazione normativa” “(…) attiene non già ai percorsi logici argomentativi propri della funzione accertativi o giudiziaria – nei quali pure l’esistenza di un fatto fiscalmente rilevante può, a certe condizioni, essere affermata alla stregua di un ragionamento basato su criteri forfetari – bensì a quegli strumenti di fonte normativa, sia essa legislativa o regolamentare, in forza dei quali un dato stabilito ex ante, o comunque determinabile in base a criteri prefissati, è destinato a prendere il posto del dato effettivo, rilevando esso stesso e non quest’ultimo ai fini della tassazione”. Pertanto, gli studi di settore avrebbero in comune con le presunzioni legali relative la loro matrice normativa, ma se ne discosterebbero in quanto, diversamente da queste ultime, il percorso che conduce dal fatto noto al fatto ignoto non si baserebbe su una massima di comune esperienza, intesa come collegamento all’id quod plerunique accidit;
in altri termini, tale percorso non sarebbe di tipo logico – argomentativo, risultando, invece, trasfuso nel contenuto precettino della norma, come una sorta di finzione, esemplificazione legale, postulando, quindi, una disciplina costruita tutta sul piano normativo, senza avere riguardo, o addirittura in contrasto, con la realtà effettiva. In questo modo, pertanto, in sede di accertamento, l’Amministrazione finanziaria si dovrebbe limitare ad applicare le risultanze degli studi di settore, sostituendole alle realtà costituite dai ricavi e compensi effettivamente prodotti. Allo stesso modo, sempre secondo questo orientamento dottrinale, rappresentando i ricavi o compensi determinati in base agli studi di settore una semplice predeterminazione degli stessi sul piano normativo, conseguentemente mancherebbe nell’accertamento effettuato attraverso gli studi di settore una vera e propria prova del ricavo o compenso accertato e non si porrebbe, in relazione agli stessi, un vero e proprio problema di prova contraria da parte del contribuente, essendo quest’ultimo più che altro chiamato a fornire “i ragguagli necessari a far emergere la specificità della propria situazione”. Tuttavia, è di tutta evidenza come, sulla base di questa ricostruzione, gli effetti degli studi di settore quali predeterminazioni normative, sul piano pratico e sostanziale, sarebbero simili a quelli delle presunzioni legali relative, in quanto, in ambito processuale produrrebbero il medesimo effetto:
quello di produrre un’inversione dell’onere della prova a carico del contribuente. In tal senso cfr. Versiglioni, Prova e studi di settore, op. cit., 178. Contra una possibile rilevanza sostanziale degli studi di settore sembrerebbe esprimersi Marcheselli, Gli studi di settore devono valorizzare la realtà del singolo contribuente, in GT-Riv. giur. trib., 2007, 513-514, secondo il quale “(…) le disposizioni in tema di studi di settore costituiscono disciplina di modalità di accertamento del reddito effettivo, e non definizione del presupposto di imposta (…)” .
La questione sulla natura sostanziale o procedurale degli accertamenti basati sugli studi di settore viene illustrata da CORASANITI, peraltro senza prendere posizione, al fine di introdurre le problematiche legate agli oneri probatori a carico dell’amministrazione e della diversa impostazione delle possibili questioni di costituzionalità della disciplina relativa agli studi. Va rilevato che, con riferimento alla questione dell’applicabilità degli studi di settore anche per il passato, la giurisprudenza (v. paragr. 5.c.) è nel senso che la norma contenuta nell’art. 62-bis, d.l. n. 331 del 1993, ha natura procedimentale (e come tale applicabile anche ai periodi di imposta anteriori alla sua entrata in vigore).
5.d.5. La tesi degli studi di settore come presunzioni semplici:
approfondimento.
La tesi per cui gli studi di settore hanno il valore probatorio delle presunzioni semplici, è seguita anche da:
– UCKMAR-TUNDO176, i quali rilevano che “i risultati dell’applicazione degli studi di settore costituiscono indizi che possono essere valorizzati, insieme ad altri elementi concreti rilevati dagli organi accertatori al fine di dimostrare l’esistenza (e la successiva quantificazione) dei redditi dichiarati”. Infatti, diversamente opinando, si verrebbe a sovrapporre “al contribuente concreto il contribuente ideale rappresentato dalla funzione, violando così il principio che vuole l’imposizione rapportata all’effettiva situazione e capacità contributiva espressa dal contribuente”;
– CICALA177, il quale definisce “più avvertita” la giurisprudenza che ” tende ad assimilare queste presunzioni alle comuni presunzioni hominis, cioè a considerare “studi di settore”, “redditometri”, “percentuali di ricarico” e quant’altro, come meri supporti razionali offerti dall’Amministrazione al giudice, paragonabili ai bollettini di quotazioni di mercato in cui è possibile reperire dati medi presuntivamente esatti”;
– LATTANZIO178, per il quale i risultati di GE.RI.CO., trattandosi di valori medi e come tali stimati, non possono costituire un fatto noto dal quale desumere ed argomentare quello ignoto da provare. Tanto più che nel calcolo di tali medie “è impossibile tenere in considerazione alcuni rilevanti fattori che concorrono a determinare i ricavi e il reddito: si pensi, ad esempio, all’abilità, all’intraprendenza, allo stato di salute, ai rapporti personali, alla buona o alla cattiva sorte”. Per questi motivi, gli studi di settore “hanno carattere meramente orientativo, non potendo esprimere un rapporto costante e tassativo con la capacità contributiva del soggetto passivo d’imposta”;
– QUATRARO D.- QUATRARO M. 179, i quali ritengono che “la natura del procedimento accertativo mediante l’utilizzo .. degli studi di settore è, e rimane, comunque analitica”, basandosi sulle risultanze delle scritture contabili e sulla contrapposizione costi-ricavi, nel rispetto dei criteri di determinazione del reddito d’impresa. Talché, gli uffici accertatori dovrebbero preliminarmente operare un riscontro contabile e documentale di quanto dichiarato dal contribuente, nonché procedere alla verifica della complessiva correttezza, completezza e fedeltà delle scritture contabili e soltanto in caso di sussistenza di elementi di reddito non dichiarati, potrebbero “quantificare il presunto maggior reddito sottratto a tassazione utilizzando parametri e studi di settore”. Infatti, “il legislatore attribuisce una presunzione di veridicità alle scritture contabili, che può essere scalfita dall’ufficio solo fornendo la prova precisa e circostanziata della loro sostanziale inattendibilità”. Inoltre, sempre secondo tali Autori, “il presunto maggior reddito risultante dall’applicazione dei suddetti strumenti non può costituire automaticamente presupposto e causa dell’accertamento presuntivo, potendo solo rappresentare l’effetto finale di un procedimento accertativo, pena la nullità dell’atto impositivo omesso180”.
Sempre nella prospettiva della natura di presunzioni semplici, v. MARONGIU181.
Le disposizioni citate, non diversamente da quelle relative ai coefficienti presuntivi, non sono di aiuto a risolvere la questione, almeno non in termini espliciti e assolutamente univoci. Alcuni dati paiono, però, abbastanza significativi. Innanzitutto, il 3 comma dell’art. 62-sexies, d.l. n. 331 del 1993 stabilisce che tali studi sono un fondamento per l’accertamento in base al 1 comma, lett. d) dell’art. 39, d.p.r. n. 600 del 1973182. Nessun dubbio che, nell’accertamento richiamato, non si ritrovino presunzioni legali, ma semmai presunzioni semplici. E ben vero che tale norma, alla lettera d), prevede anche il riferimento a dati direttamente rilevati, ma la simmetria stabilità dal legislatore pare evidentemente concernere le presunzioni indicate nella disposizione e non “l’ispezione delle scritture contabili e dalle altre verifiche di cui all’art. 33 ovvero dal controllo della completezza, esattezza e veridicità delle registrazioni contabili sulla scorta delle fatture e degli altri atti e documenti relativi all’impresa nonché dei dati e delle notizie raccolti dall’Ufficio nei modi previsti dall’art. 32”. In secondo luogo, lo stesso testo dell’art. 62-sexies affianca il rilevo degli studi a una espressione, come fonte alternativa dell’accertamento (caratteristiche e condizioni di esercizio dell’attività) assolutamente generica e corrispondente, pacificamente, a presunzioni semplici.
Per quanto nessuno dei due dati sia assolutamente decisivo, entrambi si armonizzano nettamente con la configurazione degli studi di settore come fonte di presunzioni semplici. Tale configurazione è inoltre quella più congrua, per le medesime ragioni già viste a proposito dei coefficienti presuntivi, alla struttura dei dati utilizzati negli studi. Essi sono solo alcuni di quelli che possono coadiuvare la “fotografia” della proteiforme apparenza delle attività economiche. Sostanzialmente simili (e, come in quel caso, non decisive) sono le considerazioni da svolgere intorno al possibile contrasto con la riserva di legge di cui all’art. 23 Cost., e quella relativa alle norme processuali: una base legislativa esiste e, probabilmente, non sarebbe netta ed evidente la violazione della clausola di riserva.
Più attenta deve essere l’analisi sotto altri profili perché la configurazione come presunzione legale potrebbe portare a una possibile violazione degli artt. 3, 24 e 111 Cost. in rapporto all’art. 53 Cost.
Si è già ricordato che, nella fase di attuazione, non si è rispettato appieno il disposto dell’art. 62-bis del d.l. del 1993 che prevedeva il controllo diretto come fondamento per l’elaborazione degli studi medesimi.
Invece, si è provveduto mediante l’invio di una serie di questionari ai contribuenti e, sulla base delle risposte, si è preceduto alla prima elaborazione degli studi medesimi. Ciò, almeno inizialmente, ha inciso sullo strumento in esame perché, snaturandolo, ha rimesso la sua persuasività alla trasparenza praticata dei contribuenti-campione. Ebbene, l’avere fondato gli studi di settore su un dato soggettivo, la correttezza delle risposte, piuttosto che oggettivo, il controllo diretto, e cioè la verifica sul campo, incide, non può non incidere anche sulla preferibilità dell’alternativa tra presunzione legale (seppure relativa) o presunzione semplice.
In proposito, e cioè con riguardo alle presunzioni fiscali, la Corte costituzionale ha asserito che “esse non sono di per sè illegittime ma devono fondarsi su indici concretamente rivelatori di ricchezza ovvero su fatti reali quindi anche difficilmente accertabili affinché l’imposizione non abbia una base fittizia” 183. Allo stato, gli studi di settore sono stati elaborati, come sopra si diceva, esclusivamente sulla base dei dati ricevuti dagli uffici in risposta ai questionari inviati ai contribuenti e non sul campo. Orbene, essendo fermo l’insegnamento della Corte costituzionale secondo il quale, in tema di presunzioni legali, il fondamento probabilistico della presunzione andrebbe agganciato a presupposti di tipo concreto e obiettivo, è dubbio che tale possa dirsi quello, eminentemente soggettivo, invece, del contenuto delle “risposte” dei contribuenti. E la possibile obiezione che, viste le naturali “ritrosie” dei contribuenti, tali dati potrebbero comunque ragionevolmente rappresentare la misurazione di un minimo attendibile per la capacità contributiva, non coglierebbe nel segno. Il valore di ragionevolezza e concludenza degli strumenti di accertamento della capacità contributiva (previsto dalle norme costituzionali per l’attuazione dell’art. 53 Cost.) non vale, infatti, solo e unilateralmente come garanzia del contribuente contro gli abusi del pubblico potere ma anche, in misura esattamente simmetrica, come garanzia dell’interesse pubblico contro l’inadempimento del dovere di solidarietà. Detto in altri termini, non sembra di potersi escludere, almeno a priori, che la configurazione come presunzione legale degli studi di settore, così come attuati in questa fase dichiaratamente transitoria, potrebbe violare gli artt. 3 e 53 Cost., sotto il profilo della
ragionevolezza del criterio assunto come base di calcolo, quanto meno dal lato dell’interesse pubblico.
Ma v’è di più. In particolare quando fu denunciata la legittimità costituzionale della norma che, agli effetti dell’imposta di successione, prevedeva, per presunzione legale, l’esistenza, nell’asse, di denaro, gioielli e mobilia, la Corte la riconobbe legittima ma scrisse: “La disposizione impugnata è fondata sulla comune esperienza e risponde ai principi di logica tanto rilevanti da legittimare la certezza giuridica dell’esistenza dei beni e inoltre, data la natura di essi facilmente occultabili, sfuggenti a qualsiasi accertamento fiscale e di valore difficilmente valutabile, sussisteva per il legislatore la necessità di rendere precisa la pretesa tributaria, sollecita la riscossione del tributo e vano ogni tentativo di evasione” 184.
In sintesi, secondo la Corte costituzionale, la stessa esistenza di una presunzione legale, proprio perché essa inverte l’onere della prova, deve porsi come assolutamente necessaria, come l’unica via percorribile per evitare l’evasione.
Orbene questo non può dirsi di certo per gli studi di settore che si pongono come uno dei tanti strumenti per accertare la base imponibile.
Ne consegue che dovendo, alle norme, essere attribuito il significato compatibile con la Costituzione, va preferita la conclusione per cui non di presunzione legale (relativa) si tratta nella specie, ma di presunzione semplice.
Se quanto precede è corretto, negli studi di settore è da riconoscere la falsariga di presunzioni semplici 185, da armonizzare con tutti gli altri elementi a disposizione per la ricostruzione della situazione economica del contribuente .
GIOÈ186 così indica le ragioni che fanno propendere per la tesi della presunzione semplice.
Tanto le presunzioni semplici, quanto quelle legali, pertanto, si sostanziano in ricostruzioni logiche che scaturiscono da un ragionamento (iudicis o ex lege) che permette di far discendere, con un alto grado di verosimiglianza, il fatto ignoto da un fatto noto187.
Invero, poter individuare negli studi di settore il fatto “noto”, dal quale far discendere la prova presuntiva del fatto “ignoto”, costituito dal reddito imponibile del soggetto accertato, risulta, quanto meno, problematico.
Le statistiche elaborate per campioni di contribuenti, per quanto sempre più dettagliate, portano all’elaborazione di un ricavo (o compenso) definito “medio”, che non è, ne’ sembra potersi considerare – per le modalità con le quali è stato ricostruito – fatto “noto”.
Non va dimenticato che nella ricostruzione degli studi di settore, benché la platea di soggetti interpellati comprenda, distintamente per codice di attività, l’intera popolazione dei soggetti interessati, non tutti i questionari vengono restituiti e non tutti quelli compilati dai contribuenti risultano completi e corretti. Così l’esito finale dell’indagine appare non sufficientemente rappresentativo sia in termini quantitativi (a motivo del numero delle risposte rispetto al numero dei soggetti interpellati) sia in termini qualitativi (per effetto di errori o incompletezze nelle risposte fornite).
Inoltre, nel ragionamento inferenziale codificato nello studio di settore una serie di variabili di base non sono neppure definite nella loro esatta portata.
Si pensi, ad esempio, alla variabile territoriale, connessa alla diversa dislocazione territoriale dell’attività all’interno della città. È evidente che un’attività commerciale al centro della città abbia un volume d’affari e dia luogo ad un reddito maggiore rispetto ad analoga attività in periferia.
Negli studi di settore, tuttavia, la differenziazione territoriale si ferma, di regola, a livello comunale, non considerando le peculiarità esistenti a livello infracomunale, che, soprattutto nelle grandi città, assumono notevole rilievo.
Nè può ritenersi che a tali margini di variabilità possano supplire i nuovi Osservatori Regionali creati “per l’adeguamento degli studi di settore alle realtà economiche locali” 188, sebbene ad essi sia stato attribuito il compito oltre che di implementare l’attività tradizionale degli Osservatori (il monitoraggio delle realtà economiche territoriali per fornire elementi utili alla revisione degli studi di settore), anche di raccogliere informazioni utili a migliorare l’applicazione degli studi di settore in sede di accertamento189. Ai margini di variabilità territoriale sopra descritti potrà supplire soltanto la oculata valutazione effettuata dagli uffici in sede applicativa, sopratutto nella fase, necessaria e propedeutica, del contraddittorio con il contribuente. Come si vede, pertanto, sul piano fattuale non sembra sussistere la certezza del primo elemento (il fatto noto) dal quale far conseguire deduttivamente l’accertamento del secondo elemento (il fatto ignoto, rappresentato dal reddito del soggetto).
Non può sottovalutarsi, inoltre, la circostanza che, sebbene alle presunzioni sia riconosciuta una natura fondamentalmente probatoria, l’uso che di esse fa il legislatore può mutarne in buona parte le caratteristiche.
Con specifico riguardo alla materia tributaria tale assunto assume una pregnanza ancora maggiore. Allorquando il legislatore introduce una presunzione legale in ambito fiscale, facendo discendere dalla sussistenza di un fatto noto l’esistenza di un fatto ignoto, che sottopone ad imposizione, in realtà non fa che disporre normativamente in ordine ad una nuova fattispecie imponibile: in questo caso, il meccanismo presuntivo più che operare sul piano probatorio, interviene nella stessa qualificazione della fattispecie d’imposta. Ciò che cambia è soltanto la tecnica legislativa adoperata nell’identificazione del presupposto.
Così, nelle presunzioni assolute in materia tributaria, l’impossibilità di fornire la prova contraria determina l’incontrovertibile esistenza del fatto prestabilito dalla legge e la conseguente applicabilità alla fattispecie della relativa disciplina fiscale.
Lo stesso avviene nel caso di presunzioni legali relative; anch’esse finiscono per agire sul piano del diritto sostanziale, ricollegando ad un determinato fatto un corrispondente trattamento tributario. In realtà, le conseguenze e la natura delle presunzioni iuris tantum sono analoghe a quelle iuris et de iure, con due differenze: la possibilità di opporre prova contraria e il momento temporale nel quale esse operano sul piano sostanziale (mentre le presunzioni assolute esplicano i loro effetti immediatamente, quelle relative esplicano effetti sul piano sostanziale soltanto in sede contenziosa o di accertamento, quando la parte su cui ricade l’onere di fornire la prova contraria non riesca ad assolvervi).
Considerate quindi le conseguenze che la previsione di una presunzione legale – ancorché relativa – determina sul piano sostanziale, occorre la massima cautela da parte dell’interprete nell’affermarne l’esistenza, specialmente quando il legislatore non abbia espressamente qualificato come tale la presunzione e tanto più allorquando il ragionamento su cui la presunzione dovrebbe fondarsi lascia aperti spazi di incertezza o inattendibilità. L.’A. esamina poi la questione alla luce dei parametri costituzionali.
Ancora, nella valutazione della compatibilità dell’istituto della presunzione legale, sia pur relativa, con gli studi di settore vengono in rilievo anche taluni aspetti problematici di natura costituzionale190.
Le prime perplessità sorgono con riguardo all’art. 3 della Costituzione e all’art. 24 della Costituzione.
Ove agli studi venisse riconosciuto valore di presunzione legale, sia pur relativa, si determinerebbe una eccessiva ed ingiustificabile diversità di trattamento tra le categorie soggette agli studi e le categorie per le quali tali strumenti presuntivi non operano. Se ad essere sottoposto ad accertamento fosse un reddito da lavoro autonomo sarebbe sufficiente che questo risultasse non congruo rispetto agli studi di settore per far ricadere sul professionista la difficile prova contraria di non aver percepito un reddito maggiore rispetto a quello dichiarato; laddove, invece, l’accertamento riguardasse il reddito fondiario dichiarato da un proprietario terriero, sarebbe l’amministrazione a dover provare – ove intendesse operare una rettifica in aumento – che il soggetto ha incassato canoni di locazione non dichiarati, o superiori a quelli dichiarati; in mancanza di tale prova dovrebbe considerarsi veritiero il dato dichiarato dal contribuente.
Situazioni come questa evidenziano, oltre che una ingiustificata disparità di trattamento, anche un’eccessiva compressione del diritto di difesa del contribuente soggetto agli studi di settore. In tutti i casi in cui si ricorra a criteri presuntivi di ricostruzione del reddito il contrasto con l’art. 24 della Costituzione sarà tanto maggiore quanto più verrà compressa la facoltà di difesa del contribuente, come nel caso in cui si affermi che l’applicazione di tali strumenti dia luogo ad un’inversione dell’onere della prova. In questo caso il soggetto, infatti, viene costretto a fornire una prova negativa – e come tale particolarmente difficile – per contrastare la posizione dell’ufficio, fondata unicamente su un’indagine matematico-statistica. Un’ulteriore riflessione involge il rapporto tra gli studi di settore – considerati come presunzioni legali – e l’art. 41 della Costituzione, che tutela l’iniziativa economica privata. Nessuno può essere obbligato a rendere il massimo possibile nello svolgimento della propria attività. Un soggetto potrebbe decidere di vivere di altri proventi (ad esempio, con la rendita derivante da immobili di sua proprietà) e svolgere una professione intellettuale soltanto in modo marginale, per pura realizzazione personale, dedicandovi poco tempo e ricavandone modesti guadagni. Lo svolgimento “sotto la media” della propria attività renderebbe il soggetto non congruo e non coerente rispetto agli studi di settore, con conseguente applicazione di una tassazione superiore a quella che dovrebbe sopportare in base al reddito effettivo. Ove il contribuente non fosse in grado di fornire la difficile prova contraria, l’eccessiva tassazione potrebbe addirittura costringerlo a cessare l’attività perché non più conveniente.
Non vi è dubbio che nell’esempio considerato l’applicazione degli studi di settore risulterebbe di ostacolo all’iniziativa economica del soggetto che avesse deciso di svolgere la propria attività in modo marginale.
Infine, va considerata la necessaria coerenza del sistema con l’art. 53 della Costituzione.
La previsione legislativa di strumenti di forfetizzazione del reddito è giustificata dalla duplice esigenza di contrastare l’evasione senza dover sopportare costi elevatissimi per accrescere il personale addetto al controllo e alle verifiche e di prevedere, con la maggiore approssimazione possibile, il gettito delle entrate per l’anno successivo.
Tali esigenze, tuttavia, se da un lato giustificano la scelta del legislatore tributario di prevedere strumenti di accertamento fondati su presunzioni, dall’altro non possono legittimare una tassazione del tutto disgiunta dalla verifica della situazione concreta, atteso che tali strumenti si fondano su dati medi e quindi su meccanismi di forfetizzazione del reddito, che pervengono ad un dato che non è mai quello effettivo.
Per l’insieme di tali incongruenze, anche rispetto al dettato costituzionale, il ricorso agli studi di settore non può considerarsi sufficiente da solo a fondare l’accertamento. Gli studi potranno valere a fondare presunzioni soltanto se accompagnati da altri indizi ed elementi, gravi, precisi e univoci.
5.d.6. Le due tesi a confronto: ulteriori argomenti a favore della natura di presunzione semplice.
Per una valutazione degli opposti schieramenti sembrano utili le considerazioni di MARCHESELLI191 (che, all’esito, conclude per la natura di presunzioni semplici).
… si ripropone anche per gli studi di settore la necessità di sciogliere l’alternativa, già vista per altri strumenti, tra presunzione legale o catalogo di presunzioni semplici. Come nel caso dei coefficienti presuntivi o dei parametri, non esiste un argomento letterale decisivo.
Alcuni dati paiono però abbastanza significativi. Innanzitutto, il comma 3, dell’art. 62-sexies, d.l. n. 331/1993, stabilisce che tali studi sono un fondamento per l’accertamento in base al comma 1, lett. d) dell’art. 39, d.P.R. n. 600/1973 192. Nessun dubbio che, nell’accertamento richiamato, non si ritrovino presunzioni legali, ma, semmai, presunzioni semplici. È ben vero che tale norma, alla lett. d) prevede anche il riferimento a dati “direttamente rilevati”, ma la simmetria stabilita dal legislatore concerne le presunzioni indicate nella disposizione e non “l’ispezione delle scritture contabili e dalle altre verifiche di cui all’art. 33 ovvero dal controllo della completezza, esattezza e veridicità delle registrazioni contabili sulla scorta delle fatture e degli altri atti e documenti relativi all’impresa nonché dei dati e delle notizie raccolti dall’ufficio nei modi previsti dall’art. 32″193. In secondo luogo, lo stesso testo dell’art. 62-sexies affianca gli studi a una fonte alternativa dell’accertamento (“caratteristiche e condizioni di esercizio dell’attività”) assolutamente generica e corrispondente a presunzioni semplici.
Per quanto nessuno dei due dati sia decisivo, entrambi si armonizzano meglio con la configurazione degli studi come fonte di presunzioni semplici194. Tale configurazione non è, di per sè, smentita dalla struttura dei dati utilizzati negli studi. Essi sono solo alcuni di quelli che possono coadiuvare la “fotografia” delle attività economiche e non gli unici significativi dal punto di vista indiziario: pensare che essi siano stati elevati a rango di fatti fondanti una presunzione legale (a differenza degli altri non considerati) potrebbe anzi non essere del tutto appagante. Ciò vale, in un certo senso a maggior ragione, dopo che gli studi di settore sono stati ritenuti applicabili in via generale anche ai contribuenti in contabilità ordinaria per obbligo195. In effetti che le presunzioni fondate sugli studi valgano indifferentemente per contribuenti di dimensioni e struttura diversissima, anche per quelli che sono obbligati alla tenuta della contabilità (rispetto ai quali l’attendibilità della medesima è tendenzialmente maggiore), può indebolire, almeno dal punto di vista suggestivo, la “forza” di tali presunzioni.
Non significativo appare invece l’argomento che taluno potrebbe ipotizzare di trarre dal contrasto della presunzione legale ipoteticamente sottostante gli studi di settore con il principio della riserva di legge196.
Quanto a questo argomento si impongono, infatti, considerazioni simili a quelle svolte sopra: una base legislativa esiste e la violazione non sussisterebbe197.
Se gli argomenti fino qui esaminati o fanno propendere per la natura di presunzione semplice o sono neutri, resta da dare conto di qualche elemento di apparente segno contrario. Si allude ad alcuni accenni normativi che potrebbero essere intesi come limitazione della possibile “prova contraria” alle risultanze degli studi di settore. In effetti, l’onere di prova contraria si sposa, tipicamente, con presunzioni legali relative. È ben vero che l’espressione “prova contraria”, di per sè, non è necessariamente sintomatica di una effettiva inversione della prova, potendosi intendere anche nel senso, meno intenso, di prova contrapposta o controprova, non a una presunzione di legge, ma a una prova concreta della controparte (la presunzione semplice utilizzata contro il contribuente dal Fisco)198. Il punto è che parrebbe talvolta potersi riconoscere nelle norme qualcosa di ulteriore: una limitazione a tale prova contraria. Il ragionamento è, allora, chiaro: se sono previste limitazioni alla prova contraria allo studio, si tratta di presunzione legale199.
In questo quadro, viene innanzitutto in considerazione, il comma 4 dell’art. 10, legge n. 146/1998, che prevede che gli accertamenti con studi di settore non si applicano a chi inizia o cessa l’attività nel periodo di imposta (salvo il caso di cessazione e inizio da parte dello stesso soggetto o di mera prosecuzione di attività altrui da parte di altra persona) ovvero non si trova in un normale periodo di svolgimento della attività. Questa disposizione, però, non prova nulla nel senso della presunzione legale. Essa, infatti, prevede una esclusione dalla applicazione degli studi di settore e non una confutazione del risultato dei medesimi200.
Altra disposizione che potrebbe intendersi correlata alla presenza di limiti alla prova contraria è il comma 3-ter dell’art. 10, legge n. 146/1998. Esso prevede che possono essere attestate le cause che giustificano la non congruità dei ricavi o compensi dichiarati rispetto a quelli derivanti dall’applicazione degli studi, ovvero le cause che giustificano un’incoerenza rispetto agli indici economici individuati dagli studi. Tale attestazione è rilasciata, su richiesta dei contribuenti, dai soggetti abilitati alla trasmissione telematica delle dichiarazioni indicati nella norma (in buona sostanza, dai consulenti e professionisti del settore). Non pare, tuttavia, che neanche questa disposizione concerna la prova contraria. Essa non pare limitarne ne’ l’oggetto (che è definito in modo del tutto generico) ne’ le modalità di esplicazione: la norma prevede che il contribuente si possa precostituire una “giustificazione” per lo scostamento, fermo restando che nulla fa pensare ne’ che questa sia vincolante per uffici e giudici tributari, ne’ che, all’opposto, questo sia l’unico mezzo di prova contraria.
La conclusione dell’insussistenza di limiti alla prova, in genere, evita i dubbi sulla legittimità costituzionale del sistema normativo appare in linea con la lettera e la ratio delle disposizioni fin qui esaminate e, last but not least, è stata riconosciuta dalla interpretazione ministeriale201. A favore della configurazione degli studi come presunzioni semplici può poi tentare di evocarsi un ulteriore argomento. Almeno nel regime iniziale, gli studi di settore sono stati elaborati sulla base delle risposte dei contribuenti. È fermo l’insegnamento della Corte Costituzionale secondo il quale, in tema di presunzioni legali, il fondamento probabilistico della presunzione andrebbe agganciato a presupposti di tipo concreto e obiettivo202. Si potrebbe dubitare che tale possa dirsi quello, eminentemente soggettivo, del contenuto delle “risposte” dei contribuenti, che ha costituito il punto di partenza della prima elaborazione degli studi. La conclusione sarebbe allora che, in una interpretazione costituzionalmente orientata, gli studi di settore, strumento non obiettivo nel senso appena precisato, non potrebbero essere presunzioni legali.
A ciò si potrebbe obiettare che, viste le naturali “ritrosie” dei contribuenti, tali dati potrebbero comunque ragionevolmente rappresentare la misurazione di un minimo attendibile per la capacità contributiva. Lo scarso fondamento probabilistico della presunzione sarebbe allora soltanto “unidirezionale” (rispetto alla possibilità di valori superiori) e potrebbe pregiudicare, in astratto, solo le ragioni del Fisco203. Tuttavia, posto che questi è sempre gravato dall’onere di provare l’accertamento, non pare che una tale presunzione, in astratto e di per sè, arrecherebbe danno alla sua posizione procedimentale e processuale. Egli sarebbe agevolato fino alla prova del minimo presunto, ritrovandosi gravato dell’onere della prova per gli importi superiori.
Questo tuttavia ripropone con rinnovata rilevanza la questione della esistenza di eventuali limitazioni alla prova contraria, questa volta, dalla parte della Amministrazione Finanziaria, nel caso in cui gli studi di settore (e la congruità rispetto ai medesimi) sia ostativa all’accertamento di un maggiore imponibile. A ben vedere, una irragionevolezza sussisterebbe sia che fosse precluso tout court un accertamento in aumento, su qualsiasi base fondato, sia che sia preclusa una rettifica a valori superiori sulla base degli stessi elementi indiziari, restando libera una rettifica fondata diversamente.
Tali limitazioni, in effetti, non hanno alcun fondamento logico razionale, se l’unico parametro da utilizzare è quello della ricostruzione empirica della realtà. Che ricavi e compensi non possano essere maggiori della cifra parametrata agli studi ovvero che dai fattori produttivi presi a base degli studi non si possano desumere ricavi e compensi superiori non corrisponde a nessuna massima di esperienza, neppure ove la funzione matematica che lega ricavi e fattori produttivi sia desunta dai dati concretamente accertati dalla generalità dei contribuenti e non dalle risposte ai questionari.
L’A. poi, prende in considerazione l’evoluzione normativa relativa alla possibilità di accertamenti ulteriori rispetto a quelli fondati sugli studi di settore e rileva che l’art. 70 della legge 21 novembre 2000, n. 342, per il quale l’accertamento fondato sugli studi non preclude un successivo accertamento delle medesime categorie reddituali, è stato seguito dalla previsione di limitazioni alla possibilità di accertamento dell’ufficio, contenute nell’art. 1, comma 17, della l. 27 dicembre 2006, n. 296, che ha introdotto l’art. 10, comma 4-bis, nella l. n. 146 del 1998 (v. All. 1.14 e 1.14-bis).
In pratica, nei confronti di coloro che risultino aver dichiarato compensi o ricavi almeno pari al livello della congruità, tenuto anche conto dei valori di coerenza, non può procedersi a rettifica presuntiva se il valore ulteriore presunto non supera il 40 del valore dichiarato e non supera i 50 mila euro. La rettifica è possibile, oltre che nel caso di superamento di tali soglie, nel caso in cui il contribuente si sia reso responsabile di violazioni di omessa o infedele indicazione in dichiarazione dei dati riguardanti gli studi di settore, previste, per le imposte sui redditi, dall’art. 1, comma 2-bis, d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, per l’IVA, dall’art. 5, comma 4-bis, d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, per l’IRAP, dall’art. 32, comma 2-bis, d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446.
La disposizione ha una certa importanza sistematica. Essa, innanzitutto, non sembra agevolmente giustificabile, sulla base di soli criteri empirici. Nell’ottica dell’accertamento dei compensi e ricavi effettivi, non vi è infatti ragione di indicare una soglia al di sotto della quale non sia possibile la rettifica in aumento, indipendentemente dal tasso di probabilità della esistenza di un importo maggiore. In presenza di dati presunti ma ad elevatissimo tasso di probabilità, la disposizione si presenta difficilmente giustificabile, se si resta sul piano dell’accertamento della realtà. Si tratta allora di una delle tante scelte di compromesso tra le ragioni della precisione e quella della efficacia che caratterizzano la materia tributaria . Può evidentemente ritenersi che il legislatore, nel rinuncia re alla possibile tassazione di compensi e ricavi “certi” (ancorché presunti), abbia un obiettivo di incentivazione: il contribuente è incentivato a dichiarare ammontare congrui e prossimi al limite del 40 , perché in tal modo egli si garantisce una quota di reddito (non dichiarato) in franchigia di imposta e non più accertabile (in via presuntiva). È evidente che questa è una parziale deviazione, di fatto, dall’obiettivo della tassazione del reddito effettivo. In nome della finalità di incentivare la dichiarazione di compensi e ricavi congrui tale scelta può condividersi: A legislatore rinuncia ad accertare un maggior reddito purché il dichiarato sia congruo e ciò potrebbe portare a un aumento di gettito, diminuzione delle rettifiche (diminuendo il numero di quelle fondate sugli scostamenti rispetto agli studi), diminuzione, correlata, del contenzioso204. Non si comprende, però, perché la limitazione alla rettifica in aumento sia limitata al maggior reddito accertato presuntivamente e non in altro modo. Nello stabilire che la franchigia rispetto all’accertamento in aumento, rispetto al dichiarato congruo, si applica solo all’accertamento presuntivo il legislatore ricade nel consueto vizio concettuale di ritenere, di default, l’accertamento presuntivo come meno affidabile delle altre tecniche di accertamento. Per quanto tali modifiche legislative possano costituire un argomento suggestivo a favore della natura di presunzione legale 205non pare che queste comportino necessariamente tale conclusione, in generale. La limitazione alla rettifica in aumento vale solo per l’ipotesi di spontaneo adeguamento del contribuente e costituisce evidentemente l’effetto della sovrapposizione di valutazioni di efficienza e incentivazione all’obiettivo della precisione. La particolare forza di resistenza degli studi, in altre parole, sembra correlata più al fatto della (sostanziale) adesione del contribuente che non alla particolare forza endogena degli studi206. Essi sono derogabili sia in aumento che in diminuzione, senza limiti alla prova, in caso di dichiarazione non congrua o omessa e, essendo la prova libera, la questione della loro natura resta impregiudicata. In questo quadro, a nostro sommesso avviso, gli studi di settore sono un catalogo di presunzioni, semplici, da armonizzare con tutti gli altri elementi a disposizione per la ricostruzione della situazione economica del contribuente. Tale configurazione appare preferibile sul piano della coerenza sistematica e del dato letterale. Rispetto ai parametri costituzionali, la soluzione opposta (presunzioni legali) risulta comunque accettabile, a condizione che gli studi siano effettivamente redatti e aggiornati in modo da corrispondere a canoni di probabilità, sia riconosciuta la libera prova contraria e gli uffici valorizzino, anche attraverso presunzioni semplici opposte agli studi, gli elementi offerti dal contribuente o acquisiti d’ufficio.
BASILAVECCHIA207, definisce la questione se le risultanze degli studi possano sorreggere da sole l’accertamento, ” un falso problema “, avendo la giurisprudenza, sia pure pronunciando a proposito di fattispecie anteriori alla disciplina normativa sugli studi “colto subito con illuminante chiarezza la via per raggiungere l’equilibrio migliore”.
Dal tenore letterale dell’art. 62-sexies, letto in correlazione con l’art. 39, d.p.r. n. 600/1973 di cui costituisce integrazione, si evince che il contribuente che dichiara ricavi inferiori a quelli risultanti dall’applicazione degli studi versa in una situazione di incongruenza, che, di per sè, potrebbe legittimare l’accertamento. Tuttavia. opportunamente il legislatore ha assegnato agli studi, attraverso il riferimento sistematico all’art. 39, comma 1, la valenza di presunzioni semplici, applicabili secondo il prudente apprezzamento del giudice tributario. Non è quindi possibile un automatismo applicativo, anche perché lo strumento è basato su criteri inferenziali probabilistici stabiliti con riferimento a situazioni di normalità, nelle quali non tutti i contribuenti possono trovarsi, nel periodo d’imposta considerato. Ed infatti, il testo attuale dell’art. 10, legge n. 146/1998, che regola la tipologia di accertamenti in esame, prevede quale momento intermedio necessario la notificazione al contribuente di un invito a comparire. che consente una piena attuazione del contraddittorio sin dalla fase amministrativa.
Pertanto, non può parlarsi, in termini rigidi, di ripartizione dell’onere della prova in giudizio: l’ufficio presenta infatti al giudice un accertamento che dovrebbe tenere conto anche di quanto rappresentato dal contribuente nel contraddittorio amministrativo, e che come tale viene liberamente apprezzato dal giudice; il contribuente, per giurisprudenza costante, può indicare a sua volta elementi di prova a sostegno dell’ammontare di ricavi dichiarati, o comunque della diminuzione dell’ammontare risultante dalla applicazione degli studi; e può farlo fornendo anche elementi indiziari e presuntivi, che saranno anche loro sottoposti al vaglio critico – prudente apprezzamento – del giudice tributario, che può pervenire anche ad una determinazione intermedia208. 5.d.7. La natura degli studi di settore a seguito dell’introduzione degli I.N.E. transitori.
La natura degli accertamenti basati sugli studi di settore è stata oggetto di ulteriori riflessioni a seguito dell’introduzione degli indicatori di normalità economica con la legge 27 dicembre 2006, n. 296 ed in particolare con riferimento alle previsioni del d.l. 2 luglio 2007, n. 81 che introdusse, dopo il comma 14 dell’art. 1 della legge n. 296 cit., i commi 14-bis e 14-ter (il secondo aggiunto dalla legge di conversione 3 agosto 2007, n. 127) rilevanti ai fini della valenza probatoria degli studi di settore, prevedendo il primo che “Gli indicatori di normalità economica di cui al comma 14, approvati con decreto del Ministro dell’economia e delle finanze, hanno natura sperimentale e i maggiori ricavi, compensi o corrispettivi da essi desumibili costituiscono presunzioni semplici” ed il secondo che ” I contribuenti che dichiarano un ammontare di ricavi, compensi o corrispettivi inferiori rispetto a quelli desumibili dagli indicatori di cui al comma 14-bis non sono soggetti ad accertamenti automatici e in caso di accertamento spetta all’ufficio accertatore motivare e fornire elementi di prova per gli scostamenti riscontrati” (amplius, retro, paragrafo 5.a.5.) GIOÈ209, ritiene
tali specificazioni in ordine alla natura giuridica degli indicatori di normalità economica (…. ) senz’altro condivisibili, soprattutto in ragione della tempistica (particolarmente breve) e delle modalità con le quali si è pervenuti alla loro approvazione (senza il preventivo parere della Commissione di esperti); esse, tuttavia, non possono servire a giustificare ragionamenti “a contrario” sulla natura degli studi di settore.
In altri termini, la circostanza che la specificazione in ordine alla valenza probatoria degli indicatori di normalità economica, non sia stata effettuata anche con riguardo agli studi di settore, non significa che a questi ultimi vada riconosciuta una natura giuridica diversa (nella specie di presunzione legale relativa anziché di presunzione semplice); ne’, per contro, potrebbe sostenersi che la specificazione effettuata con riferimento agli INE debba implicitamente intendersi riferita anche agli studi di settore, trattandosi in entrambi i casi di strumenti tesi a determinare il reddito medio nei diversi settori di attività. Osserva, peraltro, che ” la qualificazione legislativa del valore probatorio da attribuire agli INE, sebbene abbia indubbiamente consentito una maggiore chiarezza e trasparenza nell’applicazione della nuova normativa in materia, non ha tuttavia eliminato i dubbi esistenti in ordine alla natura giuridica da riconoscere agli studi di settore”.
A tali dubbi cerca di rispondere MANZONI210.
La domanda che a questo punto si pone è quale sia il ruolo che i coefficienti presuntivi contenuti negli studi di settore, nonché gli ulteriori indicatori di normalità economica, sono destinati a svolgere ai fini dell’accertamento. In altre parole, se i dati in questione costituiscano la base su cui fondare un mero procedimento probatorio per presunzioni semplici, oppure costituiscano il fondamento di vere e proprie presunzioni legali (sia pure relative). Diciamo subito che la risposta non può che ricercarsi nella legge e solo nella legge. Pretendere di desumerla dai decreti ministeriali di attuazione (o comunque dalla maggiore o minore significanza o attendibilità degli studi di settore o degli indicatori di normalità economica in concreto approvati), come sembra fare una parte della dottrina, comporta un vizio logico evidente, dato che un decreto ministeriale non può che conformarsi alla legge e solo dalla legge derivare la propria legittimità. Ove la legge assuma un certo fatto o dato di fatto a fondamento di una presunzione legale, non può certo essere un decreto ministeriale a cambiarne la natura, trasformando la presunzione legale in presunzione semplice. La supremazia della legge sulla fonte secondaria comporta infatti che sia la seconda a doversi adeguare alla prima, e non viceversa. Ciò premesso, deve farsi anzitutto distinzione a seconda che si tratti dei coefficienti presuntivi di compensi e ricavi di cui all’art. 62-bis del d.l. n. 331/1993, oppure degli indicatori di normalità economica di cui all’art. 1, comma 14, della legge n. 296/2006.
Per quanto riguarda gli indicatori di normalità economica, il tenore delle disposizioni dettate in materia porta senz’altro ad escludere che gli stessi costituiscano fondamento di presunzioni legali, sia pure relative.
Come infatti si è visto, la legge non solo si preoccupa di precisare che i contribuenti che dichiarano ricavi, compensi o corrispettivi inferiori a quelli desumibili dagli indicatori di normalità economica non sono soggetti ad accertamenti automatici e che spetta all’ufficio accertatore motivare e fornire elementi di prova per gli scostamenti riscontrati, ma espressamente afferma che i maggiori ricavi, compensi o corrispettivi desumibili dagli indicatori di normalità economica costituiscono presunzioni semplici (art. 1, comma 14-bis, legge n. 296/2006): con ciò escludendo quindi, a contrario, che nel caso si possa parlare di presunzioni legali.
Quel che resta da chiarire è che cosa intenda dire la legge, affermando, con un’improprietà di linguaggio a suo modo esemplare, che i ricavi, compensi o corrispettivi desumibili dagli indicatori in questione costituiscono presunzioni semplici. Se infatti i ricavi, compensi e corrispettivi desumibili dagli indicatori di normalità economica costituissero di per sè una prova, cioè fossero di per sè sufficienti ad integrare gli estremi di una prova per presunzioni semplici, la loro sussistenza dovrebbe ritenersi per ciò stesso provata, senza necessità di alcuna ulteriore dimostrazione. Si ricadrebbe, insomma, in una tipica ipotesi di presunzione legale, secondo la definizione datane dall’art. 2727 del codice civile. Il che non sembra però corrispondere alla reale intenzione del legislatore.
Se perciò una spiegazione si vuol dare della disposizione in esame, di là dall’improprietà del linguaggio usato, essa non può essere che nel senso di sottolineare, da un lato, che spetta all’ufficio accertatore fornire la prova per gli scostamenti riscontrati (art. 1, comma 14-ter, legge n. 296/2006) e, d’altro lato, che tale prova ben può essere data per presunzioni semplici: sempre che i predetti indicatori di normalità economica (di per sè soli insufficienti) trovino adeguato supporto, come precisa la stessa legge, in ulteriori elementi di fatto, idonei ad avvalorare l’attribuzione dei maggiori ricavi o compensi derivanti dall’applicazione degli indicatori di normalità economica (art. 1, comma 14, legge n. 296/2006, quale integrato dalla legge n. 244/2007). Ciò significa, in conclusione, che, in mancanza di una presunzione legale, l’onere della prova rimane totalmente a carico dell’ufficio, il quale dovrà quindi non solo spiegare come siano stati elaborati gli indicatori di normalità economica ritenuti applicabili nel caso concreto, ma dimostrare altresì che tali indicatori, unitamente agli ulteriori elementi di fatto addotti dall’ufficio, si conformino all’id quod plerumque accidit e siano di conseguenza idonei ad integrare gli estremi di una presunzione semplice, secondo lo schema di cui agli artt. 2727 e 2729 del codice civile.
Presumibilmente, l’attenuato valore attribuito agli indicatori di normalità economica (rispetto a quello dei coefficienti riportati dagli studi di settore) si giustifica con il carattere dichiaratamente transitorio di tali indicatori (art. 1, comma 14, legge n. 296/2006) e, soprattutto, con la loro natura sperimentale (art. 1, comma 14-bis, stessa legge). Fattori che dimostrano chiaramente la consapevolezza, da parte del legislatore, del contenuto provvisorio ed approssimativo degli indicatori in questione e, quindi, della loro intrinseca inadeguatezza ad essere elevati al rango di presunzioni legali, sia pure relative (in questo senso, si veda anche la risposta n. 5-01837 del 5 dicembre 2007, data dal Governo alla Camera dei deputati a seguito di interpellanza parlamentare).
Del tutto diverso è invece il discorso per quanto riguarda i coefficienti presuntivi di ricavi e compensi di cui all’art. 62-bis del d.l. n. 331/1993. Va infatti rilevato che la legge non detta, in proposito, alcuna disposizione di contenuto analogo a quelle previste, per gli indicatori di normalità economica, dai commi 14-bis e 14-ter dell’art. 1 della legge n. 296/2006, ne’ si preoccupa di dichiarare tali disposizioni applicabili anche ai coefficienti elaborati dagli studi di settore (come sarebbe stato logico aspettarsi, se questa fosse stata l’intenzione del legislatore).
Resta il fatto che l’art. 62-sexies si limita a stabilire che gli accertamenti … possono essere fondati anche sull’esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili … dagli studi di settore …. Il dettato normativo è chiaro: il semplice fatto della sussistenza di gravi incongruenze tra quanto dichiarato e quanto desumibile dagli studi di settore è sufficiente a legittimare l’accertamento. Il che, diversamente da quanto previsto per gli indicatori di normalità economica, configura a nostro avviso, nonostante la contraria opinione di una parte della dottrina, gli estremi di una tipica ipotesi di presunzione legale (relativa). A conferma di tale soluzione è del resto la stessa legge n. 296/2006, che ha modificato l’originario testo del comma 1 dell’art. 10 della legge n.146/1998, precisando che gli accertamenti basati sugli studi di settore sono effettuati con le modalità di cui al citato art. 10 qualora l’ammontare dei ricavi o compensi dichiarati risulta inferiore all’ammontare dei ricavi o compensi determinabili sulla base degli studi stessi. Disposizione destinata a ribadire che il modo di operare degli studi di settore è quello tipico di una presunzione legale, come è anche il pensiero espresso dalla già citata risposta del Governo ad interrogazione parlamentare, nonché dalla circolare dell’Agenzia delle entrate n. 11/E del 16 febbraio 2007, punto 1.4 (anche se per un ripensamento sembra orientata la più recente circolare n. 5 del 23 gennaio 2008211).
L’affermazione della natura di presunzione legale (relativa) del procedimento logico-giuridico che sta alla base degli accertamenti mediante studi di settore trova del resto conferma in ulteriori e non trascurabili ragioni.
In primo luogo, la considerazione che, se di presunzioni semplici si trattasse, l’art. 62-sexies, comma 3, non avrebbe più motivo di essere, risultando del tutto inutile e superfluo. È infatti del tutto pacifico che, ai fini dell’accertamento, gli uffici ben possano fare ricorso a procedimenti probatori per presunzioni semplici. Ma non è corretto ritenere inutile o superflua una disposizione di legge, ove sia possibile attribuire ad essa un suo specifico contenuto. E l’unica interpretazione idonea ad attribuire specifico contenuto alla disposizione in esame è che con essa il legislatore abbia appunto inteso elevare a presunzioni legali quelle che, diversamente, sarebbero state delle mere presunzioni semplici. Un ulteriore argomento ci sembra che possa poi ricavarsi dalla stessa formulazione del citato art. 62-sexies, là dove si fa distinzione tra i ricavi, compensi e corrispettivi desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta e quelli desumibili dagli studi di settore. Se in ambedue le ipotesi si trattasse di presunzioni semplici, la distinzione non avrebbe più motivo d’essere. A nostro avviso, la distinzione assume invece significato e rilevanza, proprio in quanto destinata a tener distinti i casi in cui è possibile procedere solo per presunzioni semplici (prima ipotesi) dai casi in cui opera invece la presunzione legale (seconda ipotesi).
In conclusione, ci sembra che il legislatore, nel fare ricorso ad un sistema di presunzioni legali, abbia voluto assicurare agli uffici la possibilità di accertare un ammontare minimo di ricavi, compensi e corrispettivi (quelli appunto risultanti dagli studi di settore), pur ferma restando la possibilità di accertare eventuali maggiori ricavi o compensi sulla base di ulteriori prove per presunzioni semplici. Il che trova del resto puntuale conferma nel comma 4-bis dell’art. 10 della legge n. 146/1998, secondo cui Le rettifiche sulla base di presunzioni semplici di cui all’art. 39, comma 1, lettera d), secondo periodo, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 … non possono essere effettuate nei confronti dei contribuenti che dichiarino, anche per effetto dell’adeguamento, ricavi o compensi pari o superiori al livello di congruità, ai fini dell’applicazione degli studi di settore …, qualora l’ammontare delle attività non dichiarate, con un massimo di 50.000 euro, sia pari o inferiore al 40 per cento dei ricavi o compensi dichiarati. Dove risulta chiaro che l’accertamento mediante presunzioni semplici è destinato a trovare applicazione solo per quanto eccede gli importi risultanti dagli studi di settore (con una franchigia a favore del contribuente).
Significativo appare infine il parallelo con l’art. 38, comma 4, del d.P.R. n. 600/1973, che in tema di accertamento sintetico prevede la possibilità di determinare induttivamente il reddito o il maggior reddito in relazione ad elementi indicativi di capacità contributiva, individuati da apposito decreto ministeriale. Fattispecie nella quale la giurisprudenza appare chiaramente orientata a ravvisare un’ipotesi di presunzione legale relativa (fra le altre, ved. Cass., nn. 10491/2008, 9921/2008, 8845/2008, 25386/2007, 22574/2007, 16284/2007).
Contro l’affermata natura di presunzione legale (relativa) del procedimento che starebbe alla base degli accertamenti mediante studi di settore, è stato obiettato che, come dispone l’art. 62-sexies, a legittimare l’accertamento nell’ipotesi in esame non basta che i ricavi, compensi o corrispettivi dichiarati risultino (gravemente) incongrui rispetto a quelli comunque desumibili dagli studi di settore, ma è necessario che risultino (gravemente) incongrui rispetto a quelli fondatamente desumibili da tali studi. Dove l’avverbio fondatamente starebbe ad indicare proprio la necessità di supportare l’accertamento con ulteriori riscontri di fatto, idonei a comprovare l’applicabilità dei predetti studi di settore al concreto caso di specie, secondo quelle che sono appunto le regole di un procedimento probatorio per presunzioni semplici. Non riteniamo però di condividere una tale tesi. A nostro avviso, con l’avverbio in questione il legislatore ha semplicemente inteso richiamare l’attenzione degli uffici accertatori sulla necessità di assicurarsi, prima di fare applicazione degli studi di settore, che non ricorrano particolari situazioni di anormalità o di eccezionalità che ne escludano l’applicabilità: come ad esempio nel caso di un professionista ultraottantenne, o di un professionista che sia stato ammalato per gran parte dell’anno, o del commerciante il cui negozio sia rimasto chiuso a lungo per lavori di ristrutturazione, e così via. Tutti casi che però non comportano affatto la necessità di interpretare la presunzione in parola come presunzione semplice, essendo sufficiente, ad evitare ingiustificate applicazioni degli studi di settore, invitare il contribuente, prima di notificargli l’avviso di accertamento, a fornire eventuali spiegazioni o chiarimenti, così come appunto prevede l’art. 10, comma 3-bis, della legge n. 146/1998. Altri Autori 212, ritengono che il legislatore, qualificando gli indicatori di normalità economica come presunzioni semplici abbia voluto confermare che gli studi di settore abbiano la stessa natura, conclusione questa cui sembra essere pervenuta l’Agenzia delle Entrate con la circ. n. 5/E del 23 gennaio 2008, cit.
5.e. Accertamento e processo nelle due principali opzioni interpretative.
5.e.1. Quadro generale.
Gli Autori che in dottrina si sono occupati della natura degli accertamenti “standardizzati” non sempre hanno adeguatamente preso in esame le ricadute della tesi cui avevano aderito.
Meritano allora menzione le argomentazioni (praticamente identiche) di MARCHESELLI 213 e MARONGIU214 riguardo alle conseguenze dell’adesione all’una od all’altra tesi215 con riferimento agli studi di settore (ma la questione si pone nello stesso modo anche per gli altri strumenti in esame).
Se è vero che le differenze di regime giuridico che dipendono dalla qualificazione degli studi come presunzioni semplici o legali non vanno enfatizzate più di tanto, è anche vero che esse conservano un certo peso.
Sul piano concreto, innanzitutto, la differenza tra presunzioni legali e semplici è tanto più sfumata, quanto più gli studi siano effettivamente redatti e aggiornati in modo da corrispondere a canoni di probabilità. Quanto più gli studi vengono costantemente rapportati alla effettiva probabilità, tanto più l’irrigidimento determinato dal fatto che si tratta di una norma di legge sposta poco rispetto a una presunzione semplice di identico contenuto. Notevole importanza assume poi l’ampiezza con cui viene, ricercata, accolta e valutata la eventuale prova contraria, nelle iniziative ufficiose di funzionari e giudici e nella loro valutazione degli elementi offerti dal contribuente. Tanto più gli uffici e i giudici, anche in presenza di una presunzione legale, siano disponibili a cercare e vedere la prova contraria, di loro iniziativa o a seguito delle allegazioni del contribuente, tanto più la rilevanza della classificazione come presunzione legale o semplice diminuisce.
A queste condizioni, in effetti, la differenza tra la configurazione degli studi (così come i coefficienti o il redditometro) come presunzione semplice o legale si fa sottile. Essa però esiste. Nel caso di presunzione semplice, innanzitutto, l’ufficio deve, volta per volta, convincersi e convincere della plausibilità del risultato dello studio. L’ufficio deve cioè volta per volta elaborare i dati degli studi e motivare sulla relativa plausibilità. Detto in altri termini, il vizio dell’accertamento determinato da una motivazione stereotipa è più probabile nel caso delle presunzioni semplici.
In secondo luogo, permanendo sull’ufficio l’onere della prova, potrebbe contestarsi più agevolmente che questo non ha adattato lo studio alla realtà del singolo contribuente (vuoi perché non ha valorizzato i dati raccolti, o offerti dal contribuente vuoi per non averli, a monte, acquisiti secondo i canoni di una ulteriore ragionevole istruttoria standard.
In terzo luogo, spostandosi alla sede giudiziale, ben diversa è la portata di una presunzione legale (che vincola il giudice, senza aver alcuno spazio il suo libero convincimento) 216 rispetto a quella della presunzione semplice. Se di questa ultima si tratta, il collegio giudicante deve convincersi volta per volta della plausibilità della inferenza. Ciò può avere un effetto, in fatto, sull’esercizio della facoltà di disporre la prova in base all’art. 7, comma 1, d.lgs. n. 546/1992. Tale integrazione ha verosimilmente uno spazio maggiore quando si tratta di una prova presuntiva debole, piuttosto che non la ricerca di una prova contraria a una presunzione di legge vincolante. Si noti, inoltre, che la distinzione è più netta a livello giudiziale, anche per il fatto che l’organo giudicante non si trova, rispetto alla fonte dello studio, nella posizione di subordinazione in cui si trova l’ufficio. È probabile che, indipendentemente dalla natura degli studi217, gli uffici abbiano rispetto ad essi un atteggiamento più “passivo” che non l’organo giudicante. Ciò enfatizza la differenza rispetto alla configurazione come presunzioni semplici, ove il giudice è vincolato solo dalla plausibilità logica dello studio (e non anche, di fatto, ancorché ciò non sia ne’ previsto ne’ doveroso, dalla subordinazione gerarchica).
Non solo, ma la differenza tra presunzione legale e presunzione semplice si raccorda a due ulteriori profili, di notevole rilevanza. In primo luogo, se di presunzione legale si tratta, ne è fortemente dubbia la applicazione all’accertamento di componenti reddituali relativi a periodi di imposta precedenti l’entrata in vigore (o antecedenti, eventualmente, la loro trasformazione in presunzioni legali). Per quanto si tratti di norma processuale, sì è già reiteratamente segnalato come tale inversione possa costituire una modifica imprevista delle regole del gioco, potenzialmente lesiva, in primo luogo, del diritto di difesa, e, in secondo luogo del principio di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost.
Valgono qui tutte le considerazioni svolte sopra a proposito dei limiti alla retroattività e al principio dell’affidamento del contribuente218.
Da altro punto di vista, se si tratta di presunzioni legali, resta precluso al contribuente contestarne la plausibilità in sè, senza allegare una positiva prova contraria.
Detto in altri termini, se di esemplificazione di presunzioni semplici si tratta, il contribuente non può più sostenere l’inammissibilità in generale, di una inferenza che parta da quel tipo di presupposto (perché tale inferenza è contemplata dalla legge), ma può: a) fornire una prova contraria o, più
limitatamente b) contestare che, comunque, la presunzione non è convincente: essa è infatti prevista ma non in modo vincolante219. Quando invece si tratta di presunzione legale, resta possibile solo la prima delle due linee difensive220.
5.e.2. Il contraddittorio.
Da queste considerazioni emerge come il terreno concreto sul quale le due opzioni interpretative si confrontano è innanzitutto quello della prova che il contribuente può offrire per superare le presunzioni rivenienti dagli accertamenti “standardizzati”. Al riguardo MARCHESELLI 221 distingue tra prova contraria (nel caso di presunzione legale) o controprova (nel caso di presunzione semplice).
È ben vero che l’espressione “prova contraria”, di per sè, non è necessariamente sintomatica di una effettiva inversione della prova, potendosi intendere anche nel senso, meno intenso, di prova contrapposta o controprova, non a una presunzione di legge, ma a una prova concreta della controparte (la presunzione semplice utilizzata contro il contribuente dal Fisco).
Si tratterebbe insomma della normale dialettica di prova (offerta in concreto da una parte processuale e non derivante dalla legge) e controprova. Tale distinzione non è talora adeguatamente percepita dalla giurisprudenza. Ad esempio, Cass., sez. trib., 7 febbraio 2008, n. 2816, in tema di parametri (ma evidentemente le stesse considerazioni possono applicarsi agli studi di settore), afferma che a fronte della allegazione della presunzione semplice contenuta nel parametro, l’onere della prova si ribalterebbe sul contribuente. Così – ovviamente – non è: l’onere della prova dell’ufficio è assolto solo se il fatto ignoto (il maggior reddito) è di per sè convincentemente desumibile da quello provato. Non è vero che esista un onere di prova contraria in senso tecnico a carico del contribuente. L’ufficio ha assolto il suo onere solo se l’illazione è di per sè plausibile e convincente anche per il giudice: che ben potrebbe smontarla in assenza di qualsiasi allegazione o attività difensiva del contribuente. In ciò sta la palese differenza rispetto alla ricostruzione della fattispecie come inversione dell’onere della prova e onere di prova contraria, secondo quanto già evidenziato sopra. Il riferimento alla “prova contraria” per il contribuente significa una cosa del tutto diversa: che quando l’ufficio, sulla base degli elementi ragionevolmente conoscibili, ha fornito la prova, allo stato dei fatti, per così dire, della sua pretesa (il reddito accertato), o il contribuente allarga l’area dei fatti da tenere in conto (allegando ulteriori circostanze), o la causa è persa. Ma ciò non è propriamente una esplicazione della regola dell’onere della prova, ne’ per effetto di una sua inversione, ne’ per effetto della generale regola di ripartizione di cui all’art. 2697 c.c., in virtù della quale incombe al convenuto dimostrare il fatto modificativo o estintivo. È allora interessante rimarcare come il meccanismo sotteso a queste affermazioni è invece tutto interno al modo di svolgersi del giudizio sul fatto ed al principio di ragionevolezza. L’ufficio deve fornire una prova ragionevole del suo assunto, sulla base dei dati acquisibili e acquisiti in esito a una attività diligente di istruttoria. Ciò che è, per così dire, fuori della portata dell’ufficio non deve essere provato da questo. I fatti che l’ufficio non può ragionevolmente conoscere, perché fuori dal suo dominio (non conosciuti ne’ conoscibili sulla base di una istruttoria ragionevolmente diligente) devono semmai essere provati dal contribuente. Il meccanismo presenta allora una certa similitudine con la ripartizione dell’onere della prova tra fatti costitutivi e modificativi (o impeditivi o estintivi), ma non si tratta della stessa cosa. Là si tratta di provare fatti diversi (una cosa è provare la stipula di un contratto, un’altra provare la sua risoluzione, ad esempio), qui si tratta della misurazione della probabilità dello stesso fatto (il reddito), probabilità la cui sufficienza è una variabile che dipende dal contesto conosciuto. Sulla base dei fatti conosciuti e conoscibili dall’ufficio la probabilità può essere sufficiente (verosimiglianza delle risultanze degli studi di settore, in un quadro istruttorio neutro), ma la allegazione di altre circostanze può far tornare la probabilità sotto il livello della sufficienza. Si tratta di un meccanismo normale nel processo: esso è un accertamento della realtà allo stato degli atti e lo standard di plausibilità non è un valore assoluto (R. LUPI, Metodi induttivi e presunzioni nell’accertamento tributario, Milano, 1988, passim), ma dipende dagli elementi acquisiti e acquisibili, nel bilanciamento e valutazione ponderata della condotta processuale delle parti. Si associa a tali affermazioni CORRADO222.
Negli accertamenti standardizzati, l’onere della prova non è ribaltato sul contribuente, ma, più semplicemente, un ragionamento presuntivo preconfezionato (nella fattispecie de qua, la presunzione semplice costituita dai parametri) ne assiste l’assolvimento. Qualora la amministrazione finanziaria abbia offerto la propria dimostrazione della fondatezza degli elementi posti a fondamento della pretesa pubblica, toccherà al contribuente attivarsi per introdurre nel materiale di cognizione fatti a sè favorevoli. Il contribuente può seguire due vie: limitarsi a contestare i fatti posti a base della rettifica, fornendone in giudizio la controprova, vertente sul medesimo thema probandum delimitato dall’ufficio, oppure ampliare il thema probandum.
Il preteso onere di prova contraria, posto a carico del contribuente nella sentenza che qui si annota, è solo – più propriamente – un onere di contrasto della prova offerta in concreto da una parte processuale e non derivante dalla legge: l’onere della prova rimbalza – per così dire – sul contribuente, senza però costituire un onere di prova contraria in senso tecnico.
In conclusione, non si tratta di uno sviluppo del meccanismo di ripartizione dell’onere della prova, ne’ per effetto della regola generale di cui all’art. 2697 c.c., ne’ per effetto di una sua inversione, bensì della normale dialettica tra prova e controprova, interiore al giudizio sul fatto ed ancorata al principio di ragionevolezza.
Tali precisazioni confermano che la natura di presunzione semplice o legale incide sull’oggetto della prova che il contribuente deve opporre all’amministrazione.
Mentre infatti, trattandosi di presunzioni semplici “il contribuente che voglia contestare il risultato delle presunzioni medesime ha l’onere di attivarsi e di mostrare o l’impossibilità di utilizzare le presunzioni in quella fattispecie o l’inaffidabilità del risultato ottenuto attraverso le presunzioni, eventualmente confermando al contempo con altre presunzioni la validità del suo operato223 “, diverse sono le opzioni per il contribuente nel caso di presunzione legale, come lucidamente evidenzia FANTOZZI224 (il quale, come già riferito, parla di presunzioni relative “sui generis”).
Il fatto noto è costituito dalle caratteristiche strutturali dell’attività d’impresa rilevanti ai fini dell’applicazione degli studi di settore (ad esempio: superficie produttiva, numero di addetti, consumo energetico ecc.), mentre il fatto ignoto è costituito dall’ammontare dei ricavi conseguiti nel periodo d’imposta. Da tale struttura emergono due caratteristiche peculiari:
l) la regola d’esperienza che collega il fatto noto al fatto ignoto è l’idea che, se le attività analoghe hanno mediamente un certo ammontare di ricavi, anche l’attività verificata ha quell’ammontare di ricavi;
2) l’applicazione di tale regola d’esperienza, cioè la selezione delle caratteristiche strutturali in base alle quali qualificare le attività come analoghe, il calcolo dei ricavi medi e quant’altro, non è rimessa all’ufficio (prima) e al giudice (poi), ma è automatizzata, cioè è assorbita in una funzione
statistico-matematica stabilita da appositi decreti ministeriali. Le peculiarità del meccanismo presuntivo in discorso rendono ben difficile parlare di adeguamento al caso concreto e circoscrivono le possibilità di prova contraria ai soli fatti che rendono inapplicabile la presunzione.
Infatti, atteso che nell’impianto legislativo lo studio di settore supera le risultanze contabili ed esclusa la probatio diabolica (la prova di non aver conseguito maggiori ricavi), il contraddittorio potrebbe investire la persuasività della funzione statistica individuata dal decreto ministeriale sotto il duplice profilo:
– della correlazione statistica individuata dal decreto ministeriale. Tuttavia, sembra inverosimile che il contribuente possa contestare la metodologia statistica di costruzione della correlazione, non solo in quanto non disporrebbe dei dati necessari, ma anche in quanto ciò sarebbe in netto contrasto con la previsione legislativa che affida le determinazioni statistiche alla normativa attuativi;
– della selezione delle caratteristiche rilevanti per l’analogia tra attività. Invero, sebbene in linea di principio gli studi di settore configurino un sistema esaustivo, prevedendo anche le cause di esclusione, nella pratica la “prova contraria” sembra configurarsi sempre nel modo seguente: allegazione di specifiche circostanze “negative” relative all’attività d’impresa soggetta a controllo, non considerate dallo studio di settore tra le caratteristiche rilevanti o tra le cause di esclusione, ma tali da far pensare che non sia ragionevole l’analogia tra l’attività soggetta a rettifica e quella “normale” considerata dallo studio di settore.
In conclusione, quindi, può dirsi che in concreto la “prova contraria” non può attenere all’effettivo ammontare dei ricavi, bens alla circostanza che lo studio di settore non è ragionevole in un determinato caso, poiché non tiene conto di una o più circostanze specifiche che escludono l’attività d’impresa dalla “normalità” in esso considerata. In altri termini la “prova contraria” non è volta a dimostrare l’insussistenza del fatto ignoto (l’ammontare dei ricavi), bens a confutare la ricorrenza del fatto noto (l’analogia tra l’attività considerata e quella “normale”). Sotto il profilo concettuale ne deriva che la presunzione in discorso (cioè l’attività “normale” ha ricavi pari a quelli medi delle attività analoghe) è di fatto insuscettibile di prova contraria, potendosi confutare soltanto il presupposto della presunzione (la normalità” dell’attività soggetta a controllo).
D’altra parte, è chiaro che, cos come il contraddittorio probatorio può riguardare le circostanze che rendono inapplicabile la presunzione e non già l’ammontare effettivo dei ricavi, non pare possa aver un senso diverso il preteso adeguamento delle risultanze degli studi di settore alle caratteristiche del caso concreto. L’ufficio potrà valutare se le particolari circostanze del caso concreto rendono inapplicabile la presunzione, ma non si vede in quale modo potrebbe adeguarne il risultato numerico; posto che i ricavi stimati dallo studio di settore costituiscono il risultato di funzioni matematiche ricavate dall’esame statistico di una massa di dati, l’ufficio, non potendo rielaborare lo studio di settore, potrebbe adeguarne i risultati soltanto “ad occhio”, ciò che parrebbe illogico, oltre che del tutto estraneo al sistema normativo. Le maggiori difficoltà per il contribuente sul piano probatorio nel caso di qualifica degli accertamenti in esame come presunzioni legali, viene evidenziata da NICCOLINI225.
Pur essendo evidente, sotto un profilo teorico, come non si possa ritenere che l’esistenza di norme che consentano di accertare il reddito in modo presuntivo, possa far mutare il presupposto è altrettanto evidente che i metodi di accertamento presuntivo determinano, sul piano degli effetti, una difesa più difficoltosa per il contribuente ed altresì il superamento dell’efficacia probatoria delle scritture contabili. Ebbene, tale difesa sarebbe ancor più complessa, e praticamente impossibile, ove si voglia riconoscere che il mero scostamento dagli studi sia di per sè sufficiente non solo a giustificare l’accertamento, ma altresì a costituirne fondamento sul piano probatorio, comportando in capo al contribuente un’inversione dell’onere probatorio praticamente “diabolica”.
Il contribuente potrebbe, infatti, contestare la specifica determinazione dei compensi derivante dall’applicazione degli studi di settore, dimostrando di trovarsi in una delle cause di esclusione previste dalla norma, ovvero la erroneità dei risultati inferenziali a lui imputati, ma sarebbe impossibilitato dal provare la correttezza e la validità del reddito autoliquidato semplicemente esibendo le scritture contabili che lo strumento degli studi di settore intende superare attraverso elementi presuntivi. Quanto alla possibilità per il contribuente di contestare le risultanze degli accertamenti presuntivi, ricorda NICCOLINI come la dottrina che ne sostiene la natura di presunzione legale ammette la possibilità di impugnare davanti al giudice amministrativo i decreti ministeriali di approvazione (aventi ad oggetto atti amministrativi generali) ovvero di chiedere la disapplicazione, in presenza di tali vizi, al giudice tributario, ma conclude che, altrimenti, tali atti sono vincolanti per il contribuente, a tal punto da limitarne la prova contraria226.
Peraltro, la natura della presunzione, se incide sull’oggetto della prova a carico del contribuente, non rileva ai fini dei mezzi di prova, in quanto anche la prova contraria a una presunzione relativa può essere data, nel silenzio della legge, con ogni mezzo ammesso dal diritto (libertà della prova contraria), ivi comprese le presunzioni semplici227.
In diverse circolari l’Agenzia delle Entrate ha fornito istruzioni quanto alle modalità di svolgimento del contraddittorio ed agli elementi che può fornire il contribuente (si rinvia alla circ. n. 5/E del 2008, riportata in estratto al paragrafo 5.b. e nel testo integrale in All. 2.5.).
In dottrina, una ricostruzione sistematica degli spazi probatori praticabili dal contribuente è svolta da GARBARINO 228. In primo luogo il contribuente può contestare tout-court l’applicabilità a se stesso degli studi di settore. In secondo luogo, il contribuente può contestare il contenuto induttivo dello studio di settore.
Con riferimento alle presunzioni degli studi di settore ed alle possibili controprove è infatti essenziale distinguere tra giustificazione “esterna” e giustificazione “interna” . In concreto il controllo della raz onal tà/legittim tà del provvedimento impositivo giustiziale fondato sugli studi di settore si accentra, da un lato, sulla giustificazione esterna, cioè nell’individuazione delle norme che pongono le condizioni all’applicabilità degli studi di settore, e, dall’altro lato, sulla giustificazione interna, cioè sul nucleo del ragionamento presuntivo in relazione al caso concreto. Da ciò consegue che l’ambito delle prove contrarie adducibili dal contribuente può alternativamente avere ad oggetto le condizioni a cui la legge subordina l’applicabilità degli studi di settore (la giustificazione esterna), ovvero la sequenza delle inferenze (la giustificazione interna). Il contribuente può quindi dimostrare l’infondatezza delle pretese dell’ufficio dimostrando che gli studi di settore non sono a sè applicabili per carenza di giustificazione esterna, senza dover provare la carenza di giustificazione interna Per quanto riguarda le prove del contribuente avverso la giustificazione esterna degli studi di settore pare opportuno distinguere tra le norme che recano le condizioni soggettive di applicabilità degli studi di settore e le norme che sanciscono le cause di esclusione e di non applicabilità degli stessi. Si omette, per brevità, la disamina di questi aspetti, per limitarsi a notare che è ammissibile un’ampia gamma di prove. Sono dunque, in primo luogo, validamente utilizzabili le risultanze extracontabili, e cioè le prove di fatti non desumibili dalle scritture contabili, con cui il contribuente dimostri di versare in condizione “anormale” rispetto alle premesse da cui muovono gli studi, e di essere quindi un contribuente marginale, vuoi per non aver svolto le attività produttive per periodi più o meno lunghi, vuoi per difetto di qualsivoglia altra precondizione di applicabilità. Sono utilizzabili a tal fine sia prove presuntive che documentali, che prove testimoniali (ma permane la formale preclusione riguardo al ricorso ad esse nel processo)
Il contribuente nella sede giustiziale può estendersi anche a confutare la giustificazione interna, cioè il merito dei nessi inferenziali del ragionamento pratico addotto dall’Amministrazione finanziaria, avvalendosi di prove indirette od dirette, e quindi anche delle scritture contabili229. I punti nei riguardi dei quali il contribuente può fornire prova contraria in sede giustiziale possono essere raggruppati in due oggetti di prova. Un primo oggetto di prova è costituito dal nucleo probatorio induttivo, cioè la struttura della funzione di ricavo. Un secondo oggetto di prova è costituito dalla determinazione dei ricavi del contribuente. Siffatta contesa probatoria può poi riversarsi in sede giurisdizionale qualora la tutela giustiziale non abbia esito positivo.
Il primo oggetto di prova riguarda la struttura della funzione di ricavo, che è il nucleo del ragionamento presuntivo. Essa, come si è detto, ricostruisce attraverso una funzione di regressione multipla il rapporto tra le variabili indipendenti costituite dalla struttura produttiva del contribuente e la variabile dipendente, i ricavi così rideterminati. Questa funzione non è una prova diretta di un fatto ma soltanto il frammento a contenuto induttivo di un apparato probatorio induttivo più ampio, costituito dallo studio di settore nella sua generalità. Il contribuente può quindi offrire controprova adducendo la illogicità/illegittimità del contenuto della funzione che costituisce il nucleo del ragionamento induttivo adottato, e per far ciò deve contestare la struttura dello studio di settore.
Il secondo oggetto di prova riguarda l’attribuzione dei ricavi presunti allo specifico contribuente mediante la cd. analisi discriminante, che consente di associare ogni soggetto ad uno dei gruppi omogenei individuati per la sua attività attraverso la definizione di una probabilità di appartenenza a ciascuno dei gruppi stessi. Anche questo è un frammento a contenuto induttivo di un apparato probatorio induttivo più ampio; tuttavia esso non costituisce un passo da cui conseguono altri, ma è la fase terminale del processo specificamente attagliata al contribuente. Il contribuente può quindi contestare la logica con cui si perviene all’attribuzione dei ricavi specificamente a sè stesso, ma nel fare ciò non contesta lo studio di settore nella sua globalità (come avviene invece nell’ambito del primo oggetto di prova). In particolare il contribuente può addurre controprove alla pretesa induttività della cd. analisi discriminante con cui lo studio di settore valuta le probabilità di un certo soggetto di appartenere a più clusters. La formula statistica adottata a tali fini non è infatti prova diretta del fatto (la effettiva appartenente a quel cluster) e quindi il contribuente può offrire controprova adducendo elementi in relazione alla illogicità/illegittimità di essa. 5.e.3. La motivazione dell’atto di accertamento.
La verifica dell’ incidenza sulla motivazione dell’atto di accertamento della qualificazione degli studi di settore quali presunzioni semplici o legali relative, è stata di rado affrontata in dottrina.
Nega rilevanza la circolare n. 4/ir del 14 luglio 2008 del Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti ed Esperti contabili. “Stante l’unicità di ratio della motivazione in materia di accertamento, la qualificazione degli studi di settore quali presunzioni semplici o legali relative, che sicuramente ha una notevole influenza sul profilo probatorio, non condiziona invece il distinto piano della motivazione, quanto alla sua obbligatorietà e al suo contenuto minimo essenziale. L’utilizzo di uno strumento presuntivo da parte dell’amministrazione ai fini della determinazione di un maggior reddito, infatti, a prescindere dalla tipologia e dai requisiti giuridici, non esenta la stessa dall’obbligo di fornire in sede procedimentale, nel corpus dell’atto, gli elementi che sono alla base dell’inferenza logica sottesa al disconoscimento dei valori dichiarati dal contribuente. (…) Qualora, infatti, l’ufficio si limitasse a motivare l’atto di accertamento con il mero scostamento dei dati dichiarati dalle risultanze degli studi di settore, si impedirebbe al contribuente di ricostruire l’iter logico-giuridico sotteso all’emissione dell’atto, annullando di fatto la sua possibilità di difesa, resa oltremodo difficile dalla circostanza che lo stesso è chiamato a dimostrare il fatto negativo di non aver conseguito ricavi o compensi pari (o maggiori) rispetto a quelli risultanti dalle medie statistiche di settore”.
In altri casi, ferma restando la necessità, in entrambe le opzioni, di un contenuto minimo della motivazione, si cerca di cogliere una distinzione a seconda della natura di presunzione legale o semplice degli studi di settore (ma la questione si pone in termini identici anche per gli altri accertamenti standardizzati).
E così NICCOLINI230, rileva che la qualificazione degli studi di settore quali presunzioni semplici o legali relative hanno una influenza sul profilo probatorio, ma non condiziona l’obbligo ed il contenuto minimo essenziale della motivazione, che però, nella prospettiva della natura degli studi quali presunzioni semplici, deve estendersi agli elementi acquisiti in sede istruttoria L’utilizzo di uno strumento presuntivo da parte dell’Amministrazione ai fini della determinazione di un maggior reddito, infatti, a prescindere dalla tipologia e dai requisiti giuridici, non esenta la stessa dall’obbligo di fornire in sede procedimentale, nel corpus dell’atto, gli elementi che sono alla base dell’inferenza logica sottesa al disconoscimento dei valori dichiarati dal contribuente. La motivazione rappresenta infatti un requisito essenziale dell’atto di accertamento a prescindere dalla metodologia utilizzata dall’amministrazione, che al più può influire sul contenuto della motivazione stessa, senza però lederne il minimo essenziale per garantire al contribuente la conoscenza delle ragioni sottese alla maggiore pretesa, la possibilità di contraddirle in sede contenziosa ed il controllo del corretto svolgimento dell’attività svolta dall’amministrazione stessa, nel rispetto dei principi di trasparenza, collaborazione e buon andamento della pubblica amministrazione.
Ciò premesso, la motivazione non può in alcun modo essere superflua nelle ipotesi in cui l’ufficio ricorra a strumenti presuntivi di determinazione del reddito, anche nel caso in cui questi si qualifichino come presunzioni legali.
Altro è, in sostanza, Diverse sono, invece, le considerazioni sotto il profilo probatorio, nel senso che di fronte al giudice ed al convincimento di questi circa, la fondatezza di un accertamento fondato su indici presuntivi, un rilievo più pregnante assume la natura della presunzione utilizzata dall’ufficio quale semplice o legale relativa, in quanto da tale qualificazione giuridica dipende la ripartizione dell’onere della prova.
L’adesione alla tesi della presunzione legale relativa, infatti, prevede soltanto un esonero dall’onere della prova per l’ufficio ma non comporta anche un esonero dall’obbligo di motivazione. La circostanza che l’ufficio non sia tenuto a raccogliere in sede istruttoria ulteriori elementi indiziari, significa che l’accertamento può fondarsi soltanto sui risultati degli studi di settore, ma non significa che l’applicazione di tali studi al caso concreto non vada motivata. Sul piano della motivazione, quindi, ciò su cui influisce la qualificazione degli studi in un senso piuttosto che in un altro, è, quindi, entro certi limiti, il contenuto, non l’obbligo.
Qualora si ritenesse sufficiente ai fini della motivazione dell’accertamento il mero richiamo agli studi di settore, si impedirebbe al contribuente di ricostruire l’iter logico-giuridico sotteso all’emissione dell’atto, annullando di fatto la sua possibilità di difesa, resa oltremodo difficile, nel caso del riconoscimento agli, studi di valore di presunzioni legali relative, dal fatto che lo stesso, in attuazione del principio di inversione dell’onere della prova, è chiamato a dimostrare il fatto negativo di non aver percepito un reddito pari (o maggiore) rispetto a quello risultante dalle medie statistiche di settore, oppure l’insussistenza del fatto noto.
Se non si ritenesse necessario l’obbligo di motivazione anche in questa ipotesi, perderebbe altresì di ogni rilevanza la previsione di un contraddittorio preventivo obbligatorio, da effettuarsi prima della rettifica del reddito. L’obbligatorietà di tale confronto tra l’A.F. ed il contribuente in sede procedimentale, infatti, esclude ogni possibilità di applicazione acritica degli studi di settore da parte dell’ufficio anche quando si voglia attribuire agli stessi valore di presunzione legale relativa231.
La previsione da parte della norma di una necessaria fase del contraddittorio, in cui il contribuente espone la propria specifica situazione, conferma il principio in base al quale, a prescindere dalla tesi interpretativa cui si intende aderire, in ogni caso gli studi di settore necessitano di una integrazione e di un adattamento in sede procedimentale che può, a volte, condurre a risultati ben differenti rispetto a quelli che si otterrebbero da una diretta applicazione degli stessi, in assenza di un confronto con il contribuente232.
L’ufficio, in ogni caso (sia qualora si aderisca alla tesi degli studi di settore quale presunzione semplice, che a quella di presunzioni legali relative), non solo dovrà valutare le argomentazioni addotte dal contribuente in sede di contraddittorio e motivare in merito alle ragioni che lo hanno portato a disattenderle ed a ritenere comunque “effettivo” il maggiore volume d’affari determinato in base all’applicazione degli studi di settore, ma dovrà altresì evidenziare nell’atto le ragioni per le quali ha ritenuto gravi le incongruenze rilevate tra i ricavi dichiarati dal contribuente.
Alla luce del disposto normativo e delle stesse interpretazioni fornite dall’Amministrazione finanziaria, infatti, non appare sufficiente una qualsiasi incongruenza tra i dati dichiarati e quelli risultanti. dallo studio di settore, perché quest’ultimo possa essere applicato tous court, bensì detto scostamento deve essere tale da qualificare l’incongruenza come “grave”, con la conseguenza che l’ufficio dovrà, nella motivazione dell’atto, indicare i criteri in base ai quali ha ritenuto e valutato “grave” lo scostamento.
Quello appena delineato, è, in definitiva, il “minimo comun denominatore” della motivazione di un atto di accertamento basato sugli studi di settore, indipendentemente dalla qualifica giuridica di questi ultimi.
L’unica precisazione da fare è che nel caso in cui si voglia considerarli presunzioni semplici, o ancor più meri indizi, tale contenuto minimo deve estendersi agli ulteriori elementi acquisiti in sede istruttoria che, unitamente agli studi, hanno condotto alla presunzione di evasione da parte del contribuente accertato, al disconoscimento della veridicità delle dichiarazioni da questi effettuate e, quindi, alla rettifica del reddito dallo stesso dichiarato. E questo sembra essere l’orientamento cui più recentemente ha aderito la stessa Amministrazione finanziaria233. Più diffuso sulla diversa ampiezza della motivazione a seconda delle due opzioni alternative, GIOÈ 234 il quale, precisato che “in nessuno dei due casi l’obbligo di motivazione potrà ritenersi soddisfatto dal mero rinvio ai dati delle elaborazioni ministeriali, senza che venga fornito alcun elemento a supporto
dell’applicabilità di tali dati alla fattispecie concreta”, così ricostruisce l’ampiezza della motivazione nell’alternativa tra valore di presunzione legale o semplice degli accertamenti in esame. L’adesione alla tesi che attribuisce agli studi di settore valore di presunzione legale relativa se indubbiamente restringe il contenuto della motivazione, non elimina, tuttavia, la necessità di un suo contenuto minimo obbligatorio.
La motivazione rappresenta un elemento essenziale di tutti gli atti di accertamento e non può considerarsi superflua nell’ipotesi di ricorso a strumenti presuntivi di determinazione del reddito, quand’anche ad essi si attribuisca il valore di prova legale. L’adesione alla tesi della presunzione legale relativa prevede soltanto un esonero dall’onere della prova per l’ufficio, ma non comporta anche un esonero dall’obbligo di motivazione. In altri termini, la circostanza che l’ufficio non sia tenuto a raccogliere in sede istruttoria ulteriori elementi indiziari, significa che l’accertamento può fondarsi soltanto sui risultati degli studi di settore, ma non significa che l’applicazione di tali studi al caso concreto non vada motivata.
L’inversione dell’onere probatorio rende già estremamente precaria la possibilità di difesa del contribuente, chiamato a dimostrare il fatto negativo di non aver percepito un reddito pari (o maggiore) rispetto a quello risultante dalle medie statistiche di settore. Qualora si ritenesse sufficiente ai fini della motivazione dell’accertamento il mero richiamo agli studi di settore, si impedirebbe al contribuente di ricostruire l’iter logico-giuridico sotteso all’emissione dell’atto, annullando di fatto la sua già difficile possibilità di difesa.
Se non si ritenesse sussistente l’obbligo di motivazione anche in questa ipotesi (che attribuisce valore di presunzione legale agli studi di settore), perderebbe di ogni rilevanza la previsione di un contraddittorio preventivo obbligatorio, da effettuarsi prima della rettifica del reddito.
Tale previsione, invero, esclude ogni possibilità di applicazione acritica degli studi di settore da parte dell’ufficio. I dati forniti dagli strumenti presuntivi di determinazione del reddito non hanno una valenza definita e necessitano di una integrazione in sede applicativa che può condurre a risultati del tutto differenti da quelli derivanti da una semplice e non vagliata utilizzazione della metodologia di ricostruzione dei ricavi o dei compensi in essi contenuta.
L’ufficio dovrà valutare le argomentazioni addotte dal contribuente per spiegare la differenza esistente tra l’ammontare dei ricavi dichiarato e quello risultante, in via presuntiva, dagli studi di settore ed esporre in motivazione le ragioni per le quali, eventualmente, abbia ritenuto di non accogliere i rilievi mossi all’accertamento.
Inoltre, sempre nella motivazione, dovranno essere evidenziate le valutazioni che hanno condotto l’ufficio a ritenere gravi le incongruenze rilevate tra i ricavi dichiarati e i ricavi risultanti dall’applicazione degli studi di settore. Non è sufficiente, infatti, una qualsiasi incongruenza tra i dati dichiarati e quelli risultanti dallo studio, perché questi ultimi possano essere applicati tout court, ma è necessario che lo scostamento sia tale da poter qualificare l’incongruenza come “grave” .
Poiché nell’accertamento basato sugli studi di settore la soglia di scostamento non è predeterminata dalla legge, ma è lasciata all’apprezzamento dell’ufficio, la motivazione dell’atto impositivo dovrà render conto dei criteri sulla base dei quali l’incongruenza è stata valutata grave.
Come si vede, pertanto, anche nel caso in cui si attribuisca agli studi di settore valore di prova legale relativa sussiste un preciso obbligo di motivazione dell’accertamento, dal quale l’ufficio non può prescindere, che potrà ritenersi soddisfatto soltanto con l’esplicazione, nel corpo del provvedimento, delle ragioni che hanno indotto a disattendere le argomentazioni sollevate dal contribuente in sede di contraddittorio e dei criteri sulla base dei quali l’incongruenza (tra reddito dichiarato e reddito risultante dagli studi) è stata ritenuta grave.
L’adesione alla tesi che attribuisce agli studi di settore valore di elementi atti a fondare presunzioni semplici comporta un ampliamento del contenuto obbligatorio della motivazione.
In questo caso, l’ufficio dovrà dar conto degli elementi acquisiti in sede istruttoria, che, unitamente ai risultati degli studi, hanno condotto alla rettifica del reddito dichiarato dal contribuente. La motivazione, in altri termini, non potrà limitarsi alla valutazione delle risultanze del contraddittorio e della eventuale gravità dello scostamento riscontrato, ma dovrà estendersi anche alla puntuale indicazione di tutti gli altri indizi che, insieme alle evidenze fornite dagli studi di settore, hanno condotto in modo univoco alla presunzione di evasione da parte del soggetto accertato e al disconoscimento della veridicità delle dichiarazioni da questi effettuate.
Si ritiene che, a tal fine, non possa considerarsi sufficiente la mera esposizione dei presupposti di fatto e delle ragioni giuridiche su cui si basa l’accertamento, ma sia necessario indicare anche gli specifici elementi idonei a dimostrare tali presupposti . La prova dei fatti posti a fondamento della pretesa, in altri termini, dovrà trovare, anche in questo caso, specifica evidenziazione nell’atto, e non potrà essere fornita successivamente dall’amministrazione in sede contenziosa. Com’è noto, la nozione di prova attiene al processo, non al procedimento. In sede di accertamento deve, piuttosto, aversi riguardo alla nozione di motivazione.
Altra questione dipendente dalla natura di presunzione semplice o legale è se quest’ultima dispensi l’Amministrazione dal c.d. onere di allegazione (cioè l’onere dell’affermazione dell’esistenza del fatto da provare), così posta da CORASANITI235.
Il sistema di allegazione che prevede l’onere di allegazione delle parti preclude al giudice di tenere conto di un fatto, se la parte che vi ha interesse non lo ha fatto valere, indicandolo nella domanda o, salvo limiti e preclusioni, nel prosieguo del giudizio. Il problema è se dalla natura delle presunzioni legali derivino effetti sulla portata di tale onere. Quanto al procedimento amministrativo di imposizione la questione della allegazione non ha un significato autonomo rientrando nel dovere di motivazione degli atti dell’ufficio: l’art. 42, 2 comma del d.p.r. n. 600 del 1973 richiede che la motivazione deve comprendere la analitica esposizione dei fatti posti a fondamento del provvedimento emanato. Per quanto riguarda, invece, il contenzioso tributario, l’onere di allegazione lo si ricava dall’art. 7 del d.lgs. n. 546 del 1992 (natura dispositiva del processo in ordine alla allegazione dei fatti oggetto della decisione).
Conseguentemente se la presunzione legale va considerata una norma sostanziale che definisce la fattispecie impositiva non si pone alcun problema di allegazione del fatto presunto, in quanto, una volta provato il fatto noto, il giudice è immediatamente vincolato a ritenere sussistente il fatto presunto, salvo ovviamente, nell’ipotesi di presunzioni relative, la valutazione dell’eventuale prova contraria fornita dal contribuente. Se, invece, alla norma che prevede la presunzione legale viene riconosciuta natura di norma processuale, in quanto inverte l’onere della prova sul fatto presunto o ne fornisce la prova legale, vigendo la regola della allegazione dei fatti oggetto della decisione del giudice, quest’ultimo non potrà tener conto del fatto presunto se non è stato allegato dalle parti con la conseguenza che la presunzione vincolerebbe il giudice solo dopo che è stato allegato il fatto da presumere.
Lo stesso A. riconosce però che “la Corte di Cassazione (Sez. trib., 28 maggio 2005, n. 1797), sebbene con riferimento alla diversa problematica dell’applicabilità degli studi di settore anche per il passato, ha chiarito che la norma contenuta nell’art. 62-bis, d.l. n. 331 del 1993, ha natura procedimentale (e come tale applicabile anche ai periodi di imposta anteriori alla sua entrata in vigore)” e sottolinea che” si tratta, in realtà, più di un problema teorico che pratico, in quanto è rarissimo che l’Amministrazione finanziaria non indichi il fatto presunto decisivo per il giudizio e, comunque, è sempre possibile ritenere l’allegazione del fatto presunto implicita in quella del fatto noto”. 5.f. Il dibattito sulla costituzionalità della disciplina degli studi di settore.
Anche in tema di rispondenza della disciplina degli studi di settore ai parametri costituzionali, si registrano posizioni diversificate in dottrina (la Corte costituzionale non è stata chiamata ad affrontare la questione).
CORASANITI236, precisa che
per quanto concerne il problema della rispondenza della presunzione ai principi costituzionali posti dagli artt. 3, 23, 24, 53 e 111 della Costituzione occorre distinguere i differenti aspetti di costituzionalità a seconda della ratio alla quale le presunzioni si riportano. Se la presunzione definisce elementi di struttura della fattispecie tributaria dovrà essere giudicata alla luce del principio di capacità contributiva e del principio di uguaglianza:
l’art. 53 Cost. impone, infatti, che il prelievo tributario sia correlato a un fatto suscettibile di valutazione economica, fatto assunto alla base di un tributo che deve essere necessariamente indice concretamente rilevatore di ricchezza, imponendo, per il combinato disposto dell’art. 3 Cost., un carico fiscale equivalente in presenza di capacità contributiva equivalente e un carico differenziato per capacità differenziata (cfr. Corte cost., 7 luglio 1962, n. 87).
Se, invece, la disposizione che stabilisce la presunzione va considerata una norma di natura procedurale, poiché concerne rapporti o situazioni che riguardano l’accertamento oppure la riscossione, la normativa che la prevede, pur avendo la funzione di facilitare la percezione del tributo, attua principalmente il principio costituzionale di tutela dei diritti e degli interessi contenuto negli arti. 24 e 111 Cost. Sul punto cfr. Trimeloni, Le presunzioni tributarie, in Amatucci (a cura di), Trattato di diritto tributario, II, Padova, 1994, 276.
Diversamente, in linea generale si può sostenere che un problema di legittimità costituzionale relativamente al principio di effettività della capacità contributiva ex art. 53 Cost. non si ponga per le presunzioni legali relative in quanto queste ultime, pur esonerando il Fisco dall’onere di fornire la prova del fatto presunto, consentono al tempo stesso al contribuente che non abbia la capacità contributiva presunta dalla legge, di dimostrare che tale capacità non esiste. Occorre, però, che tale inversione non ponga a carico del contribuente una prova impossibile (probatio diabolica) (In tal senso cfr. G. Falsitta, Manuale di diritto tributario, Parte generale, Padova, 2005, 156). Difatti, nello stabilire una presunzione legale si può ritenere che il Legislatore abbia voluto cristallizzare una regola di esperienza consolidata, alleggerendo l’impegno probatorio del soggetto cui spetterebbe secondo le regole comuni. Tuttavia, un problema di conformità al criterio costituzionale di ragionevolezza dovrebbe porsi tutte le volte in cui la presunzione posta dalla legge non abbia, sin dall’inizio, un fondamento probabilistico (non si basi, cioè, sulla valutazione dell’id quod plerunique accidit) e, pertanto, non corrisponda al dato reale. Un breve cenno va poi fatto ad eventuali profili di incostituzionalità con riferimento agli artt. 24, 111 ed, in ogni caso, all’art. 53 Cost., delle norme che nello stabilire delle presunzioni legali relative non solo invertono l’onere della prova ma alle volte limitano anche il diritto alla prova contraria o con riguardo al tipo di mezzi di prova utilizzabili, o con riguardo all’oggetto della prova.
La questione consiste nello stabilire se una norma che inverta la “normale” ripartizione dell’onere probatorio stabilito dall’art. 2697 c.c., possa comportare una lesione del diritto di difesa ex art. 24 Cost. nonché anche del principio del giusto processo ex art. 111 Cost. nel senso di una lesione del principio della parità delle parti processuali. Tale principio per poter essere inteso nel suo reale significato, va combinato con il disposto dell’art. 3 Cost.: solo a parità di condizioni vanno riconosciuti uguali poteri; la parità non va, pertanto, riconosciuta in astratto, ma in concreto. Conseguentemente, la previsione di una presunzione relativa che in astratto sarebbe una negazione di tale principio, in quanto avvantaggerebbe una parte, sarebbe in grado dì evitare l’illegittimità costituzionale, qualora in concreto tale inversione dell’onere probatorio risulti essere ragionevole ed è ragionevole ogni qualvolta in presenza del fatto noto il fatto presunto sia probabile (cfr. sent. Corte cost., 1 luglio 2002, n. 332). A ciò va aggiunto che una siffatta presunzione, in quanto potrebbe arrivare a configurare una definizione del presupposto imponibile, potrebbe far sorgere dubbi di contrasto anche con l’art. 53 Cost., poiché, pur essendo apparentemente una norma procedurale, essa potrebbe finire con l’incidere sulla dimensione del sacrificio imposto al contribuente fino al punto di determinare prelievi fiscali non consentiti. In tal senso cfr. G. Gaffuri, I metodi di accertamento fiscale e le regole costituzionali, in Scritti in onore di V. Uckmar, I, Padova, 1997, 544 e ss.
Al contrario, seri problemi di legittimità costituzionale in riferimento all’art. 53 Cost. pongono le presunzioni assolute. Dottrina e giurisprudenza hanno più volte ribadito la necessarietà del requisito della effettività della capacità contributiva, nel senso che il fatto previsto dalla legge deve realmente essere indice di capacità contributiva e realmente ricollegabile al soggetto passivo. Conseguentemente, dubbia è la congruità a tali principi delle presunzioni tributarie assolute. La dottrina (cfr. G. Falsitta, Appunti in tema di legittimità costituzionale delle presunzioni fiscali, in Riv. dir. fin., 1968, II, 3 e ss.) ha tendenzialmente negato la legittimità costituzionale sia per le presunzioni concernenti l’esistenza del presupposto, sia per quelle relative alla determinazione della base imponibile, in quanto anche per il quantum la presunzione di elementi probabili dovrebbe sempre ammettere la prova contraria; la giurisprudenza costituzionale più risalente (cfr. Corte cost., 12 luglio 1969, n. 109) ha, in taluni casi, ritenuto che tali presunzioni si potessero giustificare sulla base del loro rispondere a canoni probabilistici. Tuttavia, tale argomentazione è stata criticata dalla giurisprudenza della stessa Corte costituzionale (cfr. Corte cost., 28 luglio 1976, n. 200) in quanto se, nella realtà, un fatto non ne implica necessariamente un altro, la legge deve necessariamente tenerne conto consentendo la prova contraria.
Questi brevi cenni sono già in grado di far comprendere come mai le previsioni di presunzioni assolute in materia tributaria siano poche, anche a seguito di varie pronunzie di incostituzionalità che hanno eliminato dal mondo giuridico norme tributarie che prevedevano delle presunzioni assolute (ad esempio la presunzione di liberalità in tema di imposta di registro ex art. 26, 1 comma, del d.p.r. n. 131 del 1986) e fa comprendere anche la tendenza giurisprudenziale a classificare, in assenza di specifiche indicazioni, le presunzioni disposte dalla legge come iuris tantum, essendo più facile salvare norme che prevedono presunzioni relative rispetto a quelle che prevedono presunzioni assolute (cfr., ex multiis, Corte cost., 15 aprile 1993, n. 164).
FANTOZZI 237 afferma che la disciplina sugli studi di settore è in linea con i criteri dettati dalla Corte costituzionale in materia di accertamenti presuntivi.
Sotto il profilo della legittimità costituzionale siffatti strumenti di accertamento tendenzialmente globale del reddito d’impresa sono stati criticati in quanto sarebbero intrinsecamente inidonei a costituire una presunzione, anziché una
predeterminazione della base imponibile238.
In senso nettamente opposto si è invece osservato che nell’evoluzione del pensiero della Corte costituzionale anche una presunzione assoluta e financo una forfetizzazione del presupposto non sarebbero in contrasto con l’art. 53 Cost. 239.
Invero, tale ultima posizione, se non nella parte in cui considera ormai pacifica la legittimità costituzionale della forfettizzazione del presupposto, certamente corrisponde agli orientamenti della Corte costituzionale sull’ammissibilità di strumenti presuntivi come gli studi di settore.
Con giurisprudenza costante relativa al principio di capacità contributiva la Corte ha sempre affermato la legittimità di presunzioni, forfettizzazioni e parametrizzazioni utilizzate dal legislatore in funzione probatoria del presupposto impositivo, riconoscendo al legislatore un’ampia discrezionalità nella scelta degli indici, purché “non irragionevoli”, “fondati su indici rivelatori di ricchezza”, confortati cioè “da elementi concretamente positivi” che li “giustifichino razionalmente”, alla luce dell’id quod plerumque accidit e delle esigenze di tutela dell’interesse fiscale240.
Con la sentenza 7 luglio 1987, n. 283, in materia di accertamenti induttivi ex art. 38, comma 4, d.P.R. 600/1973, la Corte ha esposto compiutamente il proprio orientamento 241 sull’utilizzo di coefficienti presuntivi per la determinazione del reddito. In particolare la Corte ha affermato che la previsione di prove legali per la determinazione dell’an e del quantum del presupposto dell’obbligazione tributaria:
– mira a tutelare l’interesse generale alla riscossione dei tributi contro le evasioni;
– non comporta l’attribuzione di una base fittizia all’imposizione;
– è insindacabile in sede di giudizio di costituzionalità, anche se si tratta di presunzioni assolute, purché la scelta dei meccanismi probatori non trasmodi in palese arbitrarietà o irrazionalità.
Circoscrivendo il proprio giudizio ad un controllo di ragionevolezza degli indici presuntivi prescelti, la Corte lo ha comunque esercitato con particolare cautela ed attenzione verso le prerogative del legislatore, giungendo ad un giudizio di incostituzionalità in ben pochi casi.
Un pertinente esempio di “irragionevolezza” che ha condotto la Corte a ritenere l’utilizzo di un indice presuntivo in violazione del principio di effettività della capacità contributiva può rinvenirsi nella sentenza 27 febbraio 1991, n. 103, relativa alla formulazione originaria della disciplina dell’ICIAP. In tal caso, la Corte ha ritenuto che la determinazione presuntiva del volume d’affari sulla base del solo indice presuntivo della superficie dei locali andasse oltre la ragionevolezza in considerazione della “unicità” dell’indice e della esclusione della prova contraria. Tuttavia, nelle determinazioni della Corte, mentre l’unicità di un indice presuntivo può determinare la violazione del principio di capacità contributiva quando è assunto a presunzione assoluta, tale conseguenza è esclusa quando un indice, ancorché isolato, costituisce soltanto una presunzione relativa. Infatti, è stata affermata la costituzionalità proprio dei parametri presuntivi di ricavi di cui all’art. 2, comma 29, 1. 17 febbraio 1985, n. 17, nonostante la facoltà dell’amministrazione finanziaria di presumere l’ammontare dei ricavi anche da un solo indice, in quanto tale circostanza risultava comunque mitigata dalla possibilità della prova contraria.
In definitiva, quindi, poiché le questioni di legittimità costituzionale relative a presunzioni, forfettizzazioni e parametrizzazioni utilizzate dal legislatore in funzione probatoria del presupposto impositivo sono state sollevate principalmente in relazione a pretese violazioni del principio di effettività della capacità contributiva, la Corte costituzionale ha manifestato una tendenza a giudicarne la costituzionalità sulla base degli stessi principi elaborati con riferimento ai giudizi di costituzionalità sulla scelta legislativa degli indici di capacità contributiva, cioè con un ampio riconoscimento della discrezionalità del legislatore, limitata solo dall’eventuale grave “irragionevolezza” dell’indice prescelto.
Alla luce di tali orientamenti, pertanto, è comprensibile che il Giudice delle leggi abbia rigettato le questioni di legittimità costituzionali nei casi in cui è stato chiamato a pronunciarsi sugli antecedenti diretti degli studi di settore, cioè sui parametri presuntivi dei ricavi.
MANZONI242, solleva diversi dubbi circa la costituzionalità della normativa sugli studi di settore e gli indicatori di normalità economica.
a) Con riferimento al principio di legalità dei tributi di cui all’art. 23 della Costituzione.
A parte i problemi d’ordine interpretativo più sopra esaminati, resta da vedere se e in che limiti l’attuale normativa sugli studi di settore e sugli indicatori di normalità economica si adegui, in via generale, ai principi dettati in materia tributaria dalla Costituzione.
Il primo dei principi costituzionali che viene in considerazione sotto tale profilo è il principio di legalità dei tributi di cui all’art. 23 della Costituzione, il quale stabilisce, come è noto, che “Nessuna prestazione personale o patrimoniale può essere imposta se non in base alla legge”. Si tratta di un principio destinato ad operare come garanzia formale in certo senso pregiudiziale ad ogni altra, costituendo uno dei più importanti presidi posti a tutela dei fondamentali diritti di libertà. È soltanto una fonte normativa primaria, cioè una legge (in senso formale) o altro atto avente forza di legge (decreto-legge o decreto legislativo), che può istituire e imporre un tributo. Ma quale deve essere il contenuto minimo che deve presentare la legge (o l’atto avente forza di legge) perché possa dirsi conforme a un tale principio? Deve disciplinare compiutamente il tributo in tutti i suoi vari aspetti e momenti, oppure è sufficiente che ne preveda semplicemente l’imponibilità? Secondo la Corte Costituzionale, l’art. 23 della Costituzione contempla una riserva soltanto relativa di legge, nel senso che (a differenza della riserva assoluta di legge dettata in materia penale dal successivo art. 25 della Costituzione) non richiede che la legge disciplini minuziosamente il tributo in tutti i suoi vari aspetti e momenti, purché vengano definiti con chiarezza quelli che sono gli elementi essenziali destinati a caratterizzare le singole fattispecie impositive (soggetti, oggetto, imponibile, aliquote, eccetera), così da evitare ogni possibile arbitrio da parte dell’ente impositore nella concreta applicazione del tributo. Ciò che insomma la Costituzione richiede è che vengano indicati chiaramente i limiti all’eventuale intervento regolamentare dell’ente impositore, così che il tributo non risulti arbitrariamente disatteso in quelli che ne sono i fondamentali caratteri distintivi. E questo si dica non solo per quanto riguarda le norme tributarie sostanziali, ma anche per quel che riguarda le norme procedimentali (come quelle di accertamento tributario), così come affermato dalla stessa Corte Costituzionale (Corte Cost. n. 105/2003).
Ma, se questo è vero, ci sembra che l’attuale normativa sugli studi di settore si presenti, sotto tale profilo, quanto meno carente e inadeguata, sollevando giustificate perplessità sulla sua legittimità costituzionale.
Non è infatti dubbio che i coefficienti presuntivi di compensi e ricavi riportati dagli studi di settore (così come del resto gli stessi indicatori di normalità economica) vengano ad interessare, direttamente o indirettamente, gli elementi sostanziali tipici ed essenziali del tributo, cioè l’imponibile e l’imposta. Non è di conseguenza ammissibile che la definizione degli indici in questione sia lasciata all’esclusiva discrezionalità dell’ente impositore, senza che la legge stabilisca quanto meno i criteri di massima cui attenersi sia nella loro formazione, sia nella loro concreta applicazione.
Per la verità, per quanto riguarda gli studi di settore, l’art. 62-bis del d.l. n. 331/1993, nella sua primitiva stesura, dettava alcuni criteri, anche se alquanto vaghi ed approssimativi, in ordine alla determinazione dei coefficienti presuntivi di compensi e ricavi. A tal fine disponeva infatti che gli uffici del Dipartimento delle entrate del Ministero delle finanze identificassero “campioni significativi di contribuenti appartenenti … ai settori da sottoporre a controllo, allo scopo di individuare elementi caratterizzanti l’attività esercitata, con particolare riferimento agli acquisti di beni e servizi, ai prezzi medi praticati, ai consumi di materie prime e sussidiarie, al capitale investito, all’impiego di attività lavorativa, ai beni strumentali impiegati, alla localizzazione dell’attività e ad altri elementi significativi in relazione all’attività esercitata”.
A seguito delle modifiche apportate al citato art. 62-bis dall’art. 10 della legge 8 maggio 1998, n. 146, anche quei pochi e limitati criteri sono stati però eliminati, lasciando così il posto a delle vere e proprie “norme in bianco” per quanto riguarda i criteri in questione, demandando di fatto alla discrezionalità dello stesso ente impositore di definire l’ambito della potestà regolamentare in materia. A definire i criteri seguiti nell’elaborazione e nella determinazione degli indici o coefficienti presuntivi di compensi o ricavi sono infatti gli stessi decreti ministeriali che approvano i vari studi di settore, cioè dei provvedimenti normativi a carattere regolamentare, e non legislativo, come invece la Costituzione vorrebbe. Sicché, sotto tale profilo, la normativa in questione deve ritenersi a nostro avviso palesemente illegittima, per violazione dell’art. 23 della Costituzione e del principio di legalità ivi affermato.
Resta da vedere se analogo problema si ponga anche con riferimento agli indicatori di normalità economica. Potrebbe infatti osservarsi che anche l’art. 1, comma 14, della legge n. 296/2006 (allo stesso modo dell’art. 62-sexies del d.l. n. 331/1993) difetta di qualsiasi principio, criterio o direttiva, sia pure di massima, atti a definire chiaramente l’ambito del potere discrezionale dell’esecutivo nell’elaborazione degli indicatori di normalità economica.
È però agevole replicare che, trattandosi in questo caso di coefficienti utilizzabili (come si è visto) esclusivamente nell’ambito di un procedimento per presunzioni semplici, e quindi sforniti di qualsiasi effetto legale (rimanendo l’ufficio gravato in pieno dell’onere della prova), non si rende per ciò stesso applicabile la riserva di legge di cui al citato art. 23 della Costituzione.
A differenza degli indici contenuti negli studi di settore, gli indicatori di normalità economica sono infatti considerati dalla legge come meri elementi indizianti che l’ufficio può far valere, unitamente ad altri indizi, nel dedurre un prova per presunzioni semplici. Si tratta, in altre parole, di elementi privi di qualsiasi contenuto normativo, non dissimili, nella sostanza, da quelli elaborati dai vecchi ispettorati compartimentali delle imposte dirette e di cui si è detto all’inizio. Nè può aver rilevanza il fatto che essi siano approvati con decreto ministeriale, trattandosi semplicemente di un’opportuna forma di pubblicità, senza alcuna influenza sul contenuto dell’atto, che rimane pur sempre quello definito dalla legge in termini di presunzione semplice, cioè di semplice mezzo di prova e non di fonte normativa.
b) Sulla legittimità costituzionale di un sistema di presunzioni legali relative, come quello su cui si basano gli studi settore, che pone limiti alla prova contraria.
Come si è visto, ai fini dell’accertamento i coefficienti presuntivi di compensi e ricavi determinati dagli studi di settore sono assunti dalla legge a base di una serie di presunzioni legali relative, che come tali dovrebbero pertanto consentire la più ampia prova contraria. È infatti proprio la circostanza che sia consentita la prova contraria che, a nostro avviso, legittima costituzionalmente il ricorso alle presunzioni legali relative nella determinazione dei presupposti impositivi e dei relativi imponibili. Ed è proprio per il fatto di non consentire la prova contraria che, come ampiamente illustrato in altra sede (MANZONI-VANZ, Il diritto tributario, op. cit., pagg. 42 e seguenti) non riteniamo costituzionalmente ammissibile il ricorso a presunzioni legali assolute nella fissazione dei presupposti impositivi (o con riguardo ad elementi o fattori destinati ad incidere nella determinazione di tali presupposti).
La ragione della posizione da noi assunta in merito è, in sintesi, la seguente. Assumendo la capacità contributiva non solo a presupposto, ma altresì a limite ed a parametro dell’imposizione, il comma 1 dell’art. 53 della Costituzione viene implicitamente ma chiaramente a riconoscere il diritto di “tutti”, e quindi di ciascun contribuente, a non essere assoggettato a tributo se non in ragione di quella che è (e non semplicemente di quella che potrebbe essere) la sua effettiva attitudine alla contribuzione.
Che la conformità del tributo a un tale precetto costituzionale sia attuata nella normalità o generalità dei casi non può quindi considerarsi sufficiente a legittimare l’imposizione, se non viene altresì assicurata ad ogni singolo contribuente, individualmente e autonomamente, la possibilità di opporsi alla legge d’imposta che non si conformi, anche solo nei propri confronti, al precetto stesso; con piena facoltà di darne la dimostrazione in sede di opposizione all’eventuale atto di accertamento emesso dagli uffici finanziari.
Non consentendo la prova contraria, le presunzioni legali assolute, quando investano gli stessi presupposti di fatto del tributo, devono pertanto considerarsi costituzionalmente illegittime, per violazione non solo del citato principio della capacità contributiva di cui all’art. 53, comma 1, della Costituzione, ma dello stesso fondamentale diritto di difesa di cui agli artt. 24 e 113 della Costituzione. Mentre le presunzioni legali relative, consentendo la prova contraria, devono ritenersi in via di massima
costituzionalmente legittime, anche quando riguardino gli stessi presupposti di fatto del tributo.
Può tuttavia succedere che la legge, nel fissare la presunzione legale relativa, venga a porre delle limitazioni alla prova contraria. Quando ciò sia, è chiaro che è lo stesso schema concettuale della presunzione che viene rimesso in discussione. È infatti evidente che più si riduce il margine lasciato alla prova contraria, tanto più la presunzione legale relativa tende a perdere i caratteri suoi propri, per assumere tratti sempre più prossimi a quelli di una presunzione legale assoluta: sino a identificarsi in essa, quando il margine probatorio consentito si riduca talmente, da trasformare la prova contraria in una mera probatio diabolica. Orbene, ci sembra che il vigente sistema di accertamento basato sugli studi settore presenti, sotto quest’ultimo profilo, non trascurabili dubbi di incostituzionalità, in quanto non consente al contribuente di fare ricorso alle scritture contabili ai fini della prova contraria. Il sistema di accertamento basato sugli studi di settore prescinde infatti, per sua stessa natura, dalle scritture contabili.
È ben vero che in molti casi la prova contraria può essere data anche senza fare ricorso alle scritture contabili. È il caso, ad esempio, del professionista che sia stato ricoverato in ospedale per buona parte dell’anno; oppure del commerciante che abbia subito un furto o un incendio.
Oppure, ancora, dal commerciante la cui attività sia stata compromessa dai lavori di manutenzione e di ristrutturazione della via (corso o piazza) in cui abbia sede la sua attività (ad esempio il negozio di vendita al pubblico). Ma vi sono anche dei casi in cui il ricorso alle scritture contabili può invece risultare determinante. Ben può essere, ad esempio, che i ricavi o compensi effettivi risultino inferiori a quelli riportati dagli studi di settore, a causa di una contrazione delle vendite o di un aumento dei costi, del tutto casuale e contingente. Come darne la prova? Se si tratta di minori ricavi dovuti alla mancata vendita di beni, potrà eventualmente darsi la prova dimostrando che tali beni sono ancora in magazzino. Ma quando si tratti della mancata produzione di servizi, come nel caso di un professionista, una tale prova non è ovviamente ipotizzabile.
Semplicemente, si sono sostenuti dei costi, nell’errata previsione di servizi professionali che non ci sono stati.
Quando ciò sia, negare tout court l’utilizzazione delle scritture contabili può significare veramente trasformare la prova contraria in una probatio diabolica, traducendo di fatto la presunzione legale relativa in una presunzione legale assoluta. Il che viene a riproporre, in sostanza, gli stessi dubbi di incostituzionalità che appunto si pongono nei confronti delle presunzioni legali assolute. c) Dubbia costituzionalità degli studi di settore, sotto il profilo dei principi dell’uguaglianza tributaria e della capacità contributiva di cui agli artt. 3 e 53 della Costituzione, là dove se ne subordina l’applicabilità a limiti quantitativi indiscriminatamente operanti anche nei confronti di situazioni fra di loro del tutto disomogenee.
Come esposto nelle premesse normative, l’art. 10, comma 4, della legge 8 maggio 1998, n. 146 (quale sostituito dall’art. 1, comma 16, della legge 27 dicembre 2006, n. 296) stabilisce che le disposizioni relative agli accertamenti basati sugli studi di settore non si applicano nei confronti dei contribuenti che dichiarano ricavi derivanti da attività d’impresa di cui all’art. 85, comma 1, del d.P.R. n. 917/1986 [esclusi quelli di cui alle lettere c), d) ed e) dello stesso articolo], o compensi per attività di lavoro autonomo, di ammontare superiore al limite stabilito per ciascun settore e comunque superiore a 7,5 milioni di euro (15 miliardi circa delle vecchie lire).
Ne discende che chi dichiari un ammontare di ricavi o compensi superiore ai 7,5 milioni di euro è automaticamente escluso dall’accertamento basato sugli studi di settore.
Sennonché, 7,5 milioni di euro di ricavi o compensi possono rappresentare un ammontare irrisorio per certe imprese (come, ad esempio, un’industria automobilistica od una raffineria di oli minerali) e invece altissimo per gran parte dei settori professionali (avvocati, commercialisti, medici, eccetera) e per le piccole imprese commerciali (negozianti, ristoratori, eccetera). Il che può tradursi in un trattamento fortemente discriminato fra settore e settore produttivo, con conseguente violazione del generale principio di uguaglianza di cui all’art. 3 della Costituzione e, in particolare, dei principi della uguaglianza tributaria e della capacità contributiva di cui agli artt. 3 e 53 della Costituzione.
d) Illegittimità dei coefficienti presuntivi riportati dagli studi di settore, per inidoneità degli stessi a costituire valido fondamento di un procedimento per presunzioni legali, sia pure soltanto relative.
A parte i rilievi di incostituzionalità di cui sopra, gli attuali studi di settore presentano ulteriori motivi di critica. Un primo rilievo, non certo secondario, può essere avanzato nei confronti della vigente normativa, circa l’idoneità dei coefficienti presuntivi di compensi e ricavi, riportati dagli studi di settore, a costituire fondamento di presunzioni legali relative. Secondo la consolidata giurisprudenza della Corte Costituzionale, il ricorso alle presunzioni legali deve infatti considerarsi costituzionalmente legittimo, come già accennato, solo in quanto la presunzione trovi fondamento nell’id quod plerumque accidit, cioè in quello che, secondo le comuni regole d’esperienza, succede nella normalità o generalità dei casi.
Tale regola non soffre di eccezioni, dovendosi ritenere applicabile, sempre secondo la Corte, sia nel caso di presunzioni legali assolute che di presunzioni legali relative.
Il problema che si pone è quindi quello di accertare se, e in che limiti, i coefficienti presuntivi di compensi e ricavi, quali determinati dai vari studi di settore, si conformino all’id quod plerumque accidit e possano quindi costituire valido fondamento di presunzioni legali, sia pure soltanto relative.
A questo proposito, è necessario sfatare un’errata quanto radicata convinzione, piuttosto comune nella pratica operativa (e di fatto condivisa non solo dall’Amministrazione finanziaria, ma anche da una parte della giurisprudenza e della stessa dottrina), e cioè che le medie statistiche (ad esempio, la produttività media dei vari settori produttivi) siano rappresentative dell’id quod plerumque accidit, cioè di quello che normalmente e generalmente accade nella realtà, come tali quindi suscettibili di dare fondamento ad un procedimento per presunzioni legali.
Con la conseguenza (si vedrà più avanti quanto aberrante) di considerare al di fuori della normalità (e quindi, fino a prova contraria, un potenziale evasore) chi si discosti in varia misura da una tale media.
La verità, come abbiamo avuto modo di precisare ampiamente in altra sede (MANZONI-VANZ, Il diritto tributario, cit., pagg. 347 seguenti) è che le medie e i dati statistici non possono assolutamente considerarsi rappresentativi dell’id quod plerumque accidit, per la semplice ma fondamentale ragione che non fanno assolutamente parte della realtà, ma sono delle pure e semplici astrazioni. Come affermato dalla stessa giurisprudenza della Corte di Cassazione (se pure in diverso contesto), le medie e i dati statistici non sono fatti (in senso storico), ma rappresentano delle mere astrazioni, che, se pur basate su dati ed elementi di fatto tratti dalla realtà, non trovano necessariamente riscontro nella realtà. Nella realtà non esistono ne’ l’azienda media, ne’ il ricavo o il ricarico medio, ne’ tanto meno il reddito medio o la produttività media. Quelli che esistono, nella realtà, sono i valori e i dati di fatto che hanno concorso a determinare la media. Ma si tratta di dati che possono divergere anche notevolmente dalla media. Basti pensare, per spiegarci con un esempio, che i prezzi di vendita di un certo bene, in concreto praticati sul mercato, possono discostarsi in maniera più o meno accentuata da quello che è il prezzo medio, a seconda della qualità e particolarità del bene, della politica commerciale seguita dalle aziende produttrici e distributrici, dal fatto che il prezzo sia libero o vincolato, e così via. Una media di 100 può essere data da una serie di valori che vanno da 95 a 105, oppure da una serie di valori che vanno da 70 a 130. E se la fascia di variazione dei prezzi effettivamente praticati sul mercato varia da 70 a 130, un prezzo di 80 non è meno “normale” di un prezzo di 120.
Non è pertanto assolutamente possibile affermare, sulla base della sola media statistica, se e quando la produttività di un’azienda rientri o meno nella norma, se non si conoscono i dati della realtà che hanno concorso a determinare la media (e, prima ancora, i criteri in base ai quali tali dati sono stati raccolti ed elaborati). È quindi senz’altro da escludere che la produttività media del settore sia da considerare come rappresentativo della “norma”, e quindi “anormale” tutto ciò che da essa si discosti. Al contrario, deve ritenersi “normale” non solo la produttività di tutte quelle aziende che, eventualmente e del tutto casualmente, rispondano alla media, ma di tutte le aziende che rientrino nell’ambito degli indici di produttività che hanno concorso, in concreto, a formare la media.
Il problema che a questo punto si pone è di vedere quale debba essere, in concreto, l’indice di produttività (di compensi e ricavi) che deve presentare un’azienda per essere considerata nella norma. In altre parole, come debbano essere predisposti gli studi di settore per soddisfare una tale esigenza e risultare idonei ad esplicare quella che è la funzione loro propria.
Escluso che la produttività media di settore possa essere legittimamente assunta a fondamento di un sistema di presunzioni legali relative su cui basare l’accertamento, ed escluso altresì, per evidenti ragioni pratiche, che gli studi di settore debbano riportare l’intera fascia dei dati o valori che hanno concorso a formare la media, quello che a nostro avviso gli studi settore dovrebbero indicare, come criterio base su cui fondare l’accertamento, sarebbe se mai la produttività minima richiesta perché un’azienda sia considerata nella norma. E ciò nell’evidente presupposto d’ordine logico che tutto ciò che risulti almeno uguale a quel minimo di produttività non possa, per definizione, che rientrare nella norma, cioè nell’id quod plerumque accidit. Ne consegue che il cosiddetto “ricavo (compenso o corrispettivo) di riferimento puntuale”, cioè il ricavo specificamente imputabile al contribuente sulla base dello studio di settore di appartenenza, non può ritenersi assolutamente rappresentativo di ciò che capita nella normalità dei casi. Come precisato dallo stesso Ministero dell’economia e delle finanze, il “ricavo di riferimento puntuale” è infatti costituito “dalla media dei ricavi di riferimento di ogni gruppo omogeneo…, ponderata con le relative probabilità di appartenenza” (circolare n. 110/E del 21 maggio 1999, punto 3.1.3). È quindi chiaro che un accertamento che si basi su di un tale indice non potrà che risultare illegittimo e che il giudice eventualmente adito non potrà che “disapplicare” il decreto ministeriale che lo ha approvato.
Altrettanto sembrerebbe doversi dire con riguardo al cosiddetto “ricavo (compenso o corrispettivo) minimo di riferimento”. I vari studi di settore, oltre a determinare il “ricavo di riferimento puntuale”, indicano infatti anche il cosiddetto “intervallo di confidenza”, cioè una fascia di ricavi, inferiori a quello puntuale, che sono comunque ritenuti “possibili” (circolare del Ministero dell’economia e delle finanze n. 148/E del 5 luglio 1999, punto 5.1, nonché circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 5 del 23 gennaio 2008, punto 4). Il ricavo minimo di riferimento è appunto costituito dal minore dei valori indicati nell’intervallo di confidenza. Il che, a prima vista, sembrerebbe risultare quindi conforme ai requisiti necessari per assicurare il rispetto del principio dell’id quod plerumque accidit.
Sennonché, come chiarito dalla stessa Amministrazione finanziaria, anche l’intervallo di confidenza, analogamente al ricavo di riferimento puntuale, è ottenuto come “media degli intervalli di confidenza … per ogni gruppo omogeneo ponderata con le relative probabilità di appartenenza” (circolare n. 110/E del 21 maggio 1999, punto 3.1.3). Per cui non vi è in realtà alcuna garanzia che l’importo minimo risultante da una siffatta media esprima effettivamente il livello minimo dei ricavi realmente conseguiti dagli operatori economici aventi caratteristiche similari a quelle del contribuente verificato.
Appare pertanto quanto meno dubbio che anche i ricavi minimi di riferimento possano legittimamente essere posti a base di una presunzione legale di maggiori ricavi (compensi o corrispettivi). Di conseguenza, il giudice tributario, ai sensi dell’art. 7, comma 5, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 (sul processo tributario), dovrebbe dichiarare l’inapplicabilità dei decreti di approvazione degli studi di settore, in quanto fondati su delle mere medie statistiche, di per sè non espressive dell’id quod plerumque accidit.
e) Illegittimità degli attuali studi di settore, per violazione dei principi di chiarezza e trasparenza di cui agli artt. 5, 6 e 7 dello Statuto dei diritti del contribuente.
Gli attuali studi di settore risultano poi palesemente illegittimi, a nostro avviso, per violazione di quei principi di chiarezza e trasparenza cui, ai sensi dello Statuto dei diritti del contribuente, avrebbe dovuto conformarsi la formulazione dei relativi decreti ministeriali.
Come infatti dispongono gli artt. 5, 6 e 7 del predetto Statuto (approvato con legge 27 luglio 2000, n. 212), l’Amministrazione finanziaria deve assicurare al contribuente non solo “la completa e agevole conoscenza delle disposizioni legislative e amministrative vigenti in materia tributaria” (art. 5), ma altresì “l’effettiva conoscenza … degli atti a lui destinati” (art. 6), motivandoli in modo chiaro ed esauriente. Precisando inoltre che, “Se nella motivazione si fa riferimento ad un altro atto, questo deve essere allegato all’atto che lo richiama” (art. 7).
Ciò impone quindi agli uffici, quando notificano un avviso di accertamento basato sugli studi di settore, non solo di richiamare lo specifico studio di settore cui in concreto ci si riferisce, ma di assicurarsi anche e soprattutto che questo sia formulato in modo tale da risultare comprensibile al comune contribuente, così da consentirne “l’effettiva conoscenza”.
Orbene, l’esposizione dei criteri seguiti nell’elaborazione dei vari studi di settore risulta formulata non solo in termini tutt’altro che semplici e chiari, ma in termini del tutto incomprensibili per un comune lettore, quale può essere il contribuente medio. In realtà, le “note tecniche e metodologiche”, che accompagnano i singoli studi di settore, risultano di difficile comprensione per gli stessi “addetti ai lavori”, richiedendo la conoscenza di nozioni tecniche e metodologiche particolarmente sofisticate, che non fanno parte dell’usuale bagaglio culturale dei professionisti operanti in campo tributario (avvocati, commercialisti, ragionieri, eccetera). 6. Conclusioni.
In sede di premessa si è ipotizzata l’utilità della verifica se i vari istituti esaminati appartengano al medesimo “genus” degli “accertamenti standardizzati”, inteso come categoria unitaria evolutasi nel tempo, in relazione alla capacità
dell’amministrazione di elaborare studi statistici sempre più affidabili e puntuali. In tale ambito, la diversità di disciplina tra i vari strumenti non inciderebbe sui principi alla base del loro funzionamento, ma sulla loro diversa ampiezza ed operatività, sotto il profilo soggettivo ed oggettivo; identici sarebbero, invece, l’inquadramento sistematico, l’inferenza dei parametri statistici (coefficienti, parametri in senso proprio o studi di settore) rispetto all’accertamento, l’atteggiarsi degli oneri delle parti in sede di contraddittorio e motivazione, la portata dei poteri del giudice tributario.
Due sono i versanti che sembrano dettare aperture verso tale prospettiva.
Da un lato, diverse decisioni in tema di contraddittorio tra amministrazione e contribuente assumono una portata di carattere trasversale, essendo espressione dei principi generali del “giusto procedimento” (art. 97 Cost.) e di “cooperazione tra amministrazione finanziaria e contribuente” (art. 12, comma 7, Statuto), in funzione dell’attuazione del principio della capacità contributiva (art. 53 Cost) 243.
Trattasi, in particolare, delle affermazioni secondo le quali:
– l’accertamento è nullo se non sia preceduto dalla previa attivazione del contraddittorio con invito al contribuente a fornire chiarimenti sulle ragioni che hanno giustificato lo scostamento rispetto agli “standards” di riferimento 244;
– l’amministrazione finanziaria, peraltro, non ha l’obbligo di specificare nella richiesta di chiarimenti le discordanze tra i corrispettivi dichiarati e quelli risultanti dall’applicazione dei predetti standards, ma incombe al contribuente l’onere di chiarire siffatta discordanza245;
– qualora il contribuente, ottemperando all’invito, provveda a trasmettere all’Ufficio le proprie deduzioni, la motivazione dell’eventuale avviso di accertamento deve contenere un’adeguata replica tale da superare le deduzioni della parte246. In mancanza, l’atto impositivo dovrà essere considerato nullo per difetto di motivazione247;
– l’attivazione del contraddittorio, che svolge una funzione strumentale rispetto alla corretta effettuazione dell’accertamento, se presenta risvolti positivi per il contribuente qualora egli abbia fornito i chiarimenti richiesti, presenta invece effetti sfavorevoli in caso di mancata risposta, che legittima l’utilizzazione degli “standards presuntivi” da parte dell’amministrazione248;
– la mancata partecipazione del contribuente al contraddittorio, non gli preclude la possibilità di presentare in giudizio le medesime eccezioni e giustificazioni che avrebbe potuto far valere in sede di contraddittorio anticipato. Pertanto la prova 249che non è stata data in sede procedimentale amministrativa può essere fornita in sede processuale250.
L’appartenenza dei vari strumenti di accertamento standardizzato ad un “unico genus” sembra evincersi anche dalla possibilità di applicazione, attesa la natura procedimentale, a periodi d’imposta precedenti alla loro adozione, in luogo di quelli previsti per tali periodi d’imposta, a condizione che il risultato sia favorevole al contribuente251.
Tale retroattività, infatti, non è soltanto interna a ciascuno strumento, ma va oltre i rispettivi confini.
È, invero, ormai acquisito il principio della prevalenza degli studi di settore sui parametri, laddove relativi ad medesimo settore economico cui appartiene il contribuente interessato dall’accertamento, avendo i primi natura più raffinata, quale nuovo mezzo di accertamento desumibile dalla normativa che lo ha introdotto 252.
La prevalenza vale non soltanto con riferimento agli “standards”, cioè ai risultati statistici mutevoli nel tempo, ma anche per le ipotesi di inapplicabilità degli studi, estese ai parametri:
– nei confronti dei soggetti per i quali operano le cause di esclusione degli accertamenti basati sugli studi di settore, allorché riguardino un periodo di svolgimento anomalo dell’attività del contribuente253;
– nei confronti dei contribuenti che abbiano cessato l’attività nell’anno, ipotesi espressamente prevista in tema i studi di settore dall’art. 10, comma 4, lett. b) della legge n. 146 del 1998 ed “applicabile retroattivamente in quanto a sensi del d.l. n. 331 del 1993, art. 62 bis, istitutiva degli studi di settore, costituisce un criterio di valutazione migliore degli elementi presuntivi rispetto ai precedenti parametri 254 “.
Si è fatta poi applicazione del principio di retroattività degli studi di settore anche nel caso di successione nel tempo di studi di settore, con prevalenza di quello più aggiornato ed evoluto rispetto al precedente255.
È quindi acquisito il principio che, nel concorso tra più “standards” di riferimento, prevale l’ultimo, in quanto il sistema normativo è tale da farlo presumere più aggiornato ed affidabile ai fini della determinazione dell’effettivo reddito del contribuente; e tale prevalenza riguarda non soltanto il dato contabile-statistico, ma anche le cause di esenzione previste dallo strumento più evoluto256.
In ogni caso l’applicazione retroattiva è possibile se il risultato sia favorevole al contribuente, mentre dubbi sussistono sulla possibilità di applicazione “in malam partem”, avendo la Corte costituzionale in più occasioni 257 riconosciuto che la disposizione tributaria retroattiva è ammessa solo se colpisce una capacità contributiva che, seppur emersa in passato, possa considerarsi ancora effettiva, attuale e concreta258. Prende allora corpo, sia pure a livello embrionale, una sorta di “unitarietà dinamica” dell’istituto degli accertamenti standardizzati, caratterizzato dalla trasversalità dei principi in tema di contraddittorio e dalla prevalenza dell’ultimo standard approvato rispetto ai precedenti, anche se inerenti a strumenti diversi.
Sembra, quindi, praticabile una soluzione “di sistema”, che consenta una risposta calibrata sul “genus” accertamenti standardizzati, piuttosto che sui singoli strumenti succedutisi nel tempo 259. In questa prospettiva, la prima questione che andrebbe affrontata è quella dell’inquadramento sistematico degli accertamenti standardizzati.
Nonostante il dato testuale sembri deporre per la collocazione all’interno dell’art. 39, comma 1, lett. d) del d.P.R. n. 600 del 1973 (almeno per i parametri e gli studi di settore260), la questione non è compiutamente affrontata dalla giurisprudenza:
alcune decisioni hanno incluso gli accertamenti standardizzati tra quelli previsti dall’art. 39, comma 1, lett. d)cit. 261; altre sembrano collocarli (almeno secondo la locuzione usata) al di fuori delle ipotesi previste dalla norma generale 262, peraltro senza indicazioni sulla diversa collocazione; altre, ancora, nel ritenere che l’accertamento non può automaticamente fondarsi sullo scostamento tra quanto dichiarato ed i dati forniti dagli “standard” (nella specie studi di settore), affermano che essi “si rivelano assolutamente inidonei ad integrare i presupposti di cui all’art. 39, primo comma, lett. d), del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, laddove non confortati da elementi ulteriori”.
Analoghe incertezze si registrano in dottrina (si rinvia al paragrafo 5.d.1).
La spiegazione è rinvenibile nel fatto che gli strumenti presuntivi, essendo volti a superare le risultanze contabili, ma limitati alla determinazione dei ricavi (cioè di una singola categoria di componenti del reddito) “sembrano collocarsi a cavallo delle due modalità d’accertamento presuntivo tipiche del reddito d’impresa: l’accertamento presuntivo-analitico di cui al primo comma e quello presuntivo-sintetico di cui al secondo comma dell’art. 39 263”.
Di qui il contrapporsi tra soluzioni che privilegiano il dato letterale ed altre che fanno leva sulle caratteristiche di specificità degli accertamenti in esame. A tale seconda impostazione va ascritta la tesi che qualifica i metodi standardizzati come fondanti presunzioni legali, non essendo tale la natura delle presunzioni contemplate dall’art. 39 cit.; la conseguenza è – evidentemente – la collocazione in uno spazio autonomo e distinto.
La questione dell’inquadramento sistematico si intreccia poi con quella della natura degli accertamenti standardizzati. Sotto questo profilo, sia i coefficienti presuntivi, che i parametri e gli studi di settore, fanno registrare analoghi approcci della giurisprudenza ( v., rispettivamente, i paragrafi 2.c., 4.7. e 5.c.): a decisioni in cui è presente il riferimento al concetto di presunzione semplice, se ne contrappongono altre che attribuiscono loro la qualifica di presunzione legale; inoltre, nell’ambito di quelle che propendono per la natura di presunzioni semplici, solo alcune affermano l’esistenza, “ex lege”, delle caratteristiche di gravità, precisione e concordanza, mentre altre le qualificano quali comuni presunzioni “hominis”, vale a dire supporti razionali offerti dall’amministrazione al giudice264.
Ancor più varie sono le posizioni della dottrina (si rinvia ai paragrafi 2.d., 4.g. e 5.d).
Sembra evidente che la chiave di lettura del sistema risiede nelle regole fondamentali del suo funzionamento.
Tra queste la prima è quella, ormai largamente condivisa, della necessità che l’accertamento non si fondi sul solo scostamento tra quanto dichiarato ed i livelli di congruità previsti in via generalizzata, ma sia confortato da elementi ulteriori. Tale affermazione ha. quale implicita premessa, la distinzione tra “lo standard” in sè e la sua “applicazione”.
A volte i due concetti appaiono parzialmente enunciati; e così si è affermato, in tema di parametri, che gli stessi “non costituiscono prove neppure presuntive di reddito e non possono da soli sostenere un avviso di accertamento di maggiore imponibile; in caso di discordanza tra quanto dichiarato e quanto risultante dai calcoli in forza ai c.d. parametri, non sussiste una presunzione “iuris tantum” a favore dell’Ufficio, con conseguente inversione dell’onere della prova; al tempo stesso la loro applicazione pone una presunzione legale relativa265″.
In altre decisioni, invece, l’affermazione della natura di presunzione relativa è espressamente accompagnata dal riferimento al momento applicativo (frequente è la locuzione “la loro applicazione pone una presunzione di carattere legale…”); per converso, quelle che valorizzano l’autosufficienza degli “standards” a fondare l’accertamento, salva la prova contraria266, sono relative a fattispecie in cui non risulta l’apporto di particolari argomentazioni giustificative da parte del contribuente in sede di contraddittorio.
D’altra parte, che i parametri statistici (coefficienti, parametri in senso proprio o studi di settore) rappresentino non già un fatto noto storicamente verificato, suscettibile di evidenziare in termini di rilevante probabilità l’entità dei ricavi del contribuente medesimo, ma, piuttosto, il risultato di una estrapolazione statistica di una pluralità di dati settoriali, che fissa soltanto una regola di esperienza, è affermazione ricorrente in giurisprudenza.
In questa prospettiva, deve condividersi quanto affermato recentemente in dottrina circa il fatto che la questione se le risultanze degli studi di settore (ed in genere degli altri accertamenti “standardizzati”) possano sorreggere da sole l’accertamento rappresenta, alla stregua dell’evoluzione giurisprudenziale, ” un falso problema “267. Ed infatti la più avveduta dottrina che fa riferimento al concetto di presunzione legale268, ne individua la natura “sui generis” e si muove in una prospettiva diversa da tale automatismo.
È, dunque, sul momento di “incrocio” tra i dati previsti in via generale e la realtà concreta del contribuente, che si deve concentrare l’analisi.
In effetti, è proprio questa la tendenza della più recente dottrina, che evita di approfondire la questione della natura di tali strumenti, preferendo affrontare le tematiche del contraddittorio tra ufficio e contribuente. E così si afferma che “le risultanze dell’accertamento standardizzato costituiscono meri parametri di riferimento partendo dai quali l’amministrazione finanziaria sviluppa l’iter logico-giuridico necessario, da un lato, a soddisfare l’onere probatorio a suo carico e, dall’altro, a motivare adeguatamente l’avviso di accertamento. Non è sufficiente l’applicazione automatica delle risultanze dello strumento standardizzato proprio dell’attività economica esercitata dal contribuente, ma è essenziale che siano valorizzate le caratteristiche peculiari di ciascuna attività oggetto di controllo, anche mediante l’acquisizione di ulteriori elementi269”. In definitiva, il contraddittorio endoprocedimentale, avente la duplice funzione di garanzia, dell’interesse sia del contribuente, il quale ha la possibilità di prospettare all’amministrazione tutti gli elementi che possono condurre ad una quantificazione del reddito più aderente alla propria capacità contributiva, sia dell’ordinamento alla corretta determinazione dei tributi, costituisce un momento con carattere di necessità e con funzione di passaggio dalla fase statica (gli “standards” previsti in via generale) a quella dinamica dell’accertamento (la loro applicazione al singolo contribuente).
Ne consegue che “le risutanze dell’istruttoria rilevano quale parte integrante e necessaria della motivazione270” in quanto “gli apporti collaborativi del contribuente entrano a far parte del procedimento e l’Amministrazione finanziaria è, perciò, obbligata non solo a prenderli in considerazione, ma ad esprimere – dopo la dimostrazione della loro attenta valutazione – le ragioni per cui non inficiano l’iter motivazionale approntato e non sono meritevoli di accoglimento271”. La motivazione dell’avviso di accertamento, quindi, è modulata in relazione alle risposte fornite dal contribuente la cui mancanza legittima l’utilizzazione degli “standards presuntivi” da parte dell’amministrazione272. Sembra, allora, che, nell’individuare natura ed inquadramento sistematico degli accertamenti standardizzati, non si possa non tenere conto di tre caratteristiche degli stessi:
1) la natura dinamica: il (necessario) passaggio intermedio del contraddittorio interrompe l’automatismo tra i criteri inferenziali probabilistici e l’accertamento, il quale va motivato in relazione ai risultati dell’istruttoria;
2) l’applicabilità modulare: i predetti criteri, stabiliti con riferimento a situazioni di normalità, vanno adattati alla realtà del contribuente, al punto che possono essere applicati anche parzialmente273;
3) il carattere non necessitato: l’elaborazione di standards presuntivi non preclude un accertamento ex art. 39, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 600 del 1973 a prescindere da essi, costituendo il riferimento a tali standards soltanto un possibile, ma non cogente, parametro di calcolo di tale redditività, fondato sulla estrapolazione statistica di dati, su cui prevale, quale elemento idoneo a fondare la presunzione di reddito, il diverso risultato che può emergere dall’andamento economico della specifica impresa interessata274.
L’assenza, in ciascuno dei predetti profili, di profili automatici di imputazione, sembra portare all’esclusione della natura di presunzioni legali degli accertamenti “standardizzati”, del resto in linea con quanto previsto dal d.l. 2 luglio 2007 n. 81, che espressamente qualifica come presunzioni semplici gli indicatori di normalità economica introdotti dalla legge 27 dicembre 2006, n. 296, aprendo il campo ad orientamenti ministeriali e di dottrina in linea con tale impostazione (paragrafi 5.b e 5.d.7 ). Il dato testuale (almeno per i parametri e gli studi di settore) ed il fatto che tali accertamenti (tutti) sono mirati alla determinazione dei ricavi (cioè di una singola categoria di componenti del reddito), sembrano essere decisivi ai fini dell’inquadramento nell’ambito dell’art. 39, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 600 del 1973. E le presunzioni gravi, precise e concordanti cui si riferisce tale norma, non sarebbero costituite dallo scostamento rispetto agli “standards”, in sè considerato, ma andrebbero individuate di volta in volta nel caso concreto, soltanto all’esito del contraddittorio con il contribuente, in relazione alle eventuali giustificazioni addotte ed al comportamento da lui tenuto. (Red. Pasquale Fimiani)
Il direttore aggiunto
(Luigi Macioce)
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1 Ex multis, v. Sez. V, sent. n. 19252 del 30/09/2005, Pres. Riggio, Est. D’Alonzo (Rv. 584597), secondo cui “la disponibilità dei beni (…..) costituisce una presunzione di capacità contributiva da qualificare legale ai sensi dell’art. 2728 cod. civ., perché è la stessa legge che impone di ritenere conseguente al fatto (certo) di tale disponibilità la esistenza di una capacità contributiva. Pertanto, il giudice tributario, una volta accertata l’effettività fattuale degli specifici elementi indicatori di capacità contributiva esposti dall’Ufficio, non ha il potere di togliere a tali elementi la capacità presuntiva contributiva che il legislatore ha connesso alla loro disponibilità, ma può soltanto valutare la prova che il contribuente offra in ordine alla provenienza non reddituale (e, quindi, non imponibile o perché già sottoposta ad imposta o perché esente) delle somme necessarie per mantenere il possesso dei beni indicati dalla norma” [conforme Sez. V, sent. n. 16284 del 23/07/2007, Pres. Paolini, Est. Marinucci (Rv. 599484)].
2 Corte Cost., Ord. n. 297 del 28 luglio 2004, che conferma espressamente quanto già statuito dalla Corte (in relazione all’originario testo dell’art. 38, secondo comma, del d.P.R. 600/1973) con la sentenza n. 283 del 23 luglio 1987, ove si afferma, oltre a quanto indicato nel testo, che trattatasi di presunzioni stabilite dalla legge, legittime ex art. 53 Cost. in quanto ancorate a dati di fatto idonei a dimostrare il fatto presunto ” in base ad un massima di comune esperienza ” (quindi ben lontane dal costituire una ” violenza alla realtà “); e legittime ex art. 24 Cost. in quanto non limitative della facoltà del contribuente di fornire la prova contraria (cioè ” la prova dell’insussistenza degli elementi e circostanze di fatto sui quali si basa l’accertamento induttivo “). 3 Come precisato da MARCHESELLI, Le presunzioni nel diritto tributario:dalle stime agli studi di settore, Torino, 2008, 283, il quale osserva che, in generale per riconoscere le presunzioni viene dato rilievo decisivo all’argomento letterale (la presenza, cioè, nel testo, di derivati del verbo presumere, come afferma GENTILLI, Le presunzioni nel diritto tributario, Padova, 1984, 55). L’A. osserva che ” è preferibile una impostazione meno rigida:
riconoscere la natura di presunzione relativa quando la legge si riferisce alla prova e la disposizione deroga l’ordinaria distribuzione dell’onere di cui all’art. 2697 c.c. Neanche questo criterio elimina, tuttavia, le difficoltà: non è semplice, ad esempio, accertare se la norma deroghi all’ordinaria distribuzione dell’onere della prova”.
4 Principio valido anche per il c.d. redditometro. Ex multis, Sez. V, sent. n. 11607 dell’11/09/2001, Pres. Delli Priscoli, Est. Papa (Rv. 549236): “Il potere dell’ufficio impositore di determinare sinteticamente il reddito sulla scorta di elementi e circostanze di fatto certi, utilizzabili anche dal Ministero delle finanze per la fissazione di coefficienti presuntivi ai sensi dell’art. 38, quarto comma, del d.P.R. n. 600 del 1973, consente il riferimento a redditometri contenuti in decreti ministeriali emanati successivamente al periodo di imposta da verificare, senza porre problemi di retroattività, poiché il potere in concreto disciplinato è quello di accertamento, sul quale non viene ad incidere il momento della elaborazione. Le medesime considerazioni si attagliano ai redditometri successivi alla legge n. 413 del 1991, non risultando, in particolare, ipotizzabile la violazione della riserva di legge in materia impositiva, di cui all’art. 2 Cost., ne’ del principio di irretroattività della legge di cui all’art. 11 disp. att. legge in generale” [conformi, Sez. V, sent. n. 3968 del 19/03/2002, Pres. Cantillo, Est. Papa (Rv. 553148); sent. n. 8272 del 07/06/2002, Pres. Papa, Est. Merone (Rv. 554968); sent. n. 12731 del 30/08/2002, Pres. Cristarella, Est. Papa (Rv. 557219) ; sent. n. 14161 del 24/09/2003, Pres. Cristarella, Est. Di Nubila (Rv. 567117) ; sent. n. 327 del 11/01/2006, Pres. Papa ed Est. Papa (Rv. 586266) ; sent. n. 21445 del 04/11/2005, Pres. Prestipino, Est. Chiarini (Rv. 584230) ; sent. n. 13316 del 7/06/2006, Pres. ed Est. Chiarini (Rv. 590375) ed altre successive fino a Sez. V, sent. n. 8789 del 10/04/2009, Pres. Miani Canevari, Est. Bognanni]. Per un quadro aggiornato della dottrina e della giurisprudenza, v. CAPOLUPO, Ancora sulla redditività del redditometro, in Fiscalitax, 2009, VI, 828.
5 Considerata la notevole produzione dottrinaria sul tema, si è preferito non allegare gli interventi citati, ma inserire direttamente nel corpo della relazione le parti ritenute rilevanti;
altrettanto dicasi per la giurisprudenza, che viene riportata nel corpo della relazione, mentre, considerato il consistente numero di atti interpretativi dell’Amministrazione, si è scelto di allegare (sub 2) quelli a partire dal 2007 (che peraltro richiamano i precedenti). In allegato 1, si trovano le norme di riferimento (testo storico e vigente, secondo le indicazioni del paragrafo 5.a.1, in fine).
6 Che, secondo il comma 1, dovevano essere determinati in relazione al settore di attività economica e al rispettivo andamento, alla localizzazione geografica, alle dimensioni del comune e alle sue caratteristiche socio-economiche, alle dimensioni dei locali, al numero, qualità e retribuzione degli addetti, ai consumi di materie prime e semilavorati e merci e di energia, alle caratteristiche dei beni strumentali impiegati, al numero delle prestazioni mediamente effettuabili nell’unità di tempo, agli altri parametri economici che siano utilizzabili in relazione a singoli settori di attività anche con riferimento al periodo iniziale dell’attività. Con d.p.c.m. 16 maggio 1989 furono determinati coefficienti di congruità dei corrispettivi e dei componenti positivi e negativi di reddito.
7 I coefficienti presuntivi furono determinati per l’anno 1989 con d.p.c.m. 28 luglio 1989, poi integrato con d.p.c.m. 11 settembre 1989 e, successivamente, interamente rielaborati con d.p.c.m. 22 dicembre 1989. In seguito i coefficienti presuntivi furono determinati: per il periodo di imposta 1990 con d.p.c.m. 21 dicembre 1990; per il periodo di imposta 1991 con d.p.c.m. 25 ottobre 1991;
per il periodo di imposta 1992 con d.p.c.m. 23 dicembre 1992. 8 Per effetto della modifica, il primo comma dell’art. 11 recitava:
” In relazione ai vari settori economici sono elaborati, viste le caratteristiche e le dimensioni dell’attività svolta, coefficienti presuntivi di compensi e di ricavi. I coefficienti sono determinati sulla base di parametri economici utilizzabili in relazione ai singoli settori di attività ed al rispettivo andamento, tenendo anche conto del contributo diretto lavorativo, anche con riferimento al periodo iniziale e finale dell’attività”. Si è osservato (MARCHESELLI, Le presunzioni nel diritto tributario:dalle stime agli studi di settore, cit., 283) che la disciplina dei coefficienti aveva effettuato un passo indietro, sotto il profilo della analiticità, dopo la riforma attuata con la l. n. 413/1991, poiché l’elencazione originaria relativa ai criteri di determinazione dei coefficienti di congruità dei corrispettivi e dei componenti positivi e negativi di reddito, è stata sostituita con il riferimento al solo contributo diretto lavorativo (l’A richiama, in termini fortemente critici, DE MITA, La minimum tax, in Politica e diritto dei tributi in Italia, Milano, 2000, 168).
9 Si rinvia al testo della norma (Allegato 1.1.) per
l’applicabilità dell’accertamento in relazione alle varie tipologie di contabilità adottata dal contribuente.
10 Sez. V, sent. n. 26404 del 5/12/2005, Pres. Papa, Est. D’Alonzo (Rv. 587159): “In tema di accertamento dell’IVA, l’art. 12, comma quinto, del d.l. 2 marzo 1989, n. 69, convertito, con modificazioni, nella legge 27 aprile 1989, n. 154 (vigente al momento della notifica dell’atto impugnato nel caso di specie) rende possibile l’accertamento dell’imponibile a mezzo di coefficienti presuntivi anche nei confronti dei soggetti che hanno optato per il regime ordinario di contabilità. Detta norma – nella parte in cui prevede che i coefficienti presuntivi di cui all’art. 11 del medesimo d.l. possono essere utilizzati ai fini della programmazione dell’attività di controllo di cui al comma primo, anche nei confronti di soggetti che hanno optato per il regime ordinario di contabilità – non può ritenersi diretta, infatti, esclusivamente alla individuazione dei soggetti in contabilità ordinaria da sottoporre ai “controlli programmati” sulla base dei criteri selettivi fissati dal Ministro delle finanze ai sensi dell’art. 51, comma primo, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 (come modificato dall’art. 6 della legge 24 aprile 1980, n. 146), ma deve considerarsi rivolta agli uffici, ponendo a loro disposizione, anche nei confronti dei predetti soggetti, ulteriori presunzioni semplici, ritenute idonee, per la loro precisione, gravità e concordanza, a legittimare l’esercizio del potere di controllo delle dichiarazioni e, quindi, se del caso, di rettifica delle dichiarazioni stesse ai sensi dell’art. 54 del d.P.R. n. 633 del 1972″.
11Sez. V, sent. n. 7420 del 14/05/2003, Pres. Saccucci, Est. Ebner (Rv. 563034); n. 3223 del 14/02/2007, Pres. Riggio, Est. Ruggiero (Rv. 596834); n. 6924 del 14/03/2008, Pres. Lupi, Est. Ruggiero; n. 8307 del 7/04/2009, Pres. ed Est. Lupi; n. 14122 del 18/06/2009, Pres. Papa, Est. Carleo.
12 Il d.m. 21 luglio 1983, recante “Determinazione, ai fini dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, degli indici e coefficienti presuntivi di reddito o di maggior reddito in relazione agli elementi indicativi di capacità contributiva di cui al secondo comma dell’art. 2 del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600” è stato modificato ed integrato dai seguenti provvedimenti: d.m. 13 dicembre 1984 ( anni 1974 – 1982); d.m. 17 novembre 1986 (anni 1983-85); d.m. 7 aprile 1989 (anni 1983-1987); d.m. 25 luglio 1990 (anni 1983-1989); d.m. 10 settembre 1992 (Determinazione, ai fini dell’imposta sul reddito delle persone fisiche, degli indici e coefficienti presuntivi di reddito o di maggior reddito in relazione agli elementi indicativi di capacità contributiva); d.m. 19 novembre 1992 (sostituzione della tabella allegata al d.m. 10 settembre 1992); d.m. 29 aprile 1999 (aggiornamento della tabella allegata al d.m. 10 settembre 1992); d.m. 21-9-1999 (aggiornamento per gli anni 1998 e 1999 della tabella allegata al d.m. 10 settembre 1992). Di seguito ha provveduto il Direttore dell’Agenzia delle Entrate con: Provv. 7 gennaio 2005 (aggiornamento per gli anni 2000 e 2001 della tabella allegata al d.m. 10 settembre 1992); Provv. 5 aprile 2005 (aggiornamento per gli anni 2002 e 2003); Provv. 17 maggio 2005 (aggiornamento per gli anni 2004 e 2005); Provv. 14 febbraio 2007 (aggiornamento per gli anni 2006 e 2007); Provv. 11 febbraio 2009 (aggiornamento per gli anni 2008 e 2009. 13 Ad esempio Sez. V, sent. n. 4624 del 22/02/2008, Pres. Saccucci, Est. Cicala (Rv. 602048) parla di determinazione del reddito effettuata sulla base dell’applicazione del cosiddetto “redditometro”, ma fa riferimento alle norme in tema di coefficienti (d.P.C.M. 23 dicembre 1992 oltre che art. 12, comma primo, del d.l. 2 marzo 1989, n. 69, convertito in legge 27 aprile 1989, n. 154, come modificato dall’art. 7 della legge 30 dicembre 1991, n. 413). 14 Affermazioni, queste, di cui viene evidenziato ” il particolare pregio (che) sta nella sua verosimile esportabilità anche agli accertamenti mediante studi di settore” [MARCHESELLI, Tendenze attuali in tema di accertamenti tributari fondati su presunzioni (accertamenti sintetici, accertamenti bancari e coefficienti presuntivi in particolare), nota a Cass. n. 18983 del 2007, cit., in Dir. e prat. trib., 2008, IV, 655].
15 Sez. V, sent. n. 7420 del 14/05/2003, Pres. Saccucci, Est. Ebner (Rv. 563034), con riferimento ad una fattispecie in cui, dalla pronuncia di merito, emergeva come non fosse stata in alcun modo valutata la dedotta incidenza del precario stato di salute del contribuente, lavoratore autonomo, sulla sua capacità lavorativa;
n. 19163 del 15/12/2003, Pres. Papa, Est. Falcone (Rv. 568913), secondo cui il giudice ha individuato dei fatti specifici (propri dell’attività, quali il tempo trascorso dall’inizio e il non felice esito della iniziativa), ai quali ha assegnato rilevanza sul piano economico e della produzione del reddito, con una valutazione di merito, sufficientemente motivata, che sfugge al sindacato di legittimità; n. 2411 del 03/02/2006, Pres. Paolini, Est. Botta (Rv. 587297); n. 3223 del 14/02/2007, Pres. Riggio, Est. Ruggiero (Rv. 596834), che rileva come la previsione di prova contraria – diretta a dimostrare fatti e circostanze specifiche che concretamente rivelino il conseguimento di un ammontare di ricavi inferiore – è enfatizzata dall’invio al contribuente del questionario, con il quale vengono richiesti chiarimenti per iscritto, nell’ottica della disciplina collaborativa disegnata dallo stesso art. 12, tutt’altro che pregiudizievole all’esercizio del diritto di difesa; n. 18983 del 10/09/2007, Pres. Saccucci, Est. Sotgiu; n. 6924 del 14/03/2008, Pres. Lupi, Est. Ruggiero, che afferma: ” nel caso che ci occupa, la delineata dimostrazione da parte del contribuente non è stata fornita ed, inoltre, i giudici regionali si sono limitati all’affermazione dell’insufficienza degli elementi probatori addotti dall’Ufficio (incorrendosi così, anche, nel lamentato vizio motivazionale”. All’automatismo nell’applicazione dei coefficienti sembra fare indirettamente riferimento Sez. V, sent. n. 24969 del 25/11/2005, Pres. Papa, Est. Sotgiu (Rv. 585567) che, in tema di determinazione induttiva dell’ammontare dei ricavi e dei compensi sulla base di coefficienti presuntivi ai fini IVA, ha affermato:
“nel caso di l’indicazione da parte del contribuente dell’attività economica da lui svolta in modo prevalente, ai sensi dell’art. 35, primo comma, n. 5 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633 e secondo le indicazioni di cui al d.P.C.M. 21 dicembre 1990, non esonera l’Amministrazione finanziaria dalla verifica di quella prevalenza in base all’esame della contabilità del contribuente, al fine di evitare che l’applicazione automatica dei coefficienti presuntivi relativi ad una soltanto delle attività merceologiche esercitate contrasti con la capacità contributiva del soggetto”. 16 Sez. V, sent. n. 19163 del 15/12/2003, cit.
17 Sez. V, sent. n. 4387 del 27/03/2002, Pres. Papa, Est. Falcone (Rv. 553321); conformi: n. 11356 del 22/07/2003, Pres. Saccucci, Est. Amari (Rv. 565324); n. 26404 del 5/12/2005, Pres. Papa, Est. D’Alonzo; n. 12612 del 26/05/2006, Pres. Favara, Est. Bursese (Rv. 590142).
18 Oltre alle sentenze citate nella nota che precede, si veda Sez. V, sent. n. 4624 del 22/02/2008, Pres. Saccucci, Est. Cicala (Rv. 602048).
19 Sez. V, sent. n. 16771 del 27/11/2002, Pres. Papa, Est. Ebner. 20 Oltre a Sez. V, sent. n. 4387 del 2002, n. 11356 del 2003, n. 26404 del 2005, n. 12612 del 2006 n. 4624 del 2008, citate, v. Sez. V, sent. n. 14122 del 18/06/2009, Pres. Papa, Est. Carleo. 21 Sez. V, sent. n. 14122 del 2009, cit., che richiama, quanto alla possibilità di prova contraria, Sez. V, sent. n. 19163 del 15/12/2003, cit. e n. 15124 del 30/06/2006, Pres. Saccucci, Est. D’Alonzo.
22 Sez. V, sent. n. 13508 del 15/09/2003 Pres. Papa, Est. Meloncelli (Rv. 566856), in tema di IVA.
23 Sez. V, sent. n. 15124 del 30/06/2006, Pres. Saccucci, Est. D’Alonzo (Rv. 591772).
24 PERRUCCI, Sulla natura dei coefficienti presuntivi, in Il Fisco, 1990, XXXVII, 5900.
25 MARONGIU, Coefficienti presuntivi, parametri e studi di settore, in Dir. e prat. trib., 2002, 707.
26 L’A. afferma, in nota: ” È da osservare, in proposito che la disciplina dei coefficienti aveva, nell’indicazione degli elementi da tenere in conto per la loro elaborazione, effettuato un curioso passo indietro, sotto il profilo della analiticità della previsione di legge, dopo la riforma attuata con la legge n. 413 del 1991 che aveva sostituito alla elencazione originaria (caratteristiche e le dimensioni dell’attività svolta, coefficienti di congruità dei corrispettivi e dei componenti positivi e negativi di reddito: i coefficienti sono determinati in relazione al settore di attività economica e al rispettivo andamento, alla localizzazione geografica, alle dimensioni del comune e alle sue caratteristiche socio-economiche, alle dimensioni dei locali, al numero, qualità e retribuzione degli addetti, ai consumi di materie prima e semilavorati e merci e di energia, alle caratteristiche dei beni strumentali impiegati, al numero delle prestazioni mediamente effettuabili nell’unità di tempo. Agli altri parametri economici che siano utilizzabili), il riferimento al solo contributo diretto lavorativo”.
27 MARCHESELLI, Le presunzioni nel diritto tributario: dalle stime agli studi di settore, cit., 280. Le note sono dell’Autore. 28 L’unico profilo di perplessità residuava semmai, secondo quanto già esposto in generale in materia di presunzioni legali e limiti alla facoltà di prova, nell’ipotesi di impossibilità di allegazione al momento della richiesta di chiarimenti (e possibilità sopravvenuta). In tale ipotesi, peraltro non frequente, un sistema normativo “costituzionalmente orientato” avrebbe dovuto prevedere una forma di “remissione in termini”.
29 Evidente la possibilità di inscrivere tale atteggiamento nel principio di buona fede, riconosciuto dall’art. 10 dello Statuto del Contribuente.
30 Imprenditori e professionisti di cui all’art. 11, comma 1, del d.l. n. 384 del 1992.
31 Ergo il riconoscimento della sussistenza di cause di ragionevole deroga, in relazione alle condizioni di esercizio della attività economica.
32 Emblematica Sez. V, sent. n. 25159 del 3/12/2007, Pres. Lupi, Est. Scuffi, che qualifica espressamente come presunzione iuris tantum quella posta dall’art. 11-bis del d.l. 19 settembre 1992, n. 384, convertito, con modificazioni, dalla L. 14 novembre 1992, n. 438, precisando che la stessa può essere contrastata soltanto attraverso uno degli elementi indicati dalla medesima norma (quali l’infondatezza dei dati, l’individuazione di un reddito inferiore in base a criteri correlati all’ambito economico, al luogo e alle modalità di tale esercizio, all’entità del capitale investito e alle specifiche condizioni soggettive, determinati con decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri) con la conseguenza che deve essere cassata la sentenza di merito che abbia preso in considerazione fattori diversi rispetto a quelli suindicati, quali la partecipazione marginale e limitata del contribuente alla società imprenditrice”.
33 MARCHESELLI, Le presunzioni nel diritto tributario: dalle stime agli studi di settore, cit., 284.
34 Per il quale “Il termine per la approvazione e la pubblicazione degli studi di settore previsto dall’articolo 62-bis del decreto-legge 30 agosto 1993, n. 331, convertito, con modificazioni, dalla legge 29 ottobre 1993, n. 427, è prorogato al 31 dicembre 1996 e i detti studi hanno validità ai fini dell’accertamento a decorrere dal periodo di imposta 1996”. Per l’ ulteriore proroga dello stesso termine al 31 dicembre 1998, v. l’art. 3, comma 124, legge 23 dicembre 1996, n. 662.
35 Il comma 181 ed il successivo 182 definiscono poi l’ambito dei soggetti nei cui confronti può essere effettuato l’accertamento mediante parametri.
36 La questione, emersa in dottrina, della illegittimità di tali d.p.c.m. per mancanza del preventivo parere del Consiglio di Stato è stata superata da Sez. V, sent. n. 27656 del 21/11/2008, Pres. D’Alonzo, Est. Marigliano (Rv. 605182) secondo cui “, la procedura speciale di approvazione dei parametri previsti dall’art. 3, comma 181, della legge 28 dicembre 1995, n. 549, in quanto derogatoria rispetto a quella statuita dall’art. 17 della legge n. 400 del 1988, non necessita del preventivo parere del Consiglio di Stato”. 37 MARCHESELLI, Le presunzioni nel diritto tributario: dalle stime agli studi di settore, cit., 286.
38 MARONGIU, Coefficienti presuntivi, parametri e studi di settore, cit..
39 Massimata (Rv. 602112) come segue: “In tema di accertamento delle imposte sui redditi e con riguardo alla procedura di determinazione induttiva dei ricavi e dei compensi sulla base dei coefficienti presuntivi disciplinati dagli art. 11 e 12 del d.l. 2 marzo 1989, n. 69, convertito, con modificazioni, nella legge 27 aprile 1989, n. 154, è legittimo l’avviso di accertamento presuntivo, basato sui parametri di cui all’art. 3, comma 181, della legge 28 dicembre 1995, n. 549, inerente i redditi di imprese minori e lavoratori autonomi, purché adottato dopo l’inutile tentativo dell’amministrazione finanziaria di instaurare un preventivo contraddittorio con il contribuente, il quale ha la facoltà di offrire, anche in sede processuale, la prova della più favorevole determinazione reddittuale”.
40 Conforme, sul punto, Sez. V, Ord. n. 12630 del 28 maggio 2009, Pres. Lupi, Est. Iacobellis.
41 FORTE-FAGIOLO, Parametri: motivazione dell’atto e mezzi di difesa del contribuente, in Il Fisco, 2001, VII, 2239.
42 L’intervallo di confidenza è previsto dal d.p.c.m. 29 gennaio 1996 (Allegato 1.5.) nel punto 2 dell’allegato 1): “Una volta determinato il “maggior ricavo o compenso di riferimento del singolo contribuente come differenza tra il proprio ricavo o compenso di riferimento e quanto dichiarato, ad esso si è applicato un fattore di adeguamento personalizzato in modo da tener conto della probabilità di errore nella stima. A tal fine, per ogni contribuente si è definito un intervallo di confidenza ad un livello di probabilità del 95 intorno alla previsione del ricavo o compenso di riferimento”. Per l’intervallo di confidenza nella disciplina degli studi di settore v. paragrafo 5.a.4. 43 Il riferimento è a FEDELE, I principi costituzionali e l’accertamento tributario, in Riv. dir. fin. sc. fin., 1992, I, 477. 44 Sez. V, sent. n. 26511 del 05/11/2008, Pres. D’Alonzo, Est. Merone (Rv. 605515) e n. 10077 del 30/04/2009, Pres. Magno, Est. Marigliano.
45 Sez. V. sent. n. 6924 del 2008, cit., riguarda i c.d. coefficienti presuntivi (retro) ed afferma che “la flessibilità di tali coefficienti, che trova fondamento nell’art. 53 Cost., consente al contribuente di fornire la prova della inapplicabilità dei parametri nel caso concreto (Cass. Sez. Trib., 15/12/2003, n. 19163;
14/2/2007, n. 3223)” e che ” i coefficienti presuntivi di redddito rappresentano un valore minimale nella determinazione del volume di affari, che si pone alla base dell’accertamento del reddito in un’ottica statitica, non astratta, bensì riferita al singolo settore economico; la loro applicazione pone una presunzione legale relativa, come tale superabile con la prova contraria – diretta a dimostrare fatti e circostanze specifiche che concretamente rivelino il conseguimento di un ammontare di ricavi inferiore – la cui previsione è enfatizzata dall’invio al contribuente del questionario, con il quale vengono richiesti chiarimenti per iscritto, nell’ottica collaborativa disegnata dallo stesso art. 12, tutt’altro che pregiudizievole all’esercizio del diritto di difesa (Cass. Sez. Trib., 14/2/2007, n. 3223)”. Anche Sez. V. sent. n. 3223 del 2008, cit., in materia di coefficienti presuntivi (retro), contiene identiche affermazioni.
46 Massimata (Rv. 607514) come conforme a Sez. V, sent. n. 24912 del 2008. La decisione che ha cassato la sentenza di merito, in quanto fondata “soltanto sulla esclusione del carattere presuntivo dei parametri senza neppure accennare all’esistenza di eventuali elementi offerti in prova contraria dal contribuente (e in ogni caso senza neppure analizzare tali ipotetici elementi)” afferma: “Secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità (alla quale il collegio intende dare continuità in assenza di valide ragioni per discostarsene), infatti, i parametri previsti dalla legge n. 549 del 1995, art. 3, comma 181, e dal successivo d.P.C.M. 29 gennaio 1996 sono fondati su di una presunzione legale relativa, con la conseguenza che il contribuente può sempre dimostrare l’insussistenza dei presupposti per l’applicazione dei maggiori indici di reddito in essi previsti, dando prova di specifiche circostanze che rivelino il conseguimento di un ammontare di ricavi inferiore, in quanto i coefficienti presuntivi di reddito rappresentano un valore minimale nella determinazione del volume d’affari, che si pone alla base dell’accertamento dei reddito in un’ottica statistica non astratta, bensì riferita al singolo settore economico (v. tra le altre Cass. n. 24912 del 2008 e n. 27648 del 2008)”. Peraltro Sez. V, sent. n. 27648 del 2008 (infra, nel presente paragrafo) afferma che i parametri sono fondati su presunzioni semplici.
47 Per note critiche a tale decisione v. BASILAVECCHIA, Strumenti parametrici, contraddittorio, motivazione dell’accertamento: il corretto ruolo del giudice tributario, in GT – Riv. giur. trib., 2007, 935, le cui argomentazioni sono riportate nel paragrafo che segue.
48 In motivazione si legge: “Invero, i criteri espressi dai parametri di settore individuati ai sensi della legge n. 549 del 1995, art. 3, commi da 181 a 187, al fine di delineare la capacità reddituale del contribuente (nella transizione dal sistema del c.d. “redditometro” a quello dei c.d. “studi di settore”), non costituiscono un fatto noto e certo, suscettibile di evidenziare in termini di rilevante probabilità l’entità dei ricavi del contribuente medesimo, ma rappresentano, bensì, la risultante dell’estrapolazione statistica di una pluralità di dati settoriali acquisiti su campioni di contribuenti e dalle relative dichiarazioni (cfr. comma 184 della disposizione citata), che configura una mera regola di esperienza. Essi rivelano, pertanto, valori, che, se eccedenti rispetto a quanto dichiarato dal contribuente, integrano, ai sensi della legge n. 549 del 1995, art. 3, comma 181, presupposto per il legittimo esercizio da parte dell’Ufficio dell’accertamento analitico-induttivo d.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 39, comma 1, lett. d), pur in presenza di contabilità formalmente corretta; non sono tuttavia, di per sè, idonei a fondare l’accertamento medesimo, giacché sono espressione di presunzioni non qualificabili come gravi, precise e concordanti, indicando (diversamente dai risultati valutativi emergenti da medie elaborate con riferimento all’andamento economico della specifica impresa interessata) redditività solo astratta ed ipotetica. Ove contestati sulla base di allegazioni specifiche, detti valori sono, quindi, inidonei a suffragare la fondatezza dell’accertamento ai sensi del d.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, se non confortati da elementi concreti desunti dalla realtà economica dell’impresa (cfr. Cass. 9625/07, 6758/07, 18038/05, 26388/05)”.
49 Nella specie la S.C. ha annullato con rinvio la sentenza della Commissione tributaria regionale, che aveva ritenuto applicabili i richiamati parametri senza motivare, in presenza di una copiosa documentazione prodotta dal contribuente, l’eventuale insussistenza di una situazione “non normale” nell’attività svolta dal medesimo nell’anno in contestazione.
50 In motivazione si legge: “I parametri disciplinati dalla legge n. 546 del 1995 e dal successivo d.P.C.M. 29 gennaio 1996 sulla base dei quali è stato nella specie effettuato l’accertamento di tipo induttivo, sono, alla stregua di tutti gli altri parametri utilizzati in via accertativa dall’Amministrazione Finanziaria, soltanto presuntivi, potendo essere contrastati, in ordine alla loro congruità, da contribuenti che siano in grado di mostrare l’insussistenza dei maggiori indici di reddito in essi previsti (Cass. 2816/2008). Poiché la congruità dell’accertamento deve essere in ogni caso rapportata alla capacità contributiva del contribuente il reddito non può infatti essere mai stabilito in via automatica, pur tenendo presenti gli strumenti presuntivi, perché ciò contrasterebbe con l’art. 53 Cost. (Cass. 19163/2003; cfr. 11300/2000, 8665/2002). Ed è lo stesso legislatore a prevedere che siffatti parametri non trovino comunque applicazione nei confronti di soggetti per i quali operano le cause di esclusione dagli accertamenti basati sugli studi di settore allorché riguardino un periodo di svolgimento “non normale” dell’attività del contribuente (d.P.R. n. 195 del 1999, art. 4, comma 1 con riferimento alla legge n. 146 del 1998, art. 10, comma 4). Sebbene quest’ultima norma sia entrata in vigore in periodo successivo a quello accertato,tuttavia la correzione operata dal legislatore rispetto alla rigidità dei parametri operante nel momento in cui l’atto di accertamento fu notificato (2001) avrebbe dovuto suggerire al giudice di merito una valutazione della singola fattispecie adeguata alla peculiarità dell’attività della contribuente; quale, come artigiana-artista esercente in proprio e priva di dipendenti, non necessariamente era tenuta a mantenere un ritmo di lavorazione sempre corrispondente alle indicazioni di massima deducibili da parametri astratti, e aveva comunque addotto una serie di giustificazioni che meritavano una più attenta valutazione sul piano logico-giuridico, dell’attività svolta nel 1996 dalla N. Infatti, a differenza di quanto previsto dai coefficienti presuntivi di cui al legge n. 69 del 1989 (cfr. C. Cost. 105/2003), i parametri derivanti dagli studi di settore di cui alla legge n. 549 del 1995, art. 3, p. 181 e p. 184 prevedono un sistema basato su presunzioni semplici che non richiedono la presenza – ritenuta invece indispensabile dai giudici d’appello – di “specifiche e tipiche previsione agevolative”, ben potendo la prova essere costituita proprio in assenza di indicazioni normative specifiche contrarie anche da presunzioni formulate dal contribuente; giudici d’appello hanno dunque errato nel loro ragionamento allorché hanno confuso, come ha osservato la ricorrente – una questione di carattere processuale – quale quella di acquisizione e valutazione delle prove – con l’inesistenza di una specifica norma agevolativa sostanziale, la sola che, nell’ambito di tale erroneo assunto, avrebbe potuto consentire una revisione della base imponibile rispetto ai parametri applicati. Tale premessa li ha condotti a disattendere completamente le prove fornite circa l’assistenza che la nonna ha dichiarato di aver prestato alla propria nipotina handicappata, onere (quello dell’assistenza) che, in quanto spettante “in primis” ai genitori, renderebbe priva di rilevanza l’affermazione della contribuente; affermazione che doveva essere invece valutata non soltanto in relazione alla documentazione fornita (handicap della neonata, attività lavorativa di entrambi i genitori, notoria assistenza dei nonni alle esigenze delle giovani coppie con figli minori), ma anche dal punto di vista di un minore interesse per il proprio lavoro da parte di una artigiana-artista colpita, sul piano affettivo, dall’handicap della nipotina”. 51 In motivazione si legge: ” (…) questa Corte ha già avuto modo di puntualizzare (con specifico riferimento ai coefficienti di cui al d.l. n. 69 del 1989, artt. 11 e 12 convertito in legge n. 154 del 1989, ma con affermazione di carattere generale) che gli strumenti di accertamento presuntivo forniscono indicazioni che vanno applicate con esclusione di ogni automatismo, posto che la previsione dell’art. 53 Cost., non consentendo che il reddito venga determinato a prescindere da quella che è l’effettiva capacità contributiva del soggetto sottoposto a verifica, rende preminente l’esigenza del raffronto con fatti “concreti” (come avvertito anche dalla Corte costituzionale: cfr. sent. 103/91, 283/87, 42/80) ed impone la “flessibilità” degli strumenti presuntivi (cfr. Cass. 2411/06, 19163/03). Il criterio appare certamente estendibile ai coefficienti espressi dai “parametri” di settore, individuati ai sensi della legge n. 549 del 1995, art. 3, commi 181 e 187, al fine di delineare la capacità reddituale del contribuente (nella transizione dal sistema del c.d. “redditometro” a quello dei c.d. “studi di settore”), “parametri” che non costituiscono un fatto concreto noto e certo, specificamente inerente al contribuente, suscettibile di evidenziare in termini di rilevante probabilità l’entità del suo reddito, ma rappresentano, bensì, la risultante dell’estrapolazione statistica di una pluralità di dati settoriali acquisiti su campioni di contribuenti e dalle relative dichiarazioni (cfr. comma 184 della disposizione citata). Tali coefficienti rivelano, pertanto, valori, che, quando eccedano il dichiarato, integrano, in ogni caso, presupposto per il legittimo esercizio da parte dell’Ufficio dell’accertamento analitico – induttivo d.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 39, comma 1, lett. d); ma che, per i motivi sopra puntualizzati, sono, tuttavia, inidonei a supportare l’accertamento medesimo, ove contestati sulla base di allegazioni specifiche, se non confortati da elementi concreti desunti dalla realtà economica dell’impresa (cfr. Cass. 26459/08, 19829/08, 9625/07, 6758/07, 18038/05, 26388/05)”.
52 Sez. V, sent. n. 327 del 11/01/2006, Pres. ed Est. Papa (Rv. 586265): ” In tema di accertamento delle imposte sui redditi, il metodo disciplinato dall’art. 38, quarto comma, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600 – come via via modificato – consente, a fronte di circostanze ed elementi certi, che evidenzino un reddito complessivo superiore a quello dichiarato o ricostruibile su base analitica, la determinazione del maggior imponibile in modo sintetico, in relazione al contenuto induttivo di tali circostanze ed elementi. Pertanto, la norma esige dati certi con riguardo alla esistenza del maggiore reddito imponibile e, in presenza di dati siffatti, richiede la individuazione dell’entità del reddito stesso con parametri indiziari, in via di deduzione logica dal fatto noto del fatto taciuto dal dichiarante, secondo i comuni canoni di regolarità causale. Ne consegue che, in presenza di dati certi ed incontestati, non è consentito pretendere una motivazione specifica dei criteri in concreto adottati per pervenire alle poste di reddito fissate in via sintetica nel cosiddetto redditometro, in quanto esse, proprio per fondarsi su parametri fissati in via generale, si sottraggono all’obbligo di motivazione, secondo il principio stabilito dall’art. 3, secondo comma, della legge 7 agosto 1990, n. 241″.
53 Sez. V, sent. n. 26458 del 04/11/2008, Pres. D’Alonzo, Est. Cappabianca (Rv. 605427) che in motivazione afferma: ” [Il ricorrente] lamenta che i giudici di appello hanno ritenuto che la legittimità della motivazione dell’avviso d’accertamento è garantita dall’enunciazione ed applicazione matematica e tabellare dei parametri, mentre la giurisprudenza di questa Corte ha puntualizzato che, per disattendere le dichiarazioni del contribuente in applicazione del metodo “induttivo”, non è sufficiente il solo rilievo di una diversa percentuale di ricarico, poiché questa, ancorché frutto di uno studio di settore, costituisce un dato che richiede il conforto di qualche elemento ulteriore. Il ricorso è infondato. Il contribuente sembra, infatti, confondere il piano della legittimità della motivazione della pretesa fiscale fondata sui parametri, con quello della relativa fondatezza.
Quanto al profilo della legittimità della motivazione, l’unico reso oggetto del ricorso del contribuente (essendo l’entità dell’accertamento stata, del resto, fortemente ridimensionata in appello), occorre, infatti, considerare che, in tema di accertamento in base ai parametri, non si deflette dal principio generale secondo cui – avendo l’avviso di accertamento funzione di delimitare l’ambito delle contestazioni proponibili dall’Ufficio in sede contenziosa e di mettere il contribuente in grado di conoscere l’an ed il quantum della pretesa tributaria per approntare idonea difesa (provocatio ad opponendum) – l’obbligo di motivazione deve ritenersi adeguatamente assolto dall’Ufficio (fermo, ovviamente, restando il correlativo onere della prova nell’eventuale sede giudiziale), quando l’avviso di accertamento rechi l’enunciazione del presupposto e dell’astratto criterio normativo in base al quale viene determinato il maggior valore (cfr. Cass. 27653/05, 12394/02, 1209/02).
Se ne deve, quindi, inferire che, nell’ipotesi in rassegna, l’obbligo di motivazione risulta adeguatamente assolto con l’incontroversa enunciazione del presupposto del criterio parametrico adottato e delle relative risultanze, mentre le questioni attinenti all’inidoneità del criterio parametrico applicato a governare, in concreto, la fattispecie (inidoneità parzialmente accertata dal giudice del merito e, in questa sede, non più evocata) attiene al diverso piano della prova della pretesa tributaria”.
54 Sez. V, Ord. n. 25199 del 15/10/2008, Pres. Lupi, Est. Zanichelli, investita della questione non l’ha affrontata. Preso atto “che il Giudice del merito non ha motivato la sua decisione solo con l’adesione al riferito (e per vero errato) principio di diritto ma anche con la ben diversa affermazione secondo cui il dato relativo al reddito presunto desumibile dall’utilizzo dei parametri di cui al D.P.C.M. 29 gennaio 1996, deve ritenersi non affidabile ogniqualvolta il ricorso ai più moderni e sofisticati studi di settore dimostri la congruità del reddito dichiarato, tanto da accogliere l’appello della contribuente proprio sulla base della considerazione che il reddito contestato era invece risultato congruo se valutato sulla base di tali strumenti” la decisione conclude che ” l’esposto enunciato motivazionale, di per sè solo sufficiente a fondare la decisione, non è stato espressamente censurato con conseguente carenza di interesse in relazione al diverso motivo addotto a sostegno del ricorso”.
55 In Boll. trib., 2007, 651, con nota di PACE, La prevalenza degli studi di settore sullo strumento dei parametri nella giurisprudenza di merito. L’A. evidenzia la natura transitoria dei parametri che, rispetto ai più raffinati studi di settore, pur traendo egualmente origine da una elaborazione statistica dei dati relativi ai diversi settori produttivi ed operando nello stesso ambito dell’art. 39 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, se ne differenziano sotto il profilo dell’affidabilità, essendo il meccanismo che li caratterizza “estremamente elementare: dato un certo costo, il ricavo viene determinato applicando un moltiplicatore basandosi sul seguente ragionamento: se è stato sostenuto un costo pari ad x è presumibile che sia stata esercitata un’attività che ha prodotto ricavi pari ad y”.
56 MARCHESELLI, Le presunzioni nel diritto tributario: dalle stime agli studi di settore, cit., 285.
57 L’A. richiama PORCARO, Le nuove parametrazioni nel sistema dell’accertamento, in Rass. trib., 1997, 375 (in particolare 379), il quale colloca tale accertamento nell’alveo di quelli “di cui all’art. 39, d.P.R. n. 600/1973, decreto che sarebbe applicabile in tali fattispecie per tutto quanto non previsto dalla legge n. 549/1995″.
58 PATRIZI, L’accertamento da parametri presuntivi, in Il Fisco, 2000, XXXIV, 10589.
59 ANTICO, I controlli parametrici: la cosiddetta prova contraria in sede di accertamento con adesione, in Il Fisco, 2001, X, 3861. 60 FAZZINI, L’accertamento per presunzioni: dai coefficienti agli studi di settore, in Rass. trib. , 1996, 309.
61 MARONGIU, Coefficienti presuntivi, parametri e studi di settore, in Dir. e prat. trib., 2002, 707.
62 PAPA, Parametri. La giurisprudenza di merito: il punto della situazione, in Boll. trib., 2003, I, 13.
63 L’A. ricorda ” il consolidato orientamento della Cassazione (sentenze n. 8494 del 1998; n. 3352 del 1998; n. 4555 del 1998) secondo il quale nell’accertamento presuntivo la relazione tra fatto noto e quello ignoto non deve avere carattere di necessità, essendo sufficiente che il fatto ignoto rappresenti una conseguenza ragionevolmente possibile e verosimile, secondo un criterio di normalità”.
64 FORTE-FAGIOLO, Parametri: motivazione dell’atto e mezzi di difesa del contribuente, in Il Fisco, 2001, VII, 2239. Le note sono degli Autori.
65 Circolari ministeriali n. 175/E del 3 ottobre 2000, n. 157/E del 7 agosto 2000, n. 203/E del 20 ottobre 1999, n. 140/E del 16 maggio 1997, n. 117/E del 13 maggio 1996.
66 CAPOLUPO, Manuale dell’accertamento delle imposte sui redditi, Milano, 1998.
67 MANZONI Potere di accertamento e tutela del contribuente, Milano, 1993.
68 BELLINI, Riflessioni sui parametri: le motivazioni e le strategie difensive adottabili dal contribuente nei confronti degli accertamenti effettuati mediante applicazione della procedura di cui all’art. 3 della legge n. 549/1995, in Il Fisco , 2000, XII, 3311. 69 BASILAVECCHIA, Strumenti parametrici, contraddittorio, motivazione dell’accertamento: il corretto ruolo del giudice tributario, cit. Le note sono dell’Autore.
70 A queste disposizioni si può poi aggiungere che, nei casi in cui la legge prevede un contraddittorio obbligatorio (ad es. in base a richiesta di chiarimenti – art. 37-bis quinto comma d.p.r. 600/73 -, ovvero a proposito dell’atto di contestazione della sanzione – art. 16 d.lgs. 472/97 -), è espressamente previsto che l’atto conclusivo debba motivare anche in base ai chiarimenti e agli elementi apportati dal contribuente. D’altra parte, si tratta di una precisazione normativa non essenziale, perché essa già deriva, oltre che dalle disposizioni di carattere generale citate nel testo, dall’esigenza fondamentale che la motivazione del provvedimento dia conto di tutte le risultanze istruttorie acquisite, ivi comprese – ed anzi, in primo luogo comprese – quelle fornite dal soggetto sottoposto all’attività di controllo e di accertamento. Su tutta questa tematica, e sul raffronto tra i diversi enunciati normativi, le cui differenze possono comunque essere sistematicamente attenuate in una considerazione complessiva dell’omogeneità delle esigenze tutelate, cfr. per tutti MULEO, Contributo allo studio del sistema probatorio nel procedimento di accertamento, Torino 2000. 71 In senso contrario, sembra comunque richiedere un quid pluris, oltre allo scostamento, la giurisprudenza di merito (da ultimo Comm.trib. provinciale di Taranto, 17 gennaio 2007, 351, inedita), che non è condivisibile per le ragioni che seguono. L’annosa (e probabilmente oziosa) questione, di cui tanto e troppo si discute da tempo, anche e soprattutto con riguardo agli accertamenti basati sugli studi di settore, se a base dell’accertamento debba porsi il semplice scostamento tra parametro statistico e dichiarato, sembra infatti agevolmente già risolto alla stregua dell’impostazione seguita dalla giurisprudenza della cassazione, per cui al possibile utilizzo dello strumento deve accompagnarsi quanto meno un tentativo di contraddittorio. È solo dall’esito del contraddittorio, che dipende dalla strategia difensiva del contribuente, che deriva l’ampiezza del contenuto dell’accertamento, nel senso che a contribuente inerte corrisponde accertamento laconico, e invece alla produzione di elementi corrisponde un atto di accertamento chiamato obbligatoriamente a fornire una valutazione di essi. Per questo ordine di idee, in dottrina SCIARRA, Il contraddittorio amministrativo e l’ispezione della contabilità negli studi di settore, in Corr. trib., 2006, 1953 e, in giurisprudenza, Cass. 28 luglio 2006, 17229, in Corr.trib. 2006, 3051. Tale impostazione non sembra dover essere riconsiderata, anche ridimensionando ulteriormente l’efficacia probatoria degli studi, secondo l’indicazione radicale che proviene dalla più recente monografia sull’argomento: VERSIGLIONI, Prova e studi di settore, Milano 2007. 72 Tra l’altro, nella parte in cui definisce i limiti delle censure proponibili con il ricorso per cassazione, la sentenza molto correttamente nega la natura processuale dell’avviso di accertamento, qualificandolo come oggetto dell’attacco impugnatorio che costituisce oggetto del giudizio tributario.
73 Art. 18 del d.P.R. n. 600/1973.
74 Art. 19 del d.P.R. n. 600/1973.
75 Provvedimento 18 gennaio 2006.
76 Così la circ. n. 28/E del 4 agosto 2006.
77 MANZONI, Gli studi di settore e gli indicatori di normalità economica come strumenti di lotta all’evasione, in Rassegna tributaria, 2008, V, 1243.
78 Sulla circ. 23 gennaio 2008, n. 5/E, v. paragrafo 5.b 79 NICCOLINI, Studi di settore e motivazione: riflessioni alla luce dei più recenti interventi legislativi, in Dir. e prat. trib., 2008, VI, P. I, 1089.
80 CORASANITI, La natura giuridica degli studi di settore ed il problema dell’onere della prova, in Dir. e prat. trib., 2008, I, 13 (in particolare, v. pag. 39).
81 In pratica, nei confronti di coloro che risultino aver dichiarato compensi o ricavi almeno pari al livello della congruità, tenuto anche conto dei valori di coerenza, non può procedersi a rettifica presuntiva se il valore ulteriore presunto non supera il 40 del valore dichiarato e non supera i 50 mila euro. La rettifica è possibile, oltre che nel caso di superamento di tali soglie, nel caso in cui il contribuente si sia reso responsabile di violazioni di omessa o infedele indicazione in dichiarazione dei dati riguardanti gli studi di settore, previste, per le imposte sui redditi, dall’art. 1, comma 2-bis, d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, per l’IVA, dall’art. 5, comma 4-bis, d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471, per l’IRAP, dall’art. 32, comma 2-bis, d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446. PARENTE, Notizia di reato e studi di settore, nota a Trib. Trieste, Sez. Gip, 23 maggio 2008, n. 220, in Rassegna Tributaria, 2009, II, 528, afferma che “quest’ultima regola, dettata con specifico riferimento al periodo di adozione degli indicatori di normalità economica, assume una valenza generale ed esprime un principio valido per la ricostruzione dei rapporti tra accertamenti basati sugli studi di settore e le altre forme di accertamento, e cioè che le risultanze degli studi possono senz’altro essere superate dall’Amministrazione, ma solo nel caso in cui se ne dimostri l’inattendibilità nel caso specifico, in base ad elementi oggettivi che dimostrino l’infondatezza dei ricavi dichiarati in linea con le risultanze degli studi. In ogni caso, l’Amministrazione ben potrà disattendere le risultanze degli studi di settore, a condizione però che sopporti l’onere probatorio della dimostrazione dell’eccezionalità dell’attività economica considerata nel caso di specie rispetto alla normalità emergente dall’intervallo di confidenza e/o dalle risultanze degli studi di settore. [Pertanto] l’Amministrazione non può disconoscere la normalità degli indici scaturenti dagli studi di settore in base a diverse percentuali di ricarico derivante da studi interni, essendo piuttosto vero il contrario e cioè che nella normalità dei casi gli indici economici dichiarati dal contribuente dovrebbero essere corrispondenti a quelli emergenti dagli studi di settore, sicché va dimostrato che il contribuente in concreto costituisce un’eccezione che si discosta dalle risultanze medie emergenti dagli studi stessi. La razionalità di tale conclusione è evidente se relazionata anche alla valenza che gli studi di settore rivestono quando utilizzati dall’Amministrazione per accertare il maggior reddito non dichiarato dal contribuente: in tali casi, infatti, la giurisprudenza è orientata nel ritenere che il contribuente non possa limitarsi ad addurre l’eccezionalità della propria posizione per fornire la prova contraria alle presunzioni contenute negli studi, ma dovrà per contro fornire una prova concreta dei fatti che giustificano tale peculiarità assunta a fondamento della propria posizione. È chiaro che se tanto vale per il contribuente che intende difendersi dagli accertamenti basati sugli studi di settore altrettanto deve valere per l’Amministrazione che intende disconoscere il reddito dichiarato dal contribuente in conformità alle risultanze degli studi stessi”. CONIGLIARO, Gli studi di settore dopo la Finanziaria 2005: il contraddittorio come strumento di tutela, in Il Fisco, 2005, XIII, 1-1940, aggiunge che “l’elaborazione degli studi di settore non impedisce al Fisco di svolgere l’azione di accertamento con le ordinarie procedure e di pervenire a risultati diversi da quelli degli stessi studi, anche nei confronti dei contribuenti che risultano congrui e coerenti; è pur vero però che, in tali casi, è necessario che la determinazione dei maggiori ricavi o compensi si fondi su obiettivi elementi e su una convincente ricostruzione logica ed argomentata dei ricavi o dei compensi stessi che tenga conto delle peculiarità della posizione soggettiva sottoposta a controllo”. Peraltro, secondo CAMPISI, Accertamento induttivo: lo studio di settore come elemento di prova nella difesa del contribuente, in Il Fisco, 2004, XXXIII, 3566, quanto previsto dagli studi di settore “può essere utilizzato dal contribuente come argomentazione per giustificare ricavi inferiori a quelli accertati induttivamente dal Fisco sfruttando così a proprio favore quell’appiattimento che l’Amministrazione finanziaria sembra condannare”.
82 Gli studi di settore sono realizzati rilevando, per ogni singola attività economica, le relazioni esistenti tra le variabili contabili e quelle strutturali, sia interne (processo produttivo, area di vendita, etc.), sia esterne all’azienda o all’attività professionale (andamento della domanda, livello dei prezzi, concorrenza, etc.). Il software di applicazione degli studi di settore, mediante il quale è possibile conoscere i ricavi o i compensi presunti in base agli studi stessi, è stato denominato “Ge.Ri.Co” (Gestione dei Ricavi o Compensi).
83 Nella fase di elaborazione gli studi di settore tengono conto tra l’altro del contesto territoriale in cui le attività vengono svolte, prendendo in considerazione il livello dei prezzi, le infrastrutture esistenti ed utilizzabili, la capacità di spesa, la tipologia di fabbisogni. Tali fattori possono incidere notevolmente sulla capacità della singola azienda di produrre ricavi e particolari elaborazioni statistiche consentono a Gerico di rilevare il fattore territorialità in modo da incidere nella procedura di determinazione della “funzione di regressione”.
84 L’art. 3, commi da 121 a 124, della legge n. 662/1996 ha previsto la comunicazione di dati contabili ed extracontabili, da effettuarsi mediante apposito questionario, il cui contenuto è stato definito a livello centrale in stretto rapporto con le associazioni di categoria (cfr. circ. n. 205/E del 13 luglio 1997).
85 Previo parere della Commissione di esperti, in merito all’idoneità dei singoli studi di settore a rappresentare la realtà economica cui essi si riferiscono. Altro compito della Commissione è quello di raccogliere ed esaminare le osservazioni fornite dagli Osservatori provinciali (ora regionali) e di monitorare continuamente gli studi già approvati in modo da verificarne la validità nel tempo (cd. validazione dello studio), nonché di indicare le cause di inapplicabilità dello strumento. 86 Unitamente ad una nota metodologica, che ne rappresenta il complesso iter formativo.
87 Le associazioni di categoria hanno partecipato alla predisposizione dei questionari per la raccolta delle informazioni necessarie all’elaborazione degli studi e alla validazione degli stessi. Tale collaborazione è proseguita prima all’interno degli Osservatori provinciali, e successivamente in quelli regionali, istituiti con Provvedimento del Direttore dell’Agenzia dell’8 ottobre 2007. Questi ultimi hanno la funzione di rilevare informazioni utili a migliorare la capacità degli studi a rappresentare la realtà cui si riferiscono, informazioni periodicamente trasmesse alla Commissione degli esperti e alla Direzione Centrale Accertamento.
88 L’analisi della congruità è condotta sulla base dei dati dichiarati dal contribuente e determina i livelli minimi e puntuali dei ricavi e compensi attribuiti dal software alla specifica attività svolta. Gerico attesta, dunque, se i ricavi o i compensi dichiarati sono in linea con le stime elaborate dal software rispetto al valore di riferimento calcolato per lo specifico contribuente. In caso di mancata congruità gli uffici possono procedere ad accertamento sulla base degli studi di settore. 89 Gerico è in grado di verificare la presenza di anomalie sul versante della gestione dei fattori produttivi. L’incoerenza esprime, infatti, una valutazione circa la validità economico-aziendalistica degli schemi organizzativi impiegati. Si osserva, peraltro, che in sede applicativa si è verificato come l’incoerenza possa derivare anche dalla dichiarazione di ricavi o compensi notevolmente superiori alle medie di settore. Situazioni di incoerenza di tali indicatori non consentono di effettuare accertamenti in base agli studi di settore, ma unicamente di selezionare le posizioni da sottoporre a controllo. 90 La metodologia utilizzata da Gerico consente di assegnare ciascuna impresa o professionista ad un gruppo omogeneo di appartenenza, rappresentativo del modello organizzativo di settore. Per ciascun gruppo omogeneo, scartati i ventili estremi, è stata individuata una funzione di regressione multipla, che descrive l’andamento dei ricavi e dei compensi in relazione alle specifiche variabili contabili e strutturali dell’azienda o dell’attività professionale. Lo studio di settore viene poi completato attraverso la cd. “analisi discriminante”, allo scopo di assegnare ogni soggetto ad uno o più cluster.
91 In tal senso la circolare n. 4/ir del 14 luglio 2008 del Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti ed Esperti contabili, cit.
92 GARBARINO, Imposizione ed effettività nel diritto tributario, Padova, 2003, 312. Le note sono dell’Autore.
93 Nell’effettuare detta classificazione sono state utilizzate due differenti tecniche. Mediante la prima – c.d. analisi in componenti principali – si riducono il numero delle variabili originarie in un numero inferiore di nuove variabili cercando di contenere al minimo la perdita di informazione; ed infatti tanto maggiore è il numero delle variabili, tanto più complessa risulta la formazione dei gruppi omogenei, onde sono necessari criteri adeguati. Nell’ambito di questa stessa tecnica sono stati attribuiti diversi pesi alle variabili selezionate in funzione dell’influenza sulle caratteristiche dell’attività. Mediante la seconda tecnica – c.d. cluster analysis – sono stati identificati i gruppi omogenei, sulla base delle risultanze della analisi in componenti principali. Nel procedimento di classificazione, le caratteristiche che conferiscono omogeneità ai diversi gruppi non sono state valutate ognuna indipendentemente, ma in funzione delle interrelazioni esistenti fra le stesse: si pensi ad esempio alla interconnessione tra tipologia della clientela e numero dei servizi forniti.
94 Le distribuzioni ventiliche sono le distribuzioni di probabilità in cui per ogni intervallo risiede un ventesimo del totale della popolazione, cosicché vi sono venti intervalli, anche di differente ampiezza, ma con identica frequenza (i.e. numero di contribuenti per ciascun intervallo).
95 In tal senso MICHELACCI – IROLLO, Studi di settore. Valenza probatoria, in Fiscalitax, 2009, VI, 837, i quali (nota 11) aggiungono: ” Sussiste, quindi, un’elevatissima probabilità che i soggetti che vi si collocano all’interno naturalmente dichiarino correttamente il loro volume di ricavi”.
96 V. anche il comma 19 relativamente all’applicabilità di specifici indicatori di normalità economica nei confronti dei contribuenti titolari di reddito d’impresa o di lavoro autonomo, per i quali non si rendono applicabili gli studi di settore. 97 Sull’utilizzo degli indicatori di normalità economica in relazione agli accertamenti basati sugli studi di settore, v. l’art. 4 del d.m. 20 marzo 2007.
98 I punti I e II che seguono sono tratti dalla circolare n. 4/ir del 14 luglio 2008 del Consiglio Nazionale dei Dottori Commercialisti ed Esperti contabili.
99 Tali indicatori sono stati approvati con decreto del Ministro dell’Economia e delle finanze del 20 marzo 2007 e sono diversi a seconda che si tratti di contribuenti esercenti attività d’impresa (rapporto tra costi di disponibilità dei beni mobili strumentali e valore degli stessi; rotazione del magazzino; durata delle scorte;
valore aggiunto per addetto; redditività dei beni strumentali) o di lavoro autonomo (rapporto tra ammortamento dei beni mobili strumentali e valore degli stessi; resa oraria per addetto; resa oraria del professionista).
100 Che comportano un incremento tanto del ricavo e del compenso puntuale tanto del ricavo e compenso minimo derivante dall’applicazione dell’analisi di congruità.
101 Comunicati stampa del Vice Ministro dell’Economia e delle finanze del 27 giugno 2007 e del 3 luglio 2007.
102 A tal fine l’Agenzia delle Entrate ha invitato gli uffici a tener conto delle specifiche condizioni del contribuente, dell’attività svolta, nonché delle possibili cause giustificative già evidenziate nelle circ. n. 31/E del 22 maggio 2007 e n. 38/E del 12 giugno 2007. In queste ultime, l’Agenzia delle Entrate ha predisposto un elenco esemplificativo delle cause che giustificano l’eventuale non congruità rispetto alle risultanze degli studi, anche con riguardo all’applicazione degli INE, risultanze che il contribuente potrà anche evidenziare nel campo “Annotazioni” del Modello di comunicazione dei dati rilevanti per l’applicazione degli studi di settore. Si tratta di tre tipologie di cause relative ad ipotesi di non normalità economica riferibile ai singoli indicatori; ad ipotesi di marginalità economica; a condizioni particolari che possono rendere non attendibili le risultanze dell’applicazione degli studi.
103 Una volta adeguati al maggiore tra i due valori, l’accertamento in rettifica non potrà essere effettuato – ai sensi dell’art. 10, comma 4-bis, della legge n. 146/1998 – se l’ammontare delle attività non dichiarate, con un massimo di 50 mila euro, sia pari o inferiore al 40 dei ricavi o compensi dichiarati. Il tutto a condizione che il contribuente non abbia comunicato dati mendaci ai fini degli studi di settore o non abbia dichiarato la sussistenza non veritiera di cause di esclusione o di inapplicabilità degli stessi.
104 L’art. 15, comma 3-bis, del d.l. n. 81/2007 ha aggiunto all’art. 1 della Finanziaria 2007 il comma 14-bis, laddove è disposto che “gli indicatori di normalità economica di cui al comma 14 hanno natura sperimentale ed i maggiori ricavi, compensi o corrispettivi da essi desumibili costituiscono presunzioni semplici”. 105 Secondo l’Agenzia delle Entrate, nel caso di accertamento fondato su studi a regime la non congruità allo studio (tenuto conto dei valori di coerenza) costituisce presupposto necessario e sufficiente per avviare la procedura di accertamento, previo espletamento del contraddittorio (art. 10, comma 1 e 3-bis, della legge n. 146/1998). Nel caso degli indicatori transitori, invece, tanto l’inizio quanto la conclusione del procedimento dipendono, il primo, dai criteri selettivi fissati annualmente con decreto ministeriale, la seconda, dall’espletamento di una complessa attività amministrativa volta a fornire elementi di prova degli scostamenti riscontrati.
106 Così sempre l’art. 15, comma 3-bis, del d.l. n. 81/2007 che ha aggiunto all’art. 1 della Finanziaria 2007 il comma 14-ter. 107 Il comma 252 dell’art. 1 della legge 24 dicembre 2007, n. 244 ha aggiunto ulteriori periodi all’art. 1, comma 14, della Finanziaria 2007.
108 Con i decreti del Vice Ministro dell’Economia e delle finanze del 6 marzo 2008 sono stati approvati 68 studi di settore, il cui elenco è contenuto nell’Allegato n. 1 alla circ. n. 44/E del 29 maggio 2008. Per questi studi operano gli INE definitivi, e quindi si applica la disciplina degli studi a regime. Per gli altri 138 studi in vigore per il periodo d’imposta 2007, e fino a quando gli stessi non verranno assoggettati ad evoluzione, si applica, invece, la disciplina transitoria. Quanto agli indicatori di normalità economica definitivi introdotti negli studi approvati con i predetti decreti è necessario distinguere tra quelli applicabili alle imprese e quelli applicabili ai professionisti. Quelli applicabili alle imprese sono il rapporto tra costi di disponibilità di beni strumentali e valore degli stessi; la durata delle scorte;
l’incidenza dei costi residuali di gestione sui ricavi (mentre l’indicatore valore aggiunto per addetto è stato utilizzato solo ai fini dell’analisi della coerenza economica). Gli indicatori relativi alle attività professionali sono il rendimento orario e quello giornaliero.
109 In tale ipotesi la circ. n. 44/E del 29 maggio 2008 precisa che sarà preferibile effettuare l’attestazione prevista ai sensi dell’art. 10, comma 3-ter, della legge n. 146/1998, secondo cui in caso di mancato adeguamento ai ricavi o compensi determinati sulla base degli studi di settore, possono essere attestate le cause che giustificano la non congruità dei ricavi o compensi dichiarati rispetto a quelli derivanti dall’applicazione degli studi di settore, nonché le cause che giustificano un’incoerenza rispetto agli indici economici individuati dai predetti studi medesimi possono essere “attestate” dai soggetti abilitati. Tale attestazione viene rilasciata dai professionisti abilitati alla trasmissione delle dichiarazioni, dai responsabili dell’assistenza fiscale dei CAF imprese, nonché dai dipendenti e funzionari delle associazioni di categoria abilitati all’assistenza tecnica, di cui all’art. 12, comma 2, del d.lgs. n. 546/1992. La circ. n. 44/E del 2008 ha evidenziato che la possibilità di intervenire sulle variabili che incidono sugli indicatori di normalità non determina variazioni sul risultato finale di Gerico, con la conseguenza che il valore di riferimento ai fini della congruità resta quello derivante dall’applicazione dell’analisi di congruità e normalità evidenziato da Gerico.
110 Sulla base delle informazioni inserite negli appositi campi del modello dei dati rilevanti ai fini dell’applicazione degli studi di settore.
111 Introdotta con il d.m. 30 marzo 1999, recante l’individuazione delle aree territoriali omogenee in relazione alle quali differenziare le modalità di applicazione degli studi di settore. 112 L’art. 83 del d.l. 25 giugno 2008, n. 112, ha previsto, in attuazione del federalismo fiscale, l’elaborazione degli studi di settore anche su base regionale e comunale (comma 19). Le modalità di attuazione saranno stabilite con successivo Decreto del Ministro delle finanze, secondo criteri di gradualità e garantendo la partecipazione anche dei comuni (comma 20).
113 Restano comunque numerosi problemi legati alla territorialità intracomunale, con particolare riguardo ai grandi comuni in cui si riscontrano forti squilibri socio-economici tra i diversi quartieri della stessa città.
114 Circ. n. 110/E del 21 maggio 1999 e circ. n. 148/E del 5 luglio 1999.
115 Così circ. n. 5/E del 23 gennaio 2008.
116 Al riguardo, va però rilevato che l’Agenzia (circ. n. 47/E del 18 giugno 2008) fa riferimento solo ai soggetti che “naturalmente” si collocano all’interno dell’intervallo di confidenza, anche se la giurisprudenza (così Comm. trib. prov. Rovigo n. 91 del 30 dicembre 2005 e Comm. trib. prov. Vicenza n. 282 del 17 agosto 2006) considera sostanzialmente identiche le posizioni di questi ultimi con quelli che vi si collocano per adeguamento.
117 Così, criticamente, BEGHIN, I soggetti sottoposti all’applicazione degli studi di settore, in FALSITTA, Manuale di diritto tributario, Padova, 2008, Vol. II, 643.
118 La Guida interattiva agli studi (punto 18) afferma che “L’importo determinato in base agli studi di settore ha il valore di presunzione relativa (..) La procedura di elaborazione degli studi di settore garantisce affidabilità, obiettività e trasparenza al ragionamento presuntivo, ma non priva il contribuente della possibilità di fornire prova contraria adducendo argomentazioni tali da dimostrare la non attendibilità del risultato dell’applicazione dello studio in relazione alla specifica situazione oggetto di controllo. È infatti, evidente che la validità delle metodologie utilizzate non è garanzia della loro sicura applicabilità a tutti i contribuenti analizzati. Lo scostamento potrà essere giustificato non solo in base a prove documentali certe, che abbiano un riscontro diretto ed immediatamente quantificabile sui ricavi dichiarati, ma anche in base ad un ragionamento di tipo presuntivo che si fondi su elementi certi e che conduca a valutazioni che abbiano una reale capacità di convincimento dell’ufficio ( .. ) per evitare che i risultati derivanti dall’applicazione degli studi di settore possano essere validamente opposti dai contribuenti, è necessario, però, che la determinazione dei maggiori ricavi o compensi si fondi su obiettivi elementi e su una convincente ricostruzione logica ed argomentata dei ricavi o dei compensi stessi che tenga conto delle peculiarità della posizione soggettiva sottoposta a controllo”. Le principali istruzioni ministeriali in materia sono la circolare 21 maggio 1999, n. 110/E, e le circolari 8 giugno 2000, n. 121/E, 13 giugno 2001, n. 54/E, 27 giugno 2002, n. 58/E; 17 luglio 2003, n. 39/E; 18 giugno 200, n. 427/E; 21 giugno 2005, n. 32/E; 22 giugno 2006, n. 23/E; 22 maggio 2007, n. 31/E; 12 giugno 2007, n. 38/E; 23 gennaio 2008, n. 5/E (quest’ultima riportata nel seguito del paragrafo, mentre le circolari a partire dal 2007 sono allegate alla relazione nell’ordine indicato nel paragrafo 5.a.1., in fine). 119 Ex multis, Sez. V, sent. n. 2891 del 27/02/2002 Pres. Cantillo, Est. Falcone; n. 13995 del 27/09/2002, Pres. Papa, Est. Tirelli (Rv. 557649); n. 5870 del 14/04/2003, Pres. Cristarella Orestano, Est. Ebner (Rv. 562127); n. 9946 del 23/06/2003, Pres. Raggio, Est. Marigliano (Rv. 564466); n. 18038 del 09/09/2005, Pres. Favara, Est.: Ferrara (Rv. 584596); n. 26388 del 05/12/2005, Pres. Saccucci, Est. D’Alonzo (Rv. 587338); n. 641 del 13/01/2006, Pres. Prestipino, Est. Genovese (Rv. 588674); n. 7914 del 30/03/2007, Pres. Saccucci, Est. Tirelli (Rv. 596861); n. 18857 del 07-09-2007, Pres. Saccucci, Est. Chiarini; n. 19556 del 21/09/2007, Pres. Paolini, Est. Chiarini; n. 22938 del 30/10/2007, Pres. Paolini, Est. Genovese; n. 2380 del 3/02/2006, Pres. Favara, Est. Ferrara; n. 15416 dell’11/06/2008, Pres. Saccucci, Est. Sotgiu; n. 16862 del 20/06/2008, Pres. Saccucci, Est. Sotgiu.
120 Sez. V, sent. n. 5977 del 14/03/2007, Pres. Riggio, Est. Magno (Rv. 597040).
121 Sez. V, sent. n. 17229 del 28/07/2006, Pres. Riggio, Est. Meloncelli, che aggiunge: “Risulta, infatti, sia dalla descrizione sommaria dei fatti di causa effettuata dalla ricorrente nel suo ricorso per cassazione sia dalla sentenza impugnata che, nella fase procedimentale amministrativa che va dalla dichiarazione tributaria all’avviso di accertamento, tra ufficio tributario e contribuente non s’è svolto alcun contraddittorio, cosicché è vano invocare uno studio di settore, che ha struttura oggettiva e soggettiva categoriale e, quindi, di genere, come strumento idoneo a regolare, di per sè, un caso di specie ultima”.
122 Oltre alla sentenza indicata nella nota che precede, v. Sez. V, sent. n. 9135 del 03/05/2005, Pres. Saccucci, Est. Cicala (Rv. 583459, n. 9216 del 18/04/2007, Pres. Raggio, Est. Zanichelli (Rv. 598088), n. 16702 del 27/07/2007, Pres. Raggio, Est. Sotgiu (Rv. 599482) e n. 20256 del 23/07/2008, Pres. Paolini, Est. Di Iasi, le quali, definiti gli studi di settore come , hanno loro equiparato il regolamento previsto dall’art. 59, comma primo, del d.lgs. 15 dicembre 1997, n. 446, adottato a norma del precedente art. 52, con il quale i comuni hanno la facoltà, tra l’altro, di “determinare periodicamente e per zone omogenee i valori venali in comune commercio delle aree fabbricabili, al fine della limitazione del potere di accertamento del comune” (lettera g). Per l’esplicita assimilabilità degli studi di settore alle comuni presunzioni “hominis” v. anche, in motivazione, Sez. V, sent.n. 13995 del 27/09/2002, Pres. Papa, Est. Tirelli; n. 9946 del 23/06/2003, Pres. Raggio, Est. Marigliano; n. 17230 del 28/07/2006, Pres. Riggio, Meloncelli. L’affermazione è comunque implicitamente sottesa alle decisioni che escludono ogni automatismo circa la possibilità di fondare l’accertamento sullo scostamento tra quanto dichiarato ed i dati forniti dagli studi di settore (retro).
123 Si veda Sez. V, sent. n. 8643 del 06/04/2007, Pres. Magno, Est. Magno, in motivazione: [L’art. 62-sexies, comma 3, del d.l. n. 331 del 1993] dispone fra l’altro che gli accertamenti condotti ai sensi del menzionato articolo 39 (comma 1, lett. d) “possono essere fondati anche sull’esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta, ovvero dagli studi di settore”, cui si riferisce il precedente articolo 62 bis. In virtù di tale norma, l’ufficio – allorché ravvisi “gravi incongruenze” fra i valori dichiarati e quelli ragionevolmente attesi in base alle caratteristiche dell’attività svolta od agli “studi di settore” – può quindi fondare, senza obbligo d’ispezione dei luoghi, se non ritenuto assolutamente necessario, l’accertamento di maggiori ricavi, rispetto a quelli dichiarati, anche su tali “gravi incongruenze” e quindi anche al di fuori delle ipotesi previste dall’articolo 39 citato: il che costituisce, in pratica, un ulteriore elemento presuntivo, di carattere legale, certamente ammissibile anche in presenza di contabilità formalmente regolare (come, in genere, si verifica in presenza di gravi, precise e concordanti presunzioni: Cass. nn. 10649/2001, 8494/1998, 4555/1998) “. Identiche affermazioni si rinvengono in Sez. V, sent. n. 24436 del 2/10/2008, Est. Marigliano e Sez. V, sent. n. 2876 del 6/02/2009, Pres. Papa, Est. Marigliano.
124 Oltre Sez. V, sent. n. 17229 del 28/07/2006, cit., v., ex multis, Sez. V, sent.n. 13995 del 27/09/2002, Pres. Papa, Est. Tirelli; n. 9946 del 23/06/2003, Pres. Raggio, Est. Marigliano; n. 9135 del 03/05/2005, Pres. Saccucci, Est. Cicala (in motivazione). 125 Nella stessa prospettiva si veda anche Sez. V, sent. n. 26919 del 15/12/2006, Pres. Saccucci, Est. Sotgiu (Rv. 595108): “L’art. 39, primo comma, lettera d, del d.P.R. 29 settembre 1973 n. 600 non impedisce, pure in presenza di contabilità formalmente regolare, l’accertamento in rettifica, che presuppone, appunto, scritture regolarmente tenute e tuttavia contestabili in forza di valutazioni condotte sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, che possono essere costituite da studi di settore, collegabili, ai sensi dell’art. 62 sexies del d.l. 30 agosto 1993 n. 331 (conv., con modif., dalla legge n. 427 del 1993), a gravi incongruenze tra i ricavi dichiarati, le dimensioni ed il giro d’affari dell’azienda, di modo che, in base ad un processo logico analitico induttivo, possa fondatamente dubitarsi della completezza e fedeltà della contabilità esaminata”.
126 Sez. V, sent. n. 8643 del 06/04/2007, Pres. Magno, Est. Magno (Rv. 598094) : “In tema di accertamento delle imposte sui redditi, l’art. 62 sexies del d.l. 30 agosto 1993, n. 331 (convertito in legge 29 ottobre 1993, n. 427) consente, pure in presenza di contabilità formalmente regolare e senza obbligo di ispezione dei luoghi, se non assolutamente necessaria, la rettifica induttiva del reddito d’impresa qualora emergano gravi incongruenze tra i ricavi dichiarati e quelli ragionevolmente attesi in base alle caratteristiche dell’attività svolta o agli studi di settore, e quindi anche al di fuori delle ipotesi previste dell’art. 39, primo comma, lettera d, del d.P.R. n. 600 del 1973″. Identiche affermazioni si rinvengono nella sentenza n. 4127 del 20/02/2009, Pres. Miani Canevari, Est. Greco.
127 Entrambi i provvedimenti sono così motivati: ” in punto di fatto, risulta dalla sentenza che i ricavi di impresa dichiarati dal contribuente sono coerenti con i cosiddetti studi di settore introdotti dalla legge n. 146 del 1998 e (…) in punto di diritto, questa Corte ha affermato che gli studi di settore vanno preferiti ai parametri di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, attesa la natura più raffinata del nuovo mezzo di accertamento, desumibile dalla normativa stessa che lo ha introdotto (Cass. 9613/08)”. 128 La questione dell’accertamento nei confronti dei contribuenti congrui non è stata ancora analizzata a pieno dalla giurisprudenza e dalla dottrina. BASILAVECCHIA, Funzione impositiva e forme di tutela, Torino, 2009, 224, afferma al riguardo: ” Problema diverso, ancora poco analizzato, è quello che si propone quando la dichiarazione del contribuente è già adeguata – congrua – rispetto al livello di ricavi degli studi, ed è l’ufficio ad accertare un ammontare ancora maggiore. Ovvio che l’ufficio debba provare tale maggior ammontare; ed è una prova particolarmente rigorosa, quando l’ufficio utilizza a sua volta metodi presuntivi empirici, che la normativa non preclude, ma che vanno valutati con rigore dato che una rettifica presuntiva che smentisce gli studi denota un singolare contrasto con lo strumento”.
129 Sez. V, sent. n. 17038 del 02/12/2002, Pres. Cristarella Orestano, Est. Monaci, in motivazione (Rv. 558884) e, da ultimo, n. 1136 del 19/01/2009, Pres. Papa, Est. Giacalone, n. 2876 del 6/02/2009, Pres. Papa, Est. Marigliano e n. 3585 del 13/02/2009, Pres. Cicala, Est. Giacalone.
130 Sez. V, sent. n. 19209 del 6/09/2006, Pres. Favara, Est. Sotgiu. 131 Sez. V, sent. n. 1797 del 28/01/2005, Pres. Cristarella Orestano, Est. Ferrara (Rv. 581155). Conformi, ex multis, n. 793 del 20/01/2004, Pres. Saccucci, Est. Bielli; n. 21165 del 31/10/2005, Pres. Paolini, Est. Monaci (Rv. 586173); n. 25684 del 04/12/2006, Pres. Prestipino, Est. Scuffi (Rv. 595685); n. 1136 del 19/01/2009, Pres. Papa, Est. Giacalone.
132 V. punto 2.2. circ. 12 giugno 2007, n. 38/E: “In merito all’utilizzo degli studi evoluti per gli accertamenti riguardanti periodi d’imposta precedenti al 2006, si conferma l’orientamento già adottato negli anni precedenti circa l’opportunità, in sede di contraddittorio, di utilizzare le risultanze dello studio evoluto per giustificare eventuali scostamenti tra l’ammontare dei ricavi dichiarati e quelli presunti in base alla versione dello stesso studio vigente per il periodo d’imposta accertato. In particolare, occorrerà verificare se il risultato derivante dalla “congruità” dello studio evoluto (senza considerare l’analisi della normalità economica) sia in grado di poter meglio rappresentare la effettiva situazione del contribuente anche per i periodi d’imposta precedenti e con riferimento alle medesime attività esercitate e previste nello studio evoluto, in quanto più aggiornato ed affinato rispetto alla versione previgente”.
133 In Riv. dir. trib., 2008, V, 323, con nota di BEGHIN, Il dualismo tra studi di settore evoluti e non evoluti: una battaglia di retroguardia.
134 BEGHIN, Il dualismo…, cit.
135 Afferma l’A.: ” Si rifletta, ad esempio, sulle seguenti questioni pratiche. L’approvazione di uno studio evoluto che migliori lo studio precedente, a vantaggio del contribuente, quali effetti produce sugli imprenditori e sui liberi professionisti che, sulla base della dichiarazione originariamente presentata, si siano trovati in posizione di “non congruità”? Quella situazione di “non congruità” incentrata sul vecchio studio può divenire situazione di “congruità” in virtù dell’approvazione del nuovo studio? Coloro che, in quanto originariamente “non congrui”, abbiano optato per l’adeguamento spontaneo potranno oggi, sulla base dello studio evoluto che li abbia resi “congrui”, chiedere il rimborso?”. 136 FALSITTA, Manuale di diritto tributario, Padova, 2008, Vol. I, 414.
137 FANTOZZI, Gli studi di settore nell’accertamento del reddito d’impresa, in PERRONE e BERLIRI (a cura di), Diritto tributario e Corte costituzionale, Napoli- Roma, 2006, 392.
138 In particolare si è affermato: “Non è (..) il caso di far leva sul testuale riferimento all’art. 39, primo comma, lettera d) (..). Infatti, se attraverso gli studi di settore si determinano i “ricavi, che esprimono un indice di normalità economica e se, sulla base degli stessi studi, si può avere una “globale”
rideterminazione dei ricavi contabilizzati, l’accertamento non può che poggiare su un sostanziale giudizio di inattendibilità delle scritture, inquadrandosi, pertanto, nel secondo comma del citato art. 39″ (cos BEGHIN, L’accertamento in base a studi di settore, Padova, 2005, 157, ove nello stesso senso è citato LUPI, Manuale giuridico professionale di diritto tributario, Milano 2001, 557). 139 In particolare si è ribattuto: “la collocazione dell’art. 62-sexies nell’ambito dell’art. 39, primo comma, non può considerarsi inappropriata. Coerentemente a quanto disposto dalla lett. d) di tale comma, essa infatti ha la precipua funzione di sottolineare la natura induttiva dell’accertamento in base a studi di settore con riferimento ad un dato – l’ammontare complessivo di “ricavi, compensi e corrispettivi” – che costituisce pur sempre una componente, anche se la principale, del reddito e non il reddito nel suo complesso .. Aggiungere alle presunzioni individuali (gravi, concordanti e precise) indicate nella lett. d) una presunzione fondata su dati globali non muta, in particolare, la natura dell’accertamento induttivo di una componente positiva di reddito” (GALLO, Ancora sulla questione reddito normale – reddito effettivo:
la funzione degli studi di settore, in Giur. imp., 2000, 486). 140 VERSIGLIONI, Prova e studi di settore, Milano, 2007, 171. Le note sono dell’A. con integrazioni del relatore quanto agli estremi dei riferimenti bibliografici.
141 In generale, circa la inidoneità del dato statistico (o medio) a costituire il fatto noto della presunzione e con riguardo all’attitudine di esso a rappresentare l’id quod plerumque accidit, purché i criteri di calcolo si fondino su scostamenti reali e non astratti, si segnala l’autorevole orientamento di MANZONI, Potere di accertamento e tutela del contribuente nelle imposte indirette e nell’IVA, Milano, 1993, 203. Va osservato, però, che l’Autore ammette che il dato medio possa costituire mezzo di costruzioni di una presunzione legale. Per l’orientamento indicato nel testo, si veda, ad esempio, MARCHESELLI, L’efficacia probatoria degli studi di settore, nota a Comm. Trib. Prov. Macerata, Sez. III, 5 dicembre 2003 n. 51, in GT- Riv. Giur. Trib., 2004, 991, il quale non manca peraltro di precisare che la rilevanza pratica attribuibile all’indagine sulla natura degli studi di settore potrebbe scemare sensibilmente se questi fossero effettivamente redatti e aggiornati in modo da corrispondere a canoni di probabilità, se fosse dato il più ampio spazio alla facoltà di prova contraria e se gli uffici manifestassero la più piena disponibilità a ricercare e valorizzare, anche attraverso una presunzione semplice, tale da vincere la presunzione inerente agli studi, gli elementi offerti dal contribuente (analoghe considerazioni varrebbero per i coefficienti presuntivi e per il redditometro). Sostengono la natura di presunzioni semplici degli studi di settore, fra gli altri, anche BEGHIN, L’illegittimità dell’avviso di accertamento carente di specifica motivazione quanto alle gravi incongruenze previste dall’art. 62-sexies del d.l. n. 331/1993: un’adeguata reazione alla connotazione “statistico-probabilistica” degli studi di settore (nota a Comm. Trib. Prov. Milano, Sez. VIII, 18 aprile 2005 n. 60), in Riv. Dir. Trib., 2005, 449 e FAZZINI, L’accertamento per presunzioni: dai coefficienti agli studi di settore, in Rass. trib., 1996, 309.
142 Per MARCHESELLI, L’efficacia probatoria degli studi di settore, cit., attribuire agli studi la natura di presunzioni semplici significa, in primo luogo, richiedere all’ufficio di ” convincersi e convincere (ergo: di elaborare e motivare)”, volta per volta, circa la plausibilità dello studio, pena la illegittimità dell’accertamento recante una motivazione stereotipa; significa, in secondo luogo, che “permanendo sull’ufficio l’onere della prova”, ben possa censurarsi ” il fatto che questo non abbia calato lo studio nella realtà concreta della situazione del singolo contribuente (vuoi perché non abbia valorizzato i dati raccolti, vuoi perché non li abbia acquisiti secondo i canoni di una ulteriore, diligente e ragionevole istruttoria)”; in terzo luogo, sul piano processuale. significa rimettere al Collegio giudicante, volta per volta, la valutazione circa la bontà della inferenza operata dall’amministrazione, “auspicando” a tal fine il pieno esercizio, da parte della Commissione tributaria adita, della facoltà di disporre la prova in base all’art. 7, comma 1 del d.lgs. n. 546/1992.
143 Si veda, ancora, MARCHESELLI, L’efficacia probatoria degli studi di settore, cit., secondo il quale, pur dovendosi riconoscere che le disposizioni riguardanti gli studi, non diversamente da quelle relative ai coefficienti presuntivi previgenti, non consentono di risolvere in termini espliciti ed assolutamente univoci la questione della natura di tali strumenti, sarebbe tuttavia possibile individuare nella normativa in discorso alcuni dati significativi a favore della tesi delle presunzioni semplici. Si tratterebbe, in particolare, dell’inserimento degli studi, in base al terzo comma dell’art. 62-sexies del d.l. n. 331/1993, nel contesto dell’accertamento di cui al primo comma, lettera d), dell’art. 39 del d.P.R. n. 600/1973, che fa riferimento unicamente a presunzioni semplici, e giammai a presunzioni legali. Inoltre, la menzione nello stesso testo dell’art. 62-sexies delle “caratteristiche e condizioni di esercizio dell’attività” rinvierebbe pacificamente, data la genericità di tale espressione, a presunzioni semplici. D’altro canto, prosegue l’Autore, la configurazione come presunzione legale degli studi di settore, il cui fondamento probabilistico non è affatto agganciato a presupposti di tipo concreto e obiettivo, violerebbe gli arti. 3 e 53 Cost., sotto il profilo della ragionevolezza del criterio assunto come base di calcolo del tributo, non solo in considerazione delle garanzie vantate dal contribuente contro gli abusi del pubblico potere, ma anche e simmetricamente, in funzione dell’interesse pubblico all’adempimento (rectius: all’esatto adempimento) del dovere di solidarietà. 144 Sul punto si veda, in particolare, BEGHIN, L’illegittimità dell’avviso …., cit., 455.
145 Si veda l’art. 10, comma 4 della legge 146/1998, a mente del quale gli accertamenti basati sugli studi di settore non possono essere effettuati nei confronti: a) dei contribuenti che hanno dichiarato ricavi o compensi di ammontare superiore al limite stabilito per ciascuno studio di settore dal relativo decreto di approvazione (limite che comunque non può superare euro 5.164.568, 99 e, a decorrere dal primo gennaio 2007, euro 7.500.000); b) dei contribuenti che hanno iniziato o cessato l’attività nel periodo d’imposta; e) dei contribuenti che non si trovano in un periodo di normale svolgimento dell’attività (si ricordi, inoltre, che a mente del primo comma del predetto art. 10, sono esclusi dall’applicazione degli studi di settore i contribuenti con periodo d’imposta di durata superiore o inferiore a dodici mesi).
146 In accordo con chi ricostruisce le presunzioni legali tributarie anche in base alla possibilità, ad esse peculiare, di distinguere il momento della operatività da quello dell’efficacia. Sul punto, si veda GENTILLI, Le presunzioni nel diritto tributario, Padova, 1984, 64. Per una diversa impostazione, v. VERSIGLIONI, Presunzioni legali e prova del fatto ignoto nell’accertamento dell’IVA., in Riv. Dir. Trib., 2000, 139-238.
147 In tal senso, sostanzialmente, LUPI, Manuale giuridico professionale di diritto tributario, Milano, 2001, 573, per il quale l’importo dei ricavi e compensi determinato in base agli studi di settore avrebbe (secondo la stessa regola di coefficienti e parametri) valore di presunzione legale relativa; esso, cioè, sussistendone le condizioni di applicabilità a seconda del regime contabile e della attendibilità delle scritture, potrebbe essere posto a base dell’accertamento senza che gli uffici debbano fornire altra dimostrazione. L’uso degli studi sarebbe sufficiente “ope legis” ad assolvere l’onere della prova gravante sull’ufficio: di talché, la necessità di dare una prova contraria si sposterebbe sul contribuente e ciò spiegherebbe la ricorrente affermazione secondo cui gli strumenti in esame ” invertono l’onere della prova “. Pertanto, il contribuente accertato in base agli studi potrebbe, se del caso, far valere tutte le specifiche caratteristiche della propria attività, al fine di veder confermata dal giudice la congruità dei dati dichiarati. Ad analoghe conclusioni pervengono, fra gli altri, GALLO, Ancora sulla questione reddito normale – reddito effettivo: la funzione degli studi di settore, in Atti del Convegno di Studi I nuovi studi di settore, allegato a Il Fisco, 2000, 39 e GARBARINO, Imposizione ed effettività nel diritto tributario, Padova, 2003, 316. Secondo CIPOLLA, La prova tra procedimento e processo tributario, Padova, 2005, 640, negli studi di settore (come nei coefficienti presuntivi e nei parametri) si potrebbe scorgere una presunzione legale relativa in ordine al presupposto del tributo (an), ed una presunzione legale impropria in ordine alla determinazione (quantum) dei ricavi e compensi (per l’Autore, op. cit., 627, nota 301, la locuzione “presunzioni improprie” starebbe ad indicare quelle ipotesi in cui la legge ” non pone un collegamento inferenziale tra fatto noto e fatto ignoto, secondo lo schema delineato dall’art. 2727 c.c., ma dà per verificato un fatto fino a prova del suo contrario”). Tuttavia, prima ancora che una dispensa dell’ufficio dai propri oneri probatori, gli studi comporterebbero ” l’alleggerimento dell’obbligo di motivare l’accertamento”. Val quanto dire che essi, nella fase procedimentale, svolgerebbero una funzione non già probatoria, bensì paracognitiva, diretta a semplificare la fattispecie sostanziale rappresentata dalla base imponibile del tributo. Diversamente, in sede processuale, si evidenzierebbe la funzione propriamente presuntiva degli studi, i quali solleverebbero l’ufficio dall’onere di dimostrare la rispondenza al vero delle correlazioni parametriche in essi cristallizzate. Il contribuente, a sua volta, avrebbe ” non tanto l’onere di fornire la prova contraria, quanto quello di provare l’inapplicabilità nei suoi confronti ” delle parametrazioni poste dagli strumenti de quibus. Sembrerebbe propendere per la tesi della presunzione semplice dotata ex leggi dei requisiti di gravità, precisione e concordanza (ferma restando l’inversione dell’onere probatorio in capo al contribuente) RUSSO, Manuale di diritto tributario, Milano, 2002, 311, laddove afferma che con l’art. 62-sexies del d.l. n. 331/1993, il legislatore ” ha legittimato l’amministrazione finanziaria ad operare un collegamento in chiave presuntiva tra il reddito imponibile assunto nella sua dimensione effettiva e quello scaturente dagli studi di settore.., così riconoscendo a siffatta presunzione i requisiti di gravità, precisione e concordanza ” richiesti dall’art. 39, primo comma, lett. d) del d.P.R. n. 600/1973. Analoga, se non si erra, sembra la tesi sostenuta da MULEO, Contributo allo studio del sistema probatorio nel procedimento di accertamento, Torino, 2000, 213, il quale, pur evidenziando l’indispensabilità della conoscenza della formula matematico-statistica, considera gli studi come indizi, gravi, precisi e concordanti, dotati dell’effetto di inversione dell’onere probatorio.
148 Si veda, per tutti, GIORGI, L’accertamento basato su studi di settore: obbligo di motivazione ed onere della prova, in Rass. trib., 2001, 659.
149 Così, GIORGI, L’accertamento….., cit., 687.
150 Trattasi delle presunzioni di verosimiglianza costruite dalla giurisprudenza (pur in assenza di una norma che espressamente lo consenta), in guisa da determinare una relevatio ab onere probandi per la parte a favore della quale la presunzione è posta, con la conseguente inversione dell’onere probatorio a carico della parte che ha interesse a dimostrare il contrario. Si veda, in argomento, VERDE, Le presunzioni giurisprudenziali, in Foro It., 1971, V, 177;
VERDE, L’onere della prova nel processo civile, Napoli, 1974, 135;
TARUFFO, Presunzioni (diritto processuale civile), in Enc. Giur., vol. XXIV, Roma, 1991, 1.
151 Secondo TARUFFO, Presunzioni., cit., 3, le c.d. presunzioni giurisprudenziali presenterebbero una struttura equiparabile a quella delle presunzioni legali relative, poiché la giurisprudenza, nel crearle, non formulerebbe un’inferenza dal fatto noto a quello ignoto per accertarlo presuntivamente, ma lo presumerebbe senza accertarlo, sollevando il giudice dalla conoscenza della veridicità del fatto (salva, s’intende, la prova contraria eventualmente prodotta dalla parte onerata).
152 GIORGI, L’accertamento., cit., 689.
153 Secondo GIORGI, L’accertamento…, cit., 685, le difficoltà di ricondurre nel novero delle presunzioni legali relative gli studi di settore scaturirebbero dal fatto che essi codificano un ragionamento presuntivo attraverso una formula matematica, il cui risultato non è un valore puntuale, bensì una fascia di valori. D’altra parte, poiché comunque gli studi fornirebbero una prima fase di ragionamento presuntivo, costituente il punto di partenza per le successive elaborazioni dell’ufficio, e poiché tale punto di partenza vincolerebbe il giudice, neanche sarebbe possibile inserire gli studi nell’ambito delle presunzioni semplici.
154 La posizione GIORGI, L’accertamento…. cit., è così spiegata da GUERRA – CORVAJA, Studi di settore: aspetti operativi e problematiche applicative con appendice, in Il Fisco, 2006, XXX, 4467 : ” [Secondo l’A.] gli studi di settore [sono] un “fenomeno misto”, posto che essi non possono essere ricondotti ne’ fra le presunzioni legali relative ne’ fra quelle semplici. Infatti, non potrebbero rientrare fra le prime in quanto il risultato che scaturisce da GE.RI.CO. non è necessariamente un valore puntuale, bensì una fascia di valori che necessita di una personalizzazione del risultato sul singolo contribuente. D’altra parte, il ragionamento presuntivo è prestabilito normativamente e “non può mancare di esercitare una certa forma di coercizione, in mancanza di prova contraria, nei confronti del giudice e, quindi, di costituire quella relevatio ab onere probandi tipica delle presunzioni legali relative. Tali argomentazioni – ad avviso dell’Autore citato – consentono di affermare che l’ufficio accertatore dovrà provare che quella presunzione è utilizzabile in quello specifico caso, mentre sarà sollevato dal dimostrare il procedimento inferenziale con cui dal fatto noto si presume il fatto ignoto. In sostanza, l’unico onere probatorio in capo all’ufficio riguarderebbe l’applicabilità degli studi alla (concreta) realtà aziendale del contribuente; una volta riscontrata la possibilità di procedere al relativo utilizzo, il reddito di quest’ultimo potrebbe essere quantificato sulla base delle sole risultanze degli studi di settore [nota aggiunta dal relatore].
155 RUSSO, Manuale…., cit., 310-311.
156 Ibidem.
157 TOSI, Le predeterminazioni normative nell’imposizione reddituale. Contributo alla trattazione sistematica dell’imposizione su basi forfetarie, Milano, 1999, 270. Per questo Autore la nozione di predeterminazione normativa ” attiene non già ai percorsi logico-argomentativi propri della funzione accertativi o giudiziaria – nei quali pure l’esistenza di un fatto fiscalmente rilevante può, a certe condizioni, essere affermata alla stregua di un ragionamento basato su criteri forfetari – bensì a quegli strumenti di fonte normativa, sia essa legislativa o regolamentare, in forza dei quali un dato stabilito ex ante, o comunque determinabile in base a criteri prefissati, è destinato a prendere il posto del dato effettivo, rilevando esso stesso e non quest’ultimo ai fini della tassazione “.
158 Di una possibile rilevanza sostanziale degli studi di settore parlano anche DI PIETRO, Rilevanza sostanziale delle nuove procedure di accertamento?, in AA.VV., Il nuovo accertamento tributario tra teoria e processo, a cura di PREZIOSI, Roma-Milano, 1999, 29 e GALLO, Ancora sulla questione reddito normale – reddito effettivo, cit., passim.
159 Non poggerebbe, cioè, su “una massima di comune esperienza, intesa come collegamento all’id quod plerumque accidit ” (TOSI, Le predeterminazioni, cit., 24).
160 TOSI, Le predeterminazioni, cit., 27-30. Rileva l’Autore che sotto quest’ultimo profilo ” si potrebbero evidenziare dei tratti in comune con le figure che vengono denominate finzioni, assimilazioni, tipizzazioni, esemplificazioni legali, ecc. “, trattandosi pur sempre di fattispecie che ” postulano una disciplina costruita tutta sul piano normativo, senza aver riguardo, o addirittura in contrasto, con la realtà effettiva “.
161 In effetti, coerentemente con l’impostazione seguita, TOSI, Le predeterminazioni, cit., 37, precisa che, mancando nell’accertamento fondato sugli studi (come su ogni altra predeterminazione normativa) una vera e propria prova ” positiva ” dell’elemento reddituale accertato (il quale, come si è detto, verrebbe semplicemente predeterminato sul piano normativo), neppure si potrebbe parlare, in relazione ad esso, di una vera e propria prova ” contraria “. Piuttosto, secondo l’Autore, sempre ed unicamente rispetto al medesimo piano normativo su cui opererebbero (con tendenziale prevalenza rispetto alla realtà effettiva) gli studi di settore, il contribuente sarebbe chiamato a fornire ” i ragguagli necessari a far emergere la specificità della propria situazione “, in guisa da poter scongiurare la soccombenza (altrimenti scontata) nell’eventuale giudizio dinanzi alle Commissioni tributarie. 162 Il passaggio della tesi di VERSIGLIONI è così riassunto da CORASANITI, La natura giuridica degli studi di settore ed il problema dell’onere della prova, in Dir. e prat. trib., 2008, I, 13. 163 Emblematici, da ultimo, CORRADO, Accertamenti standardizzati e motivazione dell’avviso di accertamento: l’atto è illegittimo in difetto di un’adeguata replica alle deduzioni fornite dal contribuente in sede di contraddittorio endoprocedimentale, nota a Cass. 22 febbraio 2008 n. 4624, in Dir. e prat. trib., 2008, VI, P II, 1078 e NICCOLINI, Studi di settore e motivazione: riflessioni alla luce dei più recenti interventi legislativi, in Dir. e prat. trib., 2008, VI, P. I, 1089.
164 MARCHESELLI, Le presunzioni nel diritto tributario: dalle stime agli studi di settore, cit., 280. Le note sono dell’Autore. 165 Comm. Trib. prov. Milano, sez. VIII, 13 aprile 2005, in Riv. dir. trib., 2005, II, 449 ss., con nota di BEGHIN, Illegittimità dell’avviso di accertamento carente di specifica motivazione quanto alle “gravi incongruenze” previste dall’art. 62-sexies, comma 3, del d.l. n. 331/1993: un’adeguata reazione alla connotazione “statistico-probabilistica” degli studi di settore; in Corr. trib., 2005, 2403, con nota di MARCHESELLI, Illegittimo l’accertamento se non sono “gravi” le incongruenze con il dichiarato, ritiene che essa debba ammontare almeno al 25-30 .
166 L’affermazione, contenuta nella sentenza citata nella nota che precede, secondo la quale un accertamento fondato sugli studi di settore per essere plausibile dovrebbe portare a un risultato di almeno 1/4 superiore al dichiarato è del tutto immotivata e aprioristica. Essa finisce, a ben vedere a imporre all’accertamento basato sugli studi un limite non previsto dalla legge e, quel che è peggio, non corrispondente a nessuna massima di esperienza. La realtà economica muta non solo settore per settore (di questo si potrebbe ritenere che i singoli studi abbiano tenuto conto) ma anche situazione per situazione, e non è affatto detto che la plausibilità dell’accertamento fondato sullo studio si possa sempre misurare in proporzione al dato meramente quantitativo dello scostamento tra dichiarato e risultante dagli studi. Ad esempio, è diverso il contesto conoscitivo di un accertamento fondato sugli studi e relativo a un contribuente tenuto a una contabilità rigorosa e con clientela tutta professionale (presumibilmente interessata a una esatta rappresentazione anche fiscale delle vicende) rispetto all’applicazione dello studio a un commerciante al minuto. Questo tentativo di fissare una soglia di gravità dell’accertamento, in definitiva, non è molto dissimile dal tentativo di stabilire in astratto a cosa corrispondano i requisiti di gravità precisione e concordanza delle presunzioni semplici. 167 FANTOZZI, Gli studi di settore nell’accertamento del reddito d’impresa, cit., 393-394. Le note sono dell’Autore. 168 In particolare, pur condividendo l’assunto per cui gli stadi di settore costituiscono “di per se stessi un adeguato supporto all’accertamento”, si è affermato che “l’aggettivo gravi vuole solo avvertire che le discrepanze devono avere caratteristiche tali da poter essere ragionevolmente imputabili a consistenti ricavi non registrati, piuttosto che alle inevitabili imprecisioni del calcolo extracontabile effettuato dall’ufficio” (TOSI, Le predeterminazioni normative nell’imposizione reddituale, Milano 1999, 279 e nota 377, ove nello stesso senso è citato LUPI).
169 In tal senso GALLO, Ancora sulla questione reddito normale – reddito effettivo: la funzione degli studi di settore, cit., 486. 170 PARENTE, Notizia di reato e studi di settore, cit., 528. 171 LA ROSA, Principi di diritto tributario, Torino, 2004, 131. 172 DE MITA, Principi di diritto tributario, Milano, 2008, 318. 173 FANTOZZI, Gli studi di settore nell’accertamento del reddito d’impresa, in PERRONE e BERLIRI (a cura di), Diritto tributario e Corte costituzionale, Napoli- Roma, 2006, 383. Affermano che gli studi di settore costituiscono delle presunzioni legali relative anche MAGISTRO, La legittimità dell’utilizzo di parametri e studi di settore in sede di accertamento, in Corr. trib., 2002, XVIII, 1573; SCIARRA, Studi di settore e gravi incongruenze alla luce degli indici di incoerenza, in Corr. trib., 2006, XI, 847.
174 L’A. conclude nel senso della compatibilità costituzionale (si rinvia al paragrafo 5.f.).
175 CORASANITI, La natura giuridica degli studi di settore ed il problema dell’onere della prova, in Dir. e prat. trib., 2008, I, 13 (in particolare nota 31).
176 UCKMAR-TUNDO, Codice delle ispezioni e verifiche tributarie, “La Tribuna”, 2005, 325.
177 CICALA, La funzione creativa delle presunzioni nella giurisprudenza tributaria della Corte di Cassazione, in Il Fisco, 2004, XXXVIII, 1-6467.
178 LATTANZIO, La tutela del contribuente nel procedimento tributario, “Ad maiora”, 2005, 5.
179 QUATRARO D.- QUATRARO M., Sull’accertamento in base ai parametri e agli studi di settore: considerazioni in merito al corretto iter logico-giuridico e all’applicabilità nei confronti di particolari categorie di contribuenti, in Boll. trib., 2004, IX, 645. 180 Gli Autori aggiungono che merita di essere ricordato quanto affermato da BEGHIN, L’illegittimità dell’avviso…, cit., per il quale il riferimento dell’art. 62-sexies, comma 3, del d.l. n. 331/1993, alle “gravi incongruenze” fra i ricavi dichiarati e quelli risultanti dagli studi di settore esprimerebbe la volontà del legislatore di fare in modo che l’A.F., in sede di accertamento, compia “uno sforzo di adattamento” del dato statistico alla concreta fattispecie oggetto del controllo. Solo in questo modo potrebbero essere determinati i ricavi che il contribuente ha effettivamente realizzato, e non quelli che il “contribuente normale” avrebbe potuto conseguire. La necessità di tale adeguamento alla persona – “perché la persona (non già la ‘massa’ dei contribuenti) è posta al centro dell’attività di applicazione del tributo” – nascerebbe dalla stessa connotazione statistico-probabilistica dello strumento in questione, strutturalmente inadatta a cogliere le caratteristiche della specifica situazione sottoposta all’esame dell’A.F. 181 MARONGIU, Coefficienti presuntivi, parametri e studi di settore, cit. Le note sono dell’Autore con integrazioni del relatore per la completezza dei riferimenti bibliografici.
182 Osserva GALLO, Ancora sulla questione reddito normale – reddito effettivo: la funzione degli studi di settore in Giur, imposte, 2000, V, 481, in particolare 487, che il riferimento alla lettera d) potrebbe apparire non del tutto corretto, siccome tale lettera è abitualmente interpretata come riferita alla rettifica di singole poste contabili, mentre gli studi di settore si riferiscono a ricavi nella loro globalità. Si osserva, tuttavia che i ricavi – pur nella loro globalità – sono attività non dichiarate che concorrono a determinare il reddito. In altre parole, il ricorso al comma 2 dell’art. 39 non pare necessario.
183 Così Corte cost., 26 marzo 1980, n. 42 e ancora Corte cost. 28 luglio 1976, n. 200 e 23 luglio 1987, n. 283 per le quali “le presunzioni, per potere essere compatibili con l’art. 53 Cost., debbono essere confortate da elementi concreti che le giustifichino razionalmente”.
184 Così Corte cost., 12 luglio 1967, n. 109.
185 Il Ministero delle finanze opina, invece, per la sussistenza di una presunzione legale con inversione dell’onere della prova a carico del contribuente (così la circ. 21 maggio 1999 c. 110/E e 5/7/1999 c. 148E).
186 GIOÈ, Studi di settore e obbligo di motivazione, in Rass. trib., 2007, 1726. Le note sono dell’Autore (sono stati eliminati dal relatore i riferimenti bibliografici ad Autori già citati nella relazione).
187 La definizione contenuta nell’art. 2727 del codice civile è valevole sia per le presunzioni assolute che per quelle semplici;
essa pone l’accento sull’aspetto soggettivo della provenienza della presunzione, classificandola e disciplinandola a seconda della fonte dalla quale essa deriva.
188 Istituiti con provvedimento del Direttore dell’Agenzia delle Entrate dell’8 ottobre 2007, pubblicato in G.U. n. 247 del 23 ottobre 2007.
189 Cfr. circ. n. 58/E del 26 ottobre 2007 dell’Agenzia delle Entrate, Direzione Centrale Accertamento.
190 Sull’interpretazione del sistema tributario in base ai principi costituzionali v. PARLATO, Principi, tecnica legislativa e Corte Costituzionale, in Atti del Convegno “I settant’anni di Diritto e pratica tributaria” – Genova 2-3 luglio 1999 -, pagg. 219 e seguenti: “la prima designazione di legittimità riposa sulla connessione tra l’ordinamento tributario – e le singole disposizioni che lo compongono – ed i principi costituzionali”. In argomento v. anche MELIS, L’interpretazione nel diritto tributario, Padova, 2003. 191 MARCHESELLI, Le presunzioni nel diritto tributario: dalle stime agli studi di settore, cit., 295. Le note sono dell’Autore con integrazioni del relatore per la completezza dei riferimenti bibliografici.
192 Osserva GALLO, Ancora sulla questione reddito normale-reddito effettivo: la funzione degli studi di settore, cit., 481, in particolare 487, che il riferimento alla lett. d) del comma 1 potrebbe apparire non del tutto corretto, siccome tale lettera è abitualmente interpretata come riferita alla rettifica di singole poste contabili, mentre gli studi di settore si riferiscono a ricavi nella loro globalità. Si osserva, da altro punto di vista, che i ricavi – pur nella loro globalità – sono attività non di- chiarate che concorrono a determinare il reddito. In altre parole, il ricorso al comma 2 dell’art. 39 potrebbe non essere necessario, anche se, tutto sommato sarebbe parso più congruo. LUPI, Manuale, cit., 573 osserva che il riferimento al comma 1 dell’art. 39, da parte degli uffici è spesso ricollegabile alla maggior apparenza di rigore di un accertamento fondato su tale norma, piuttosto che sul secondo comma. Non è da escludere che tali considerazioni abbiano ispirato anche il legislatore.
193 Sarebbe avventato, infatti, equiparare i dati emergenti dagli studi a quelli della contabilità o a dati e notizie raccolti in base all’art. 32.
194 A diversi approdi possono tuttavia portare altri elementi, su cui si veda più avanti. La conclusione circa la natura di presunzione semplice non è condivisa da autorevole dottrina. In tema, per una configurazione in termini di presunzione legale relativa, TESAURO, Istituzioni di diritto tributario, Parte Generale, Milano, 2006, 236; LUPI, Manuale, cit., 573. 195 In tema, BIONDO, Gli studi di settore alla luce della legge 30 dicembre 2004, n. 311, in Dir. e prat. trib., 2005, I, 1213 (in particolare pag. 1218).
