202104.30
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Diritto al silenzio nei procedimenti amministrativi dinanzi a CONSOB e Banca d’Italia

SENTENZA N. 84

ANNO 2021

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE COSTITUZIONALE

composta dai signori: Presidente: Giancarlo CORAGGIO; Giudici : Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI, Angelo BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 187-quinquiesdecies del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52), come introdotto dall’art. 9, comma 2, lettera b), della legge 18 aprile 2005, n. 62 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee. Legge comunitaria 2004), promosso dalla Corte di cassazione, sezione seconda civile, nel procedimento vertente tra D. B. e la Commissione nazionale per le società e la borsa (CONSOB), con ordinanza del 16 febbraio 2018, iscritta al n. 54 del registro ordinanze 2018 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 14, prima serie speciale, dell’anno 2018.

Visti l’atto di costituzione di D. B., nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nell’udienza pubblica del 13 aprile 2021 il Giudice relatore Francesco Viganò;

uditi gli avvocati Antonio Saitta e Renzo Ristuccia per D. B. e l’avvocato dello Stato Pio Giovanni Marrone per il Presidente del Consiglio dei ministri;

deliberato nella camera di consiglio del 13 aprile 2021.

Ritenuto in fatto

1.– Con ordinanza del 16 febbraio 2018, la Corte di cassazione, sezione seconda civile, ha sollevato – accanto alle questioni di legittimità costituzionale già definite da questa Corte con la sentenza n. 112 del 2019 – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 187-quinquiesdecies del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52), nel testo originariamente introdotto dall’art. 9, comma 2, lettera b), della legge 18 aprile 2005, n. 62 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee. Legge comunitaria 2004), «nella parte in cui detto articolo sanziona la condotta consistente nel non ottemperare tempestivamente alle richieste della CONSOB o nel ritardare l’esercizio delle sue funzioni anche nei confronti di colui al quale la medesima CONSOB, nell’esercizio delle funzioni di vigilanza, contesti un abuso di informazioni privilegiate».

La disposizione è censurata in riferimento agli artt. 24, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), e all’art. 14, paragrafo 3, lettera g), del Patto internazionale sui diritti civili e politici (PIDCP), nonché in riferimento agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE).

1.1.– Il giudizio a quo trae origine da un procedimento sanzionatorio avviato dalla Commissione nazionale per le società e la borsa (CONSOB) nei confronti di D. B., all’esito del quale sono state irrogate a quest’ultimo le seguenti sanzioni amministrative:

a) una sanzione pecuniaria di 200.000 euro in relazione all’illecito amministrativo di abuso di informazioni privilegiate previsto dall’art. 187-bis, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 58 del 1998, nella versione vigente all’epoca dei fatti, con riguardo all’acquisto, effettuato da D. B. nel febbraio 2009, di 30.000 azioni di una società quotata della quale era socio e consigliere di amministrazione, sulla base del possesso dell’informazione privilegiata relativa all’imminente lancio di un’offerta pubblica di acquisto di tale società, da lui promossa assieme ad altri due soci della medesima società;

b) una sanzione pecuniaria di 100.000 euro in relazione al medesimo illecito amministrativo nell’ipotesi di cui all’art. 187-bis, comma 1, lettera c), del d.lgs. n. 58 del 1998, sempre nella versione vigente all’epoca dei fatti, per avere D. B. indotto una terza persona ad acquistare azioni della società in questione, essendo in possesso della menzionata informazione privilegiata;

c) una sanzione pecuniaria di 50.000 euro in relazione all’illecito amministrativo di cui all’art. 187-quinquiesdecies del d.lgs. n. 58 del 1998, nella versione vigente all’epoca dei fatti, per avere rinviato più volte la data dell’audizione alla quale era stato convocato e, una volta presentatosi alla stessa CONSOB, per essersi rifiutato di rispondere alle domande che gli erano state rivolte;

d) la sanzione accessoria della perdita temporanea dei requisiti di onorabilità per la durata di diciotto mesi, ai sensi dell’art. 187-quater, comma 1, del d.lgs. n. 58 del 1998;

e) la confisca di denaro o beni, ai sensi dell’art. 187-sexies del d.lgs. n. 58 del 1998, fino a concorrenza dell’importo di 149.760 euro, pari all’intero valore delle azioni acquistate mediante la condotta descritta sub a).

Per le stesse condotte di cui ai punti a) e b), a D. B. era stato altresì contestato, in un separato procedimento penale, il delitto di abuso di informazioni privilegiate previsto dall’art. 184 del d.lgs. n. 58 del 1998. Per tale delitto, D. B. ha concordato con il pubblico ministero la pena, condizionalmente sospesa, di undici mesi di reclusione e 300.000 euro di multa, applicata dal Giudice per le indagini preliminari del Tribunale ordinario di Milano il 18 dicembre 2013.

D. B. aveva proposto opposizione avanti alla Corte d’appello di Roma avverso il provvedimento sanzionatorio della CONSOB, allegando tra l’altro l’illegittimità della sanzione irrogatagli ai sensi dell’art. 187-quinquiesdecies del d.lgs. n. 58 del 1998.

La Corte d’appello di Roma aveva tuttavia rigettato l’opposizione, confermando così il provvedimento sanzionatorio adottato dalla CONSOB, con sentenza depositata il 20 novembre 2013.

Contro tale sentenza D. B. aveva quindi proposto il ricorso per cassazione che ha dato origine al presente giudizio incidentale di legittimità costituzionale.

1.2.– In punto di rilevanza delle questioni, il rimettente osserva che la declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 187-quinquiesdecies del d.lgs. n. 58 del 1998 inciderebbe sull’esito del giudizio a quo, nel quale si controverte (anche) della legittimità di detta sanzione.

Non sarebbe d’altra parte possibile escludere, in via interpretativa, l’applicabilità della sanzione ex art. 187-quinquiesdecies a D. B., poiché il soggetto attivo dell’infrazione è «chiunque».

La modifica recata all’art. 187-quinquiesdecies dall’art. 24, comma 1, lettera c), del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179 (Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, nella legge 17 dicembre 2012, n. 221, sarebbe inoltre ininfluente, atteso che la novella si limita ad estendere alla Banca d’Italia il dovere di collaborazione originariamente previsto nei soli confronti della CONSOB.

Sarebbero parimenti irrilevanti le modifiche apportate dall’art. 5, comma 3, del decreto legislativo 3 agosto 2017, n. 129, recante «Attuazione della direttiva 2014/65/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 15 maggio 2014, relativa ai mercati degli strumenti finanziari e che modifica la direttiva 2002/92/CE e la direttiva 2011/61/UE, così, come modificata dalla direttiva 2016/1034/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 giugno 2016, e di adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del regolamento (UE) n. 600/2014 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 15 maggio 2014, sui mercati degli strumenti finanziari e che modifica il regolamento (UE) n. 648/2012, così come modificato dal regolamento (UE) 2016/1033 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 giugno 2016», il quale ha precisato che il ritardo recato all’esercizio delle funzioni della CONSOB è sanzionato con riferimento alle sole funzioni «di vigilanza», ha modificato la cornice edittale delle sanzioni e le ha diversificate a seconda del contravventore (persona fisica o giuridica). Il primo inciso avrebbe infatti valenza meramente esplicativa e non innovativa; mentre la modifica del regime sanzionatorio sarebbe ininfluente, poiché la sanzione irrogata a D. B. si colloca comunque all’interno della forbice edittale, pur modificata, e d’altro canto l’interessato non ha censurato la sua quantificazione.

1.3.– Quanto alla non manifesta infondatezza delle questioni, la Corte di cassazione dubita della legittimità costituzionale dell’art. 187-quinquiesdecies del d.lgs. n. 58 del 1998, nella parte in cui esso si applica «anche nei confronti di colui al quale la medesima CONSOB, nell’esercizio delle sue funzioni di vigilanza, contesti un abuso di informazioni privilegiate», assumendo anzitutto il contrasto di tale disciplina con il diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost.

Rileva la Corte di cassazione che l’accertamento di un illecito amministrativo come quello di cui è causa è prodromico alla possibile irrogazione, nei confronti di chi ne sia riconosciuto autore, sia di sanzioni propriamente penali, per il delitto di cui all’art. 184 del d.lgs. n. 58 del 1998, sia di sanzioni amministrative di natura sostanzialmente punitiva, come è quella di cui all’art. 187-bis del medesimo testo unico; ciò che si è appunto verificato nel caso di specie. Per tale ragione, il soggetto al quale la CONSOB intenda addebitare la commissione di un tale illecito amministrativo dovrebbe godere di tutte le garanzie inerenti al diritto di difesa nei procedimenti penali, così come riconosciute dalla giurisprudenza costituzionale sulla base dell’art. 24 Cost. e, segnatamente, del «diritto di non collaborare alla propria incolpazione» (sono citate l’ordinanza n. 291 del 2002 e la sentenza n. 361 del 1998).

1.4.– La disposizione censurata contrasterebbe inoltre con il «principio della parità delle parti» nel processo, sancito dall’art. 111, secondo comma, Cost., atteso che «[i]l dovere di collaborare con la CONSOB in capo a colui che dalla stessa CONSOB venga sanzionato per l’illecito amministrativo di cui all’art. 187-bis [del d.lgs. n. 58 del 1998] non sembra […] compatibile con la posizione di parità che tale soggetto e la CONSOB debbono rivestire nella fase giurisdizionale di impugnativa del provvedimento sanzionatorio».

1.5.– L’art. 187-quinquiesdecies sarebbe poi contrario all’art. 117, primo comma, Cost. in relazione agli artt. 6 CEDU e 14 PIDCP.

Quanto all’art. 6 CEDU, la Corte di cassazione osserva che, secondo la consolidata giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (sono richiamate le sentenze 5 aprile 2012, Chambaz contro Svizzera; 8 febbraio 1996, John Murray contro Regno Unito; 17 dicembre 1996, Saunders contro Regno Unito; 21 dicembre 2000, Heaney e McGuinnes contro Irlanda; 3 maggio 2001, J. B. contro Svizzera; 4 ottobre 2005, Shannon contro Regno Unito; 8 ottobre 2002, Beckles contro Regno Unito), il diritto di non cooperare alla propria incolpazione e il diritto al silenzio – anche nell’ambito di procedimenti amministrativi funzionali all’irrogazione di sanzioni aventi natura punitiva – debbono considerarsi come implicitamente riconosciuti da tale norma convenzionale, situandosi anzi «al cuore della nozione di processo equo».

Quanto poi al Patto internazionale sui diritti civili e politici, la Corte di cassazione osserva che il suo art. 14, paragrafo 3, lettera g), riconosce esplicitamente il diritto di ogni individuo accusato di un reato a «non essere costretto a deporre contro sé stesso o a confessarsi colpevole». Tale diritto dovrebbe necessariamente essere riconosciuto anche a colui che sia sottoposto a un’indagine condotta da un’autorità amministrativa, ma potenzialmente funzionale all’irrogazione nei suoi confronti di sanzioni di carattere punitivo.

1.6.– La Corte di cassazione sospetta infine che la disciplina in esame violi gli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 47, paragrafo 2, CDFUE.

Rilevato che l’art. 187-quinquiesdecies, e più in generale l’intera disciplina del d.lgs. n. 58 del 1998, ricadono nell’ambito di applicazione del diritto dell’Unione europea ai sensi dell’art. 51 CDFUE, il giudice a quo osserva che la formulazione dell’art. 47, paragrafo 2, CDFUE è sostanzialmente sovrapponibile a quella dell’art. 6, paragrafo 1, CEDU, e deve pertanto essere interpretata – secondo quanto previsto dall’art. 52, paragrafo 3, CDFUE – in conformità all’interpretazione della corrispondente previsione convenzionale, sopra menzionata, fornita dalla Corte europea dei diritti dell’uomo.

La Corte di cassazione rileva, inoltre, che dalla stessa giurisprudenza della Corte di giustizia UE in materia di tutela della concorrenza si evince il principio secondo cui la Commissione non può imporre all’impresa l’obbligo di fornire risposte attraverso le quali questa sarebbe indotta ad ammettere l’esistenza della trasgressione, che deve invece essere provata dalla Commissione (è citata la sentenza 18 ottobre 1989, in causa C-374/87, Orkem).

La Corte di cassazione sottolinea, tuttavia, come dalla direttiva 2003/6/CE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 28 gennaio 2003, relativa all’abuso di informazioni privilegiate e alla manipolazione del mercato (abusi di mercato) – direttiva in attuazione della quale l’art. 187-quinquiesdecies è stato introdotto nel d.lgs. n. 58 del 1998 – si evinca un generale obbligo di collaborazione con l’autorità di vigilanza, la cui violazione deve essere sanzionata dallo Stato membro ai sensi dell’art. 14, paragrafo 3, della direttiva medesima; ed evidenzia come tale obbligo sia sancito anche dal recente regolamento (UE) n. 596/2014 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 16 aprile 2014, relativo agli abusi di mercato (regolamento sugli abusi di mercato) e che abroga la direttiva 2003/6/CE del Parlamento europeo e del Consiglio e le direttive 2003/124/CE, 2003/125/CE e 2004/72/CE della Commissione.

Tale considerazione induce il giudice a quo a domandarsi se detto obbligo, ove ritenuto applicabile anche nei confronti dello stesso soggetto nei cui confronti si stia svolgendo l’indagine, sia compatibile con l’art. 47 CDFUE; e, conseguentemente, se quest’ultima osti a una disposizione nazionale che, come l’art. 187-quinquiesdecies del d.lgs. n. 58 del 1998, presupponga un dovere di prestare collaborazione alle indagini (e conseguentemente di sanzionare l’omessa collaborazione) anche da parte del soggetto nei cui confronti la CONSOB stia svolgendo indagini relative alla possibile commissione di un illecito punito con sanzioni di carattere sostanzialmente penale.

1.7.– Rilevato, dunque, che l’art. 187-quinquiesdecies del d.lgs. n. 58 del 1998 si espone a dubbi di illegittimità costituzionale sotto il profilo della sua possibile contrarietà a parametri costituzionali nazionali (artt. 24, secondo comma, e 111, secondo comma, Cost.), nonché sotto il profilo della sua possibile incompatibilità con la CEDU e con la stessa CDFUE – incompatibilità dalla quale deriverebbe pure, in via mediata, la sua illegittimità costituzionale in forza degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. –, la Corte di cassazione ha ritenuto di dover anzitutto sottoporre tali questioni all’esame di questa Corte.

2.– Si è costituito in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni sollevate siano dichiarate inammissibili o, comunque, infondate.

2.1.– L’interveniente – premesso che D. B. è stato sanzionato esclusivamente per l’ingiustificato ritardo nella comparizione innanzi alla CONSOB, sicché la fattispecie sarebbe assimilabile a quella esaminata da questa Corte nella sentenza n. 33 del 2002 – ha sollevato alcune eccezioni preliminari.

Le questioni sarebbero irrilevanti, sia per il carattere ipotetico delle eventuali conseguenze pregiudizievoli in sede penale a carico di D. B., sia perché quest’ultimo ben avrebbe potuto presentarsi all’audizione e rendere dichiarazioni non sfavorevoli o non suscettibili di pregiudicarlo in sede penale.

L’ordinanza di rimessione si fonderebