202210.11
0

Giustizia tributaria con “nuova” ripartizione dell’onere della prova

La legge n. 130 del 2022 ha introdotto due modifiche alla disciplina dei poteri delle Corti di Giustizia Tributaria di primo e secondo grado ex art. 7, d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546: da un lato, è cristallizzata la regola di ripartizione dell’onere della prova tra Amministrazione finanziaria e contribuente, dall’altro è espressamente disciplinata la c.d. “testimonianza scritta”, rinviando all’art. 257 bis c.p.c. per i profili formali.
Nel comma 5 bis il fraseggio indeterminato e l’uso improprio di termini tecnico-giuridici potrebbero produrre una vera e propria eterogenesi dei fini, la conseguente incertezza esegetica potendo generare pregiudizi superiori rispetto a quelli causati dai fraintendimenti in cui spesso incorrono l’Amministrazione finanziaria prima e poi anche alcune delle attuali Corti di Giustizia Tributaria e talvolta la stessa Corte di Cassazione.
Il nuovo testo del comma 4 si differenzia dal modello di cui all’art. 257 bis c.p.c., configurando in capo alle Corti di Giustizia Tributaria un potere esercitabile anche ex officio, ma non chiarisce secondo quali le forme la prova testimoniale debba essere assunta in questa specifica ipotesi.

La “nuova” disciplina della prova e della ripartizione del relativo onere tra Amministrazione e contribuente.

L’articolo 6 della legge n. 130 del 2022, introdotto nel corso dell’esame condotto in Senato dalle Commissioni riunite Giustizia e Finanze in sede redigente, ha modificato l’art. 7, d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, ove sono disciplinati i poteri delle Corti di Giustizia Tributaria di primo e secondo grado.

Dal 16 settembre 2022 viene introdotto il comma 5 bis, in base al quale l’amministrazione prova [leggasi “deve provare”] in giudizio le violazioni contestate con l’atto impugnato, mentre spetta comunque al contribuente fornire le ragioni della richiesta di rimborso, quando non sia conseguente al pagamento di somme oggetto di accertamenti impugnati. Il giudice fonda [leggasi “deve fondare”] la propria decisione sugli elementi di prova che emergono nel giudizio e annulla [leggasi “deve annullare”] l’atto impositivo “se la prova della sua fondatezza manca o è contraddittoria o se è comunque insufficiente a dimostrare, in modo circostanziato e puntuale, comunque in coerenza con la normativa tributaria sostanziale, le ragioni oggettive su cui si fondano la pretesa impositiva e l’irrogazione delle sanzioni”.

Il primo rilievo che può essere formulato sulla novella riguarda la littera legis, condivisibilmente definita come “una sorta di “guazzabuglio di parole” frutto palese d’incultura giuridica, in cui convergono, con stupefacente libertà, confusioni concettuali di primordiali nozioni oramai sedimentate a livello teorico, come sono quelle di “prova”, “motivazione” e “giudizio”, “decisione di merito” o di “annullamento di atti”, di “oggetto della domanda” o di “motivi” o “ragioni”, e, ancora, di “mancanza”, “contraddittorietà” o “insufficienza” di motivazione e/o di prova” (C. Glendi, La novissima stagione della giustizia tributaria riformata, in Quotidiano Giuridico, edizione del 22 settembre 2022). L’infelice risultato delle tecniche di redazione del testo normativo potrebbe generare incertezza esegetica in conseguenza del fraseggio indeterminato e dell’uso improprio di termini tecnico-giuridici: non è quindi infondato il timore che si possa compiere una vera e propria eterogenesi dei fini.

Lodevole è invece la ratio legis, che risiede nell’intento di porre un punto fermo rispetto a fraintendimenti in cui spesso incorrono l’Amministrazione finanziaria prima e poi anche alcune delle attuali Corti di Giustizia Tributaria e talvolta la stessa Corte di Cassazione, ma che dovrebbero essere risolti se non sulla base del mero buon senso, almeno utilizzando i principi fondamentali che, nell’ordinamento giuridico tributario, regolano l’istruttoria, il provvedimento amministrativo e il processo: basterebbe infatti ricordare la matrice amministrativistica del diritto tributario per avere ben chiaro che, in sede istruttoria, l’Amministrazione finanziaria raccoglie gli elementi utili a fondare l’azione impositiva e che nel provvedimento amministrativo vengono trasfuse le risultanze istruttorie sia in punto di diritto che in punto di fatto, pena non soltanto l’infondatezza della pretesa, ma anche l’illegittimità dell’atto sotto il profilo motivazionale e probatorio. Ricevuto l’atto, spetta al contribuente contestarlo con il ricorso nanti la competente Corte di Giustizia Tributaria di I grado, secondo una dialettica probatoria che vede il proprio antefatto nel provvedimento amministrativo e i propri postfatti nel giudizio tributario. Anche la Corte Costituzionale ha riconosciuto che la ripartizione dell’onere della prova “tra le parti del processo non può essere ancorata alla posizione formale (di attore o convenuto) da esse assunto in ragione della struttura del processo, ma deve modellarsi sulla struttura del rapporto giuridico formalizzato, in esito al procedimento amministrativo, nel provvedimento impositivo: ciò che la giurisprudenza di legittimità, definitivamente ripudiando l’idea che la cosiddetta presunzione di legittimità del provvedimento amministrativo possa intendersi in senso tecnico e quindi come inversione dell’onere della prova, ha riconosciuto statuendo che l’onere della prova grava sull’Amministrazione finanziaria, in qualità di attrice in senso sostanziale, e si trasferisce a carico del contribuente soltanto quando l’Ufficio abbia fornito indizi sufficienti per affermare la sussistenza dell’obbligazione tributaria” (excerpta da Corte Cost., 29 marzo 2007, n. 109).

Alcune considerazioni sistematiche s’impongono.

Nel processo, l’espressione “onere della prova” ha un duplice significato. Sul piano soggettivo, indica il criterio di ripartizione degli oneri probatori tra le parti con riguardo ai fatti che costituiscono il fondamento della pretesa vantata, in forza del quale l’attore deve provare i fatti costituitivi del diritto affermato, mentre il convenuto deve provare i fatti impeditivi, modificativi e estintivi dello stesso diritto. Su quello oggettivo, designa la regola di giudizio che consente al giudice di decidere nel caso in cui il materiale probatorio raccolto non sia sufficiente a superare l’incertezza sui fatti controversi. In siffatte ipotesi, il giudice non può pronunciare un non liquet, ma il fatto non provato è assunto come non avvenuto: la decisione risulta quindi sfavorevole alla parte che avrebbe tratto vantaggio dall’avverarsi del fatto non provato e che è, pertanto, onerata della prova di quel fatto.

Prima che nel processo, il problema della prova e del relativo onere si pone già nel procedimento amministrativo (E. Allorio, Diritto processuale tributario, V ed., Torino, Utet, 1969, 390 ss.). Durante la fase dell’istruttoria, l’Amministrazione finanziaria raccoglie gli elementi da porre a fondamento della rettifica: le risultanze di tale attività devono essere trasfuse nella motivazione dell’atto impositivo. In conformità a tale impostazione, grava sull’Amministrazione finanziaria l’onere di dimostrare i fatti sui cui basa la sua pretesa (ad esempio, il maggior ammontare di componenti positivi di reddito rispetto a quelli dichiarati), mentre grava sul contribuente l’onere di provare la sussistenza dei fatti sui quali è fondata la sua domanda di rimborso.

Nel processo tributario fa ingresso la c.d. “testimonianza scritta”.

Il testo previgente dell’art. 7, d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 ha escluso dal processo tributario il giuramento e la testimonianza, il primo per l’indisponibilità dei diritti controversi, la seconda per la matrice documentale del giudizio de quo (cfr. Corte Cost., 21 gennaio 2000, n. 18, secondo cui “il divieto della prova testimoniale trova, nella specie, una sua non irragionevole giustificazione da un lato nella “spiccata specificità” del processo tributario rispetto a quello civile ed amministrativo, “correlata sia alla configurazione dell’organo decidente sia al rapporto sostanziale oggetto del giudizio” (sentenza n. 53 del 1998), dall’altro nella circostanza, pur essa sottolineata dalla giurisprudenza di questa Corte e dalla dottrina, che il processo tributario è ancora, specie sul piano istruttorio, in massima parte scritto e documentale (sentenza n. 141 del 1998)”).

Secondo la Corte di Cassazione, il divieto di prova testimoniale non osta a che anche al contribuente, oltre che all’Amministrazione finanziaria, deve essere riconosciuta la possibilità, in attuazione dei principi del giusto processo e della parità delle parti di cui all’art. 111 Cost. e all’art. 6 CEDU (stante l’irrogazione, nell’ambito dello stesso, di sanzioni assimilabili a quelle penali), d’introdurre nel giudizio dichiarazioni rese da terzi in sede extra processuale, le quali hanno il valore probatorio proprio degli elementi indiziari e come tali devono essere valutati dal giudice nel contesto probatorio emergente dagli atti (per tutte Cass., sez. VI civ. – T, 19 ottobre 2015 (ord.), n. 21153, in CED Cass., Rv. 637005; Cass., sez. VI civ. – T, 16 marzo 2018 (ord.), n. 6616, ibidem, Rv. 647324; Cass., sez. VI civ. – T, 19 novembre 2018 (ord.), n. 29757, ibidem, Rv. 651573): ciononostante dette dichiarazioni, per il loro contenuto intrinseco ovvero per l’attendibilità dei riscontri offerti, possono assumere valore di presunzione grave, precisa e concordante ex art. 2729 c.c. (Cass., sez. trib., 9 agosto 2016, n. 16711, ibidem, Rv. 640982).

Preso atto di tale stato di cose, nella relazione del 30 giugno 2021 la Commissione interministeriale per elaborare proposte di interventi in materia di giustizia tributaria (la c.d. “Commissione Della Cananea”) ha rilevato che “la prova testimoniale è ormai uno strumento generale e indispensabile di acclaramento della verità proprio di ogni tipo di processo” e che, in cosiderazione dell’obiettiva insufficienza di documenti e di massime d’esperienza, “la preclusione imposta al giudice tributario di assumere prove testimoniali si risolve inevitabilmente per il contribuente in un ostacolo a (se non talvolta in un’impossibilità giuridica di) dimostrare le sue ragioni e, quindi, in una preclusione del diritto di difesa del contribuente stesso non giustificabile con il solo argomento, tautologico, della natura documentale (e, quindi, speciale) del processo tributario”. All’esito di tali considerazioni la Commissione ha proposto di rimuovere in parte l’impedimento all’utilizzo della prova testimoniale, assumendola nelle forme di cui all’art. 257 bis c.p.c. e lasciando al giudice la valutazione circa il suo utilizzo, solo su circostanze oggetto di dichiarazioni di terzi contenute in atti istruttori.

La legge n. 130 del 2022 interviene sui poteri delle Corti di Giustizia Tributaria di primo e secondo grado sostituendo il comma 4 dell’art. 7, d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546.

Dopo aver confermato l’inammissilibilità del giuramento, la novella prevede espressamente che la Corte di Giustizia Tributaria, ove lo ritenga necessario ai fini della decisione e anche senza l’accordo delle parti, può ammettere la prova testimoniale, assunta con le forme della c.d. “testimonianza scritta”di cui all’art. 257 bis c.p.c.; nei casi in cui la pretesa tributaria sia fondata su verbali o altri atti facenti fede fino a querela di falso, la prova è ammessa soltanto su circostanze di fatto diverse da quelle attestate dal pubblico ufficiale. In base all’art. 8, l. n. 130 del 2022, tale disciplina si applica ai ricorsi notificati dal 16 settembre 2022.

In base al richiamato art. 257 bis c.p.c., il giudice dispone che la deposizione sia assunta chiedendo al testimone di fornire, per iscritto e nel termine fissato, le risposte ai quesiti sui quali deve essere interrogato e che la parte che ha richiesto l’assunzione predisponga il modello di testimonianza e lo faccia notificare al testimone. Il testimone rende la deposizione compilando il modello di testimonianza in ogni sua parte, con risposta separata a ciascuno dei quesiti, e precisa quali sono quelli cui non è in grado di rispondere, indicandone la ragione, spedendo poi le risposte in busta chiusa con plico raccomandato o consegna alla cancelleria del giudice. Quando il testimone si avvale della facoltà d’astensione di cui all’art. 249 c.p.c., ha l’obbligo di compilare il modello di testimonianza, indicando le complete generalità e i motivi di astensione. Quando il testimone non spedisce o non consegna le risposte scritte nel termine stabilito, il giudice può condannarlo alla pena pecuniaria di cui all’art. 255, comma 1, c.p.c.. Quando la testimonianza ha ad oggetto documenti di spesa già depositati dalle parti, essa può essere resa mediante dichiarazione sottoscritta dal testimone e trasmessa al difensore della parte nel cui interesse la prova è stata ammessa, senza il ricorso al modello di cui al secondo comma. L’art. 257-bis del codice di rito, peraltro, consente al giudice, una volta esaminate le risposte o le dichiarazioni, di disporre che il testimone sia chiamato a deporre davanti a lui o davanti al giudice delegato.

A sua volta l’art. 103 bis disp. att. c.p.c. stabilisce che la testimonianza scritta sia resa su di un modulo conforme al modello approvato con d.m. 17 febbraio 2010, che individua anche le istruzioni per la sua compilazione, da notificare unitamente al modello. Il modello, sottoscritto in ogni suo foglio dalla parte che ne ha curato la compilazione, deve contenere, oltre all’indicazione del procedimento e dell’ordinanza di ammissione da parte del giudice procedente, idonei spazi per l’inserimento delle complete generalità del testimone, dell’indicazione della sua residenza, del suo domicilio e, ove possibile, di un suo recapito telefonico. Deve altresì contenere l’ammonimento del testimone ai sensi dell’art. 251 c.p.c. e la formula del giuramento di cui al medesimo articolo, oltre all’avviso in ordine alla facoltà di astenersi ai sensi degli artt. 200, 201 e 202 c.p., con lo spazio per la sottoscrizione obbligatoria del testimone, nonché le richieste di cui all’art. 252, comma 1, c.p.c., ivi compresa l’indicazione di eventuali rapporti personali con le parti, e la trascrizione dei quesiti ammessi, con l’avvertenza che il testimone deve rendere risposte specifiche e pertinenti a ciascuna domanda e deve altresì precisare se ha avuto conoscenza dei fatti oggetto della testimonianza in modo diretto o indiretto. Al termine di ogni risposta è apposta, di seguito e senza lasciare spazi vuoti, la sottoscrizione da parte del testimone. Le sottoscrizioni devono essere autenticate da un segretario comunale o dal cancelliere di un ufficio giudiziario; l’autentica delle sottoscrizioni è in ogni caso gratuita nonché esente dall’imposta di bollo e da ogni diritto.

Download (PDF, 45KB)

Per ulteriori informazioni cliccare qui.