196 In materia di prestazioni patrimoniali imposte e di disciplina del processo.
197 Analoga questione è stata ritenuta infondata, quanto ai c.d. parametri da Corte cost. n. 105/2003, con argomentazione coerente a quanto espresso nel testo. Lo stesso vale per il redditometro (Corte cost., 28 luglio 2004, n. 297, in GT-Riv. giur. trib., 2004, 1018, con nota di MARCHESELLI, Costituzionalità del redditometro e difesa contro gli studi di settore). Per gli studi di settore non si intravedono differenze rilevanti.
198 Si tratterebbe insomma della normale dialettica di prova (offerta in concreto da una parte processuale e non derivante dalla legge) e controprova. [Si omette la restante parte della nota; le argomentazioni dell’A. vengono riprese nel paragrafo 6]. 199 L’argomento non sarebbe però suscettibile di capovolgimento. Esclusa la sussistenza di limitazioni alla prova contraria, la questione della natura di tali strumenti rimane aperta (la prova libera è perfettamente compatibile con la configurazione come presunzioni legali, oltre che, ovviamente con quella di presunzioni semplici).
200 Sul piano letterale, la disposizione non dice “salvo che il contribuente dimostri”, bensì “gli studi non si applicano” e anche per questa via la qualificazione degli studi come presunzioni semplici non risulta smentita (a meno di ritenere che la norma configuri un “fatto impeditivo”, da provarsi dal contribuente sulla base dell’art. 2797 c.c.). Per amore di completezza, anche ammettendo che l’esercizio non normale o l’inizio o cessazione dell’attività siano fatti che paralizzano, a valle, gli studi, non è ancora dimostrato che incomba al contribuente dimostrare tali circostanze. Detto in altri termini, la disposizione può interpretarsi nel senso che l’ufficio deve accertare (o, almeno, valutare in base agli atti posseduti) che il contribuente non si trova in situazione “non normale”. La conclusione circa la natura di presunzione legale sarebbe, invece, sicura, se si ritenesse che con l’espressione “esercizio non normale” si fossero limitate le possibilità di prova contraria. Nessun limite, insomma, impone tale disposizione se si ritiene che si muova al livello della inapplicabilità degli studi (restando impregiudicata, ove si applichino, la prova contraria). Ugualmente nessun limite, infine, se, pur ritenendo (ed è tesi qui respinta) che essa concerna la confutazione degli studi, per esercizio non normale si intenda “non corrispondente alla med a”. La prova contraria allo studio, infatti, ha ad oggetto proprio il fatto che il contribuente è stato fuori dalla media.
201 In particolare, circolare Ministero delle Finanze – Dipartimento delle Entrate 21 maggio 1999, n. 110/E e 5 luglio 1999, n. 148/E. La seconda, in particolare, precisa che le ipotesi di esercizio non normale indicate nella prima, sono meramente esemplificative. [ Si omette la restante parte della nota che sintetizza gli orientamenti ministeriali sulla natura degli studi di settore, profilo già esaminato nel paragrafo 5.b.].
202 Si rammenti l’insegnamento, già più volte citato della Corte Costituzionale, in base al quale le presunzioni “per poter essere considerate in armonia con il principio della capacità contributiva sancita dall’art. 53 Cost. debbono essere confortate da elementi concretamente positivi che le giustifichino razionalmente”. Così, Corte cost., 28 luglio 1976, n. 200 e 23 luglio 1987, n. 283. E, ancora, che “esse debbono fondarsi su indici concretamente rivelatori di ricchezza ovvero su fatti reali, quand’anche difficilmente accertabili affinché l’imposizione non abbia una base fittizia” (Corte cost., 26 marzo 1980, n. 42).
203 Il valore di ragionevolezza e concludenza degli strumenti di accertamento della capacità contributiva (previsto dalle norme costituzionali per l’attuazione dell’art. 53 Cost.) non vale, evidentemente, anche se spesso si trascura tale profilo, solo a garanzia del contribuente ma anche, simmetricamente, come garanzia dell’interesse pubblico contro l’inadempimento del dovere di solidarietà. Anzi, si potrebbe ipotizzare anche un possibile contrasto con gli artt. 3 e, per la fase giudiziale, 24 e 111 Cost., in rapporto all’art. 53 Cost. Il riferimento all’art. 111 si giustifica come richiamo alla ragionevole parità delle armi, a parità di condizione, parità che, come sopra sottolineato, a proposito delle presunzioni legali, certamente sarebbe violata se si ammettessero presunzioni non fondate sulla probabilità. Tale inquadramento sarebbe, da altro punto di vista, consequenziale alla natura (anche) processuale della presunzione legale relativa. 204 Il legislatore ha comunque cercato di stabilire un punto di equilibrio ragionevole, consentendo comunque la rettifica in caso di violazioni o di superamento di determinate soglie quantitative. In caso sussistano le condizioni per effettuare la rettifica in aumento, nella motivazione dell’atto devono essere evidenziate le ragioni che inducono l’ufficio a disattendere le risultanze degli studi di settore in quanto inadeguate a stimare correttamente il volume di ricavi o compensi potenzialmente ascrivibili al contribuente (art. 10, comma 4-bis, penultimo periodo, legge n. 146/1998).
205 Esse in effetti comportano una particolare forza di resistenza degli studi, anche rispetto alla prova contraria e addirittura indipendentemente dalla plausibilità di essa.
206 La strada della prova di un minore importo si trova evidentemente sbarrata dal fatto che si tratta di importi spontaneamente dichiarati, mentre quella del maggiore importo può ritenersi preclusa dalla finalità di incentivazione più che non dalla particolare plausibilità degli studi o dalla forza legale dei medesimi.
207 BASILAVECCHIA, Funzione impositiva e forme di tutela, Torino, 2009, 223.
208 L’A. cita al riguardo Sez. V sent n. 13802 del 18/09/2003, Pres. Favara, Est. Di Blasi che, in una fattispecie di accertamento effettuato con metodo induttivo, ai sensi dell’art. 39, comma 2, lett. b), del d.P.R. n. 600 del 1973, ha fatto “applicazione del consolidato principio (Cass. 20 dicembre 2000 n. 15992; 8 maggio 2000 n. 5776; 29 maggio 2000 n. 7077) secondo cui il Giudice Tributario ha il potere di controllare l’operato della P.A. e, fra l’altro, di verificare se gli effetti che la stessa P.A. ha ritenuto di desumere dai fatti utilizzati come indizi ex art. 39, comma 2, del d.P.R. n. 600 del 1973, siano o meno compatibili con il criterio della normalità, potendo, in ipotesi, pervenire alla determinazione di un reddito presuntivo inferiore rispetto a quello indicato dall’Amministrazione”.
209 GIOÈ, Studi di settore e obbligo di motivazione, in Rass. trib., 2007, 1726.
210 MANZONI, Gli studi di settore e gli indicatori di normalità economica come strumenti di lotta all’evasione, in Rassegna tributaria, 2008, V, 1243.
211 V. retro, paragrafo 5.b.
212 CORASANITI, La natura giuridica degli studi di settore ed il problema dell’onere della prova, cit., 22; MICHELACCI – IROLLO, Studi di settore. Valenza probatoria, cit., 837; NICCOLINI, Studi di settore e motivazione: riflessioni alla luce dei più recenti interventi legislativi, cit., 1089.
213 MARCHESELLI, Le presunzioni nel diritto tributario:dalle stime agli studi di settore, cit. (pagine 291 -295).
214 MARONGIU, Coefficienti presuntivi, parametri e studi di settore, cit., 731.
215 Il testo che segue è del primo Autore, incluse le note (alcune delle quali, per brevità, sono state eliminate.
216 Per superare la presunzione legale sarebbe infatti necessaria una prova contraria. Il fatto che essa possa derivare da una presunzione semplice e che questa possa essere determinata d’ufficio riduce, in fatto, la rigidità del vincolo. Ma non lo annulla: il giudice tributario deve applicare la presunzione legale e dimostrarne il superamento, dandone atto in motivazione. 217 Evitando quindi le secche della questione se si tratti di regolamenti, atti amministrativi generali, ecc.
218 Qualche spunto, a contrario, si può trarre dalla Corte Costituzionale, sentenza 1 aprile 2003, n. 105, che ha affermato la libera applicazione retroattiva dei parametri, una volta riconosciute in essi presunzioni semplici. Sarebbe tuttavia sempre possibile estrarre dagli studi, pur ritenuti presunzioni legali, delle presunzioni semplici da applicare ai periodi precedenti. Attraverso questo escamotage il profilo della efficacia nel tempo potrebbe essere aggirato nella sostanza.
219 La relativa previsione sarebbe però comunque utile, costituendo una base per gli accertamenti degli uffici. Non solo sarebbe idonea a guidarli, assolvendo una funzione di indirizzo, ma agevolerebbe la prova, posto che si tratterebbe di inferenza, per quanto non vincolante, derivante da una elaborazione centralizzata, su basi di calcolo di dimensioni anche statisticamente ben più ampie di quelle a disposizione del singolo ufficio. Si può ipotizzare, insomma, che essa abbia, di fatto, un plus di plausibilità, derivante da tale circostanza (oltre che, sul piano meramente suggestivo, dal fatto di essere scritta in un testo ufficiale preconfezionato) Una tale affermazione, incidentale, si trova ad esempio in Cass., 27 febbraio 2002, n. 2891. Per contro, ove manchi l’istruttoria specifica, al contribuente si offre la strada dell’obiezione fondata sul mancato adeguamento alla realtà del caso singolo. (per le affermazioni contenute in Sez. V, sent. n. 2891 del 27/02/2002 Pres. Cantillo, Est. Falcone, si rinvia al paragr. 5.c.).
220 Considerazioni analoghe si rinvengono in FAZZINI, L’accertamento per presunzioni: dai coefficienti agli studi di settore, cit., 309, il quale afferma che “in caso di presunzione legale relativa il soggetto contro cui è fatta valere, oltre a poter contestare l’affermata sussistenza dei fatti noti, può altresì comprovare che, nonostante questi, il fatto presunto non si è comunque verificato. Tale attività difensiva non si incentra evidentemente nella prova diretta negativa del fatto presunto (cosiddetta probatio diabolica), bensì nella prova (diretta) di fatti e circostanze indizianti sulla base dei quali possa indirettamente concludersi, secondo un procedimento logico rimesso all’apprezzamento del giudice, che il fatto presunto non si è, in realtà, verificato. In tale contesto sembra estranea qualsivoglia limitazione in ordine ai fatti indizianti sulla base dei quali indurre il mancato verificarsi del fatto presunto” ed in PAPA, Parametri. La giurisprudenza di merito: il punto della situazione, cit., , il quale ribadisce che “mentre nelle presunzioni semplici la valutazione dell’idoneità del fatto noto a sorreggere il fatto ignoto è rimessa al prudente apprezzamento del giudice, nell’ipotesi delle presunzioni legali questo apprezzamento è già stato valutato positivamente dal legislatore, con effetto vincolante per lo stesso giudice, a meno che il contribuente non riesca a provare il contrario”. 221 MARCHESELLI, Le presunzioni nel diritto tributario:dalle stime agli studi di settore, cit. (pagine 291 -295).
222 CORRADO, Accertamenti standardizzati e rilevanza processuale del comportamento delle parti in sede amministrativa, nota a Cass. 7 febbraio 2008 n. 2816, in Riv. dir. trib., 2009, V, 375. 223 Sez. V, sent. n. 2891 del 27/02/2002 Pres. Cantillo, Est. Falcone, cit. Si vedano anche le considerazioni di MARCHESELLI e MARONGIU riportate all’inizio del paragrafo.
224 FANTOZZI, Gli studi di settore nell’accertamento del reddito d’impresa, cit., 383.
225 NICCOLINI, Studi di settore e motivazione: riflessioni alla luce dei più recenti interventi legislativi, cit., 1089. 226 Il riferimento è a RUSSO, Manuale di diritto tributario. Parte Generale, Milano, 2002, 311; BORIA, L’interesse fiscale, Torino, 2002, 276-281. Precisa anzi NICCOLINI che secondo BORIA gli studi di settore, sotto certi profili, si delineano come presunzioni assolute; ciò in quanto la prova contraria che il contribuente può dare, e che consisterebbe nel dimostrare la non normalità del caso di specie, oppure l’irrazionalità e l’incongruenza dello schema presuntivo, non attiene al risultato dello studio di settore bensì alla applicabilità ed alla validità generale dell’istituto. Ne consegue – come rileva l’Autore (ivi, 218) – che “laddove le contestazioni circa la sfera di applicabilità e la validità dello studio di settore siano superate, il meccanismo inferenziale non è assoggettabile a censura nel merito, vale a dire che non è possibile fornire una prova contraria diretta a contestare la ricostruzione indiziaria del reddito imponibile” e quindi che “lo studio di settore, in quanto meccanismo di ricostruzione del reddito avente i connotati della presunzione assoluta (almeno nei limiti suindicati), è tino strumento che opera sul piano sostanziale determinando una configurazione innovativa della fattispecie impositiva”.
227 È pacifico che lo scostamento dei ricavi dichiarati rispetto a quelli da studi può essere giustificato dal contribuente non solo in base a prove documentali, che abbiano un riscontro diretto sui ricavi dichiarati, ma anche in base ad un ragionamento di tipo presuntivo, che si fondi su elementi certi e che conduca a valutazioni che abbiano una reale capacità di convincimento. In tema di parametri Sez. V, sent. n. 27648 del 2008 e, riguardo agli studi di settore, sent. n. 2891 del 2002, citate; il principio è stato anche ribadito dalla circ. n. 32/E del 21 giugno 2005. Ad ulteriore conforto si sottolinea (riguardo agli studi di settore, ma con affermazione estensibile agli altri strumenti in esame) l’insussistenza nella disciplina di limitazioni alla prova contraria (MARCHESELLI, Gli studi di settore devono valorizzare la realtà del singolo contribuente, in GT-Riv. giur. trib., 2007, 513). 228 GARBARINO, Imposizione ed effettività nel diritto tributario, cit., 316.
229 Così Tosi, Le predeterminazioni, cit., p. 500
230 NICCOLINI, Studi di settore e motivazione: riflessioni alla luce dei più recenti interventi legislativi, cit., 1089. 231 In tal senso, ad avviso dell’A., sembra esprimersi Cass. n. 17229 del 2006 cit..
232 L’A. richiama sul punto GIORGI, L’accertamento basato sugli studi di settore: obbligo di motivazione ed onere della prova, cit. 233 L’A. si riferisce alla circ. 23 gennaio 2008, n. 5/E ( retro, paragr. 5.b. ed Alleg. 2.5.).
234 GIOÈ, Studi di settore e obbligo di motivazione, in Rass. trib., 2007, 1726. Le note sono dell’Autore (sono stati eliminati dal relatore i riferimenti bibliografici ad Autori già citati nella relazione).
235 CORASANITI, La natura giuridica degli studi di settore ed il problema dell’onere della prova, cit. (nota 37).
236 CORASANITI, La natura giuridica degli studi di settore ed il problema dell’onere della prova, cit., nota 35.
237 FANTOZZI, Gli studi di settore nell’accertamento del reddito d’impresa, cit., 398-403. Le note sono dell’A. con integrazione del relatore per la completezza dei riferimenti bibliografici. 238 In particolare si è affermato: “la questione dell’affidabilità delle metodologie accertatine di tipo forfettario non riguarda tanto le tecniche attraverso le quali si perviene all’enucleazione dei valori modi o normali (ovvero ordinari), quanto la loro inidoneità strutturale a tradurre delle regole di esperienza che non si prestano ad essere standardizzate” (TOSI, Le predeterminazioni normative nell’imposizione reddituale, cit., 446). 239 In particolare si è osservato che “alla stretta trama degli studi di settore e alla conseguente forte restrizione della facoltà di dare la prova contraria potrebbe addirittura corrispondere una forfettizzazione del presupposto, senza che si possa eccepire la incostituzionalità di una siffatta disciplina ex art. 53 Cost. Ormai infatti, almeno a mio avviso, sia la Corte costituzionale che il legislatore (si pensi all’IRAP) sembrano aver accolto una nozione di capacità contributiva che giustifica, almeno con riferimento a settori economici che pi si prestano alla standardizzazione, la tassazione di entità forfetarie ed astratte solo potenziali e, quindi, non effettive” (GALLO, Ancora sulla questione reddito normale – reddito effettivo: la funzione degli studi di settore, cit., 484).
240 V. decisioni 28 luglio 1976, n. 200, 14 ottobre 1987, n. 334, 11 dicembre 1987, n. 586, 13 gennaio 1988, n. 21, 11 ottobre 1988, n. 982, 24 gennaio 1992, n. 22.
241 Poi ribadito più volte, da ultimo nell’ordinanza 13 luglio 2004, n. 297.
242 MANZONI, Gli studi di settore e gli indicatori di normalità economica come strumenti di lotta all’evasione, in Rassegna tributaria, 2008, V, 1243.
243 Per la valenza trasversale delle affermazioni in tema di contraddittorio negli accertamenti standardizzati, v. CORRADO, Accertamenti standardizzati e motivazione dell’avviso di accertamento: l’atto è illegittimo in difetto di un’adeguata replica alle deduzioni fornite dal contribuente in sede di contraddittorio endoprocedimentale, nota a Cass. 22 febbraio 2008 n. 4624, in Dir. e prat. trib., 2008, VI, P II, 1078.
244 Principio affermato in tema di coefficienti presuntivi, in cui la richiesta di chiarimenti era espressamente prevista dall’art. 12, comma 1, del d.l. n. 69 del 1989, da Sez. V, sent. n. 4387 del 27/03/2002, Pres. Papa, Est. Falcone (Rv. 553321); conformi: n. 11356 del 22/07/2003, Pres. Saccucci, Est. Amari (Rv. 565324); n. 26404 del 5/12/2005, Pres. Papa, Est. D’Alonzo; n. 12612 del 26/05/2006, Pres. Favara, Est. Bursese (Rv. 590142); n. 4624 del 22/02/2008, Pres. Saccucci, Est. Cicala (Rv. 602048). Peraltro la necessità del previo contraddittorio anche nell’accertamento tramite i parametri, nonostante la mancanza di un’espressa previsione in tal senso, è stata affermata da Sez. V, sent. n. 2816 del 07/02/2008, Pres. Saccucci, Est. Meloncelli, secondo cui “anche se non sia espressamente previsto, il contraddittorio procedimentale amministrativo è necessario anche in materia tributaria in forza del principio generale dell’azione amministrativa del giusto procedimento, trattandosi di applicare ad un caso di specie ultima dei criteri elaborati per categorie di soggetti e con efficacia di presunzione semplice, che comporta l’inversione dell’onere della prova e il suo caricamento sulle spalle del contribuente”. Parimenti nessun dubbio sussiste circa l’obbligatorietà del contraddittorio in materia di studi di settore, anche prima che la legge 30 dicembre 2004, n. 311 lo prevedesse espressamente, la cui omissione comporta la nullità dell’accertamento [Sez. V, sent.n. 13995 del 27/09/2002, Pres. Papa, Est. Tirelli; n. 9946 del 23/06/2003, Pres. Raggio, Est. Marigliano; n. 9135 del 03/05/2005, Pres. Saccucci, Est. Cicala (in motivazione); Sez. V, sent. n. 17229 del 28/07/2006, Pres. Riggio, Est. Meloncelli, in in GT-Riv. giur. trib., 2006, 1048, con nota di MARCHESELLI, Per l’applicazione delle presunzioni semplici di cui agli studi di settore è necessaria la previa attuazione del contraddittorio, che osserva: “Tale sentenza opina che il previo contraddittorio sarebbe comunque strumento indefettibile di adeguamento dell’accertamento alla realtà del singolo contribuente. In effetti, tale affermazione, come spesso accade, sembra peccare di assolutezza. Potrebbero forse individuarsi degli equipollenti al contraddittorio e quindi questo non essere ritenuto necessario sempre e comunque. Ad esempio, nel caso in cui l’ufficio avesse fatto precedere alla applicazione degli studi una verifica generale, analitica e attenta della sede, della contabilità e della attività del contribuente, si potrebbe forse ritenere che uno sforzo adeguato di individualizzazione dell’accertamento sarebbe stato fatto. Sembra allora più convincente quanto espresso sopra nel testo: il fondamento dell’obbligo del contraddittorio è in realtà duplice (imparzialità e buon andamento da un lato, difesa del contribuente dall’altro). Una affermazione rigorosa della assoluta indefettibilità del contraddittorio si può fondare allora solo sul riconoscimento della sua funzione anche di strumento di difesa del contribuente. Allo stesso modo, è posta in modo del tutto sterile la questione se l’accertamento tributario possa fondarsi esclusivamente sulla applicazione degli studi di settore. A maggior ragione, esclusa la natura di presunzione legale, non è possibile formulare una regola assoluta: dipende dal contesto conoscitivo. Quel che è certo è la necessità di una attivazione diligente dell’ufficio. Quando, nonostante questa (quantomeno coincidente con l’invito al contraddittorio o iniziative equipollenti), nessun elemento concreto sia acquisito, la cosiddetta autosufficienza degli studi certamente più plausibile”].
245 Sez. V, sent. n. 16771 del 27/11/2002, Pres. Papa, Est. Ebner, in tema di coefficienti presuntivi.
246 Ferma restando la differenza tra obbligo di motivazione dell’avviso di accertamento, che attiene alla legittimità dell’atto ed onere della prova della pretesa tributaria, che riguarda il merito del processo. Sul punto si rinvia alle considerazioni di GIOÈ, Studi di settore e obbligo di motivazione, cit., 1726 (paragr. 5.e.3.).
247 Sempre in tema di coefficienti, oltre a Sez. V, sent. n. 4387 del 2002, n. 11356 del 2003, n. 26404 del 2005, n. 12612 del 2006 n. 4624 del 2008, citate, v. Sez. V, sent. n. 14122 del 18/06/2009, Pres. Papa, Est. Carleo. È stato peraltro precisato da MARCHESELLI (Le presunzioni nel diritto tributario: dalle stime agli studi di settore, cit., 280) che l’onere di motivazione sugli elementi forniti dal contribuente in sede di contraddittorio “non equivale alla necessità di puntuale e analitico contrasto di tutte le eccezioni (financo le più fantasiose e defatigatorie) del contribuente, ma deve intendersi come necessità di una motivazione che dimostri che le ragioni e circostanze allegate dal contribuente sono state a) prese in considerazione, b) adeguatamente valutate e c) ragionevolmente superate. Nello sviluppo logico e discorsivo della motivazione può ben accadere allora che il superamento di tali obiezioni non corrisponda a una serie analitica di obiezioni, ma risulti dal complesso del ragionamento. Anche in questo caso non è possibile formulare regole rigide, se non quella della coerenza e ragionevole con divisibilità”.
248 Tale principio è stato affermato, facendo salva a carico del contribuente la prova dell’inapplicabilità degli “standards” al caso concreto, da Sez. V, sent. n. 14122 del 2009, cit., in materia di coefficienti presuntivi, con riferimento all’espressa previsione dell’art. 12, comma 1, del d.l. n. 69 del 1989, per il quale “i motivi non addotti in risposta alla richiesta di chiarimenti, non possono essere fatti valere in sede di impugnazione dell’atto di accertamento”, ma è stato ribadito anche in tema di parametri da Sez. V, sent. n. 2816 del 2008, cit.
249 Sulla distinzione tra prova contraria (nel caso di presunzione legale) e controprova (nel caso di presunzione semplice), si rinvia a MARCHESELLI, Le presunzioni nel diritto tributario: dalle stime agli studi di settore, cit. (pagine 291 -295), retro, paragr. 5.e.2. 250 Sez. V, sent. n. 2816 del 2008, cit. ed Ord. n. 12630 del 28 maggio 2009, Pres. Lupi, Est. Iacobellis (entrambe in tema di parametri). Per la critica a soluzioni che rimettono ogni valutazione al processo, v. BASILAVECCHIA, Strumenti parametrici, contraddittorio, motivazione dell’accertamento: il corretto ruolo del giudice tributario, cit. (paragr. 4.g.). MARCHESELLI, Le presunzioni nel diritto tributario: dalle stime agli studi di settore, cit., 307, osserva: “Circa gli effetti della mancata attuazione del contraddittorio, sembra tesi corretta affermare l’illegittimità dell’accertamento. La soluzione opposta non è condivisibile. Essa trascura che lo spostamento in avanti del contraddittorio (meglio, dell’offerta di contraddittorio), non è affatto indifferente. La sua attuazione costituisce infatti uno strumento: a) di acquisizione da parte dell’ufficio di dati fondamentali per la corretta fotografia della materia imponibile; b) di articolazione delle proprie difese da parte del contribuente. Questa soluzione è, insomma, contraria sia al principio di imparzialità sia a quello di buon andamento della Pubblica Amministrazione. Inoltre, non è indifferente, per il contribuente e il suo diritto di difesa (inteso in senso lato), contraddire prima dell’avviso o, successivamente, pendenti i termini dell’impugnazione, pur sospesi, ovvero nel giudizio. La giurisprudenza [di merito] ha talora ritenuto sufficiente, con riferimento alla disciplina previgente, il contraddittorio in sede giudiziale. Si tratta di un orientamento diffuso generalizzato, corrispondente a quello, analogo, sostenuto a proposito di altre metodiche di accertamento (ad esempio, gli accertamenti bancari). È evidente che in tal modo, da un lato, si pretermette completamente il principio della efficienza della Pubblica Amministrazione e che del diritto di difesa (quantomeno, del diritto del contribuente di partecipare ai procedimenti che incidono sulle sue posizioni giuridiche) si percepisce solo la dimensione giurisdizionale (coerentemente con la dimensione espressamente prevista dall’art. 24 Cost.) “.
251 Così, in materia di coefficienti, Sez. V, sent. n. 13508 del 15/09/2003 Pres. Papa, Est. Meloncelli (Rv. 566856). In tema di studi di settore: Sez. V, sent. n. 793 del 20/01/2004, Pres. Saccucci, Est. Bielli; sent. n. 1797 del 28/01/2005, Pres. Cristarella Orestano, Est. Ferrara (Rv. 581155); sent. n. 21165 del 31/10/2005, Pres. Paolini, Est. Monaci (Rv. 586173); sent. n. 25684 del 04/12/2006, Pres. Prestipino, Est. Scuffi (Rv. 595685); sent. n. 1136 del 19/01/2009, Pres. Papa, Est. Giacalone.
252 Sez. V, sent. n. 9613 del 11/04/2008, Pres. Lupi, Est. Lupi (Rv. 604394)
253 Sez. V, sent. n. 23602 del 15/09/2008, Pres. Papa, Est. Sotgiu (Rv. 604439) che richiama l’art. 4, comma 1 del d.P.R. 31 maggio 1999, n. 195, in riferimento all’art. 10 comma 4, della legge 8 maggio 1998, n. 146.
254 Sez. V, Ord. n. 30188 del 23/12/2008, Pres. ed Est. Lupi. 255 Comm. trib. prov. di Torino, Sez. XX, 19 dicembre 2007 n. 148. 256 La prevalenza degli studi di settore rispetto ai parametri pone l’ulteriore questione, se nelle ipotesi in cui questi ultimi siano ancora applicabili (retro paragr. 5.a.2., all’inizio) e quindi a prescindere dall’applicazione retroattiva dello specifico studio, valga comunque il presupposto delle gravi incongruenze nello scostamento (previsto dall’art. 62-sexies, comma 3, del d.l. n. 331 del 1993, ma non dal comma 181 dell’art. 3 della legge n. 549 del 1995).
257 BAGAROTTO, Retroattività delle disposizioni tributarie e Statuto del contribuente: il caso dei contributi erogati alle aziende di trasporto pubblico, in Riv.dir.trib, 2007, I, 156, alla nota 8 ricorda la sentenza 4 maggio 1966, n. 44: ” una legge tributaria retroattiva non comporta per se stessa la violazione del principio della capacità contributiva (sentenza n. 9/1959), e … deve essere verificato di volta in volta, in relazione alla singola legge tributaria, se questa, con l’assumere a presupposto della prestazione un fatto o una situazione passati, o con l’innovare, estendendo i suoi effetti al passato, gli elementi dai quali la prestazione trae i suoi caratteri essenziali, abbia spezzato il rapporto che deve sussistere tra imposizione e capacità contributiva e abbia così violato il precetto costituzionale (sentenza n. 45/1964)”. Successivamente, la sentenza 8 luglio 1982, n. 143 ha evidenziato che la Corte, pur escludendo costantemente nella materia tributaria la possibilità di considerare operante il divieto di retroattività sancito dall’art. 25, comma 2, Cost., ha ritenuto che “la legge può sì incidere sulla capacità contributiva esistente in un momento anteriore alla sua emanazione e rilevata da fatti passati, ma ha posto quale limite a tale possibilità la esigenza che la capacità stessa sia ancora sussistente, e quindi permanga, nel momento dell’imposizione (cfr. sent. 11 aprile 1969 n. 75 e 23 maggio 1966 n. 44)”. L’A. segnala, altresì, la pronuncia 20 luglio 1994, n. 315, con cui la Corte, nell’ambito del giudizio di costituzionalità dell’art. 11 . comma 9, della legge 30 dicembre 1991, n. 413 (che ha esteso
retroattivamente al triennio 1989-1991 il regime di tassazione delle plusvalenze derivanti da espropriazione o cessione volontaria di aree nel corso di procedimenti ablatori) ha negato l’illegittimità costituzionale di detta disposizione richiamando altresì il citato concetto di “prevedibilità” dell’imposizione retroattiva. In tale sentenza viene evidenziato che “una legge tributaria retroattiva non comporta di per sè violazione del principio della capacità contributiva, occorrendo, invece, verificare, di volta in volta, se la legge stessa, nell’assumere a presupposto della prestazione un fatto o una situazione passati, abbia spezzato il rapporto che deve sussistere tra imposizione e capacità stessa, violando così il precetto costituzionale sopra richiamato” e che, nella vicenda oggetto del giudizio, era dato rinvenire “un elemento di prevedibilità dell’imposta … altre volte … reputato significativo sotto il profilo della permanenza della capacità contributiva e che, pertanto, è da considerarsi rilevante per giudicare della conformità all’art. 53 Cost. della retroattività conferita dall’art. 11, comma 9, della legge n. 413/1991, alla norma sulla tassazione delle plusvalenze derivanti dalla cessione volontaria di terreni sottoposti ad espropriazione, specie se si tiene conto del breve lasso di tempo entro il quale tale retroattività è destinata ad operare”.
258 Sui limiti di costituzionalità di norme tributarie retroattive v. anche MARONGIU, Retroattività ed affidamento nell’applicazione della legge tributaria, nota a Cass. , Sez. V, 14 aprile 2004 n. 7080, in Corr. trib, 2004, 2287; Id., Lo Statuto dei diritti del contribuente, Torino, 2008, pagg. 76-79.
259 Altra affermazione che sembra “esportabile” è quella fatta in tema di coefficienti presuntivi da Sez. V, sent. n. 15124 del 30/06/2006, Pres. Saccucci, Est. D’Alonzo (Rv. 591772), secondo cui “il termine del 30 settembre dell’anno al quale tali coefficienti si riferiscono, fissato, per la pubblicazione nella G.U. dei decreti del Presidente del Consiglio dei ministri con i quali i medesimi coefficienti vengono individuati, dall’art. 11, comma quinto, del decreto – legge 2 marzo 1989, n. 69, convertito nella legge n. 154 del 1989 (come sostituito dall’art. 6, comma quinto, della legge 30 dicembre 1991, n. 413), non ha carattere perentorio, non sussistendo alcuna indicazione in proposito, e contrastando tale perentorietà con la funzione propria dei decreti in questione, consistente nel disciplinare il potere di accertamento, nonché con l’irrilevanza del momento dell’elaborazione”. L’affermazione sembra valere anche nella materia degli studi di settore, in cui l’art. 33 del d.l. 25 giugno 2008, n. 112, convertito nella legge 6 agosto 2008, n. 133, ha modificato il comma 1 dell’articolo 1, del regolamento di cui al d.P.R. 31 maggio 1999, n. 195 disponendo che, a partire dall’anno 2009 gli studi di settore devono essere pubblicati nella Gazzetta Ufficiale entro il 30 settembre del periodo d’imposta nel quale entrano in vigore.
260 L’art. 62-sexies, comma 3, del d.l. n. 331 del 1993, per il quale ” gli accertamenti di cui agli articoli 39, primo comma, lettera d)…. possono essere fondati anche sull’esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta, ovvero dagli studi di settore….” viene generalmente interpretato, non solo da quanti aderiscono alla tesi della natura di presunzioni semplici degli studi di settore, come significativa della loro collocazione all’interno della lettera d), cit. La disciplina dei parametri è ancor più esplicita, prevedendo il comma 181 dell’art. 3 della legge n. 549 del 1995 che ” Fino alla approvazione degli studi di settore, gli accertamenti di cui all’articolo 39, primo comma, lettera d), …. possono essere effettuati…. utilizzando i parametri”. Quanto ai coefficienti presuntivi, l’art. 12 del d.l. n. 69 del 1989 ne prevede l’utilizzo in sede di accertamento “indipendentemente dalle disposizioni recate dall’art. 39 …”. 261 Ex multis, Sez. V, sent. n. 3288 del 11/02/2009, Pres. D’Alonzo, Est. D’Alonzo (Rv. 606710) e sent. n. 4148 del 20/02/2009, Pres. Miani Canevari, Est. Cappabianca (Rv. 606845), in materia di parametri; sent. n. 2891 del 27/02/2002 Pres. Cantillo, Est. Falcone e sent. n. 26919 del 15/12/2006, Pres. Saccucci, Est. Sotgiu (Rv. 595108), in materia di studi di settore.
262 Sez. V, sent. n. 8643 del 06/04/2007, Pres. Magno, Est. Magno (Rv. 598094) e sent. n. 4127 del 20/02/2009, Pres. Miani Canevari, Est. Greco.
263 In tal senso con riferimento agli studi di settore FANTOZZI, Gli studi di settore nell’accertamento del reddito d’impresa, cit., 392. 264 Si rinvia, per citazioni di giurisprudenza, rispettivamente, ai paragrafi 2.c. (per i coefficienti presuntivi), 4.f. (per i parametri ) e 5.c. (per gli studi di settore).
265 Sez. V, sent. n. 24912 del 10/10/2008, Pres. Papa, Est. D’Alonzo (Rv. 604850.
266 Da ultimo, in materia di coefficienti, ez. V sent n. 15539 del 2/07/2009, Pres. Cicala, Est. Scuffi e, in materia di parametri, sent. n. 3288 del 11/02/2009, Pres. D’Alonzo, Est. D’Alonzo. 267 BASILAVECCHIA, Funzione impositiva e forme di tutela, Torino, 2009, 223.
268 FANTOZZI, Gli studi di settore nell’accertamento del reddito d’impresa, cit., 392 (paragr. 5.d.4.).
269 CORRADO, Accertamenti standardizzati e rilevanza processuale del comportamento delle parti in sede amministrativa, nota a Cass. 7 febbraio 2008 n. 2816, cit., 398.
270 NICCOLINI, Studi di settore e motivazione: riflessioni alla luce dei più recenti interventi legislativi, cit., 1089. 271 MARONGIU, Lo Statuto dei diritti del contribuente, Torino, 2008, 157.
272 Sez. V, sentenze n. 2816 del 2008 e n. 14122 del 2009, cit. 273 In tema di studi di settore si è affermato che il singolo ufficio accertatore, nel compiere un accertamento, anche induttivo, non è tenuto a sua volta a prendere in considerazioni tutti i dati che sarebbero richiesti per uno studio generale di settore, potendo basarsi invece, volta per volta, solo su alcuni elementi sintomatici [Sez. V, sent. n. 17038 del 02/12/2002, Pres. Cristarella Orestano, Est. Monaci, in motivazione (Rv. 558884) e, da ultimo, n. 1136 del 19/01/2009, Pres. Papa, Est. Giacalone, n. 2876 del 6/02/2009, Pres. Papa, Est. Marigliano e n. 3585 del 13/02/2009, Pres. Cicala, Est. Giacalone].
274 In tal senso, in materia di studi di settore, Sez. V, sent. n. 19209 del 6/09/2006, Pres. Favara, Est. Sotgiu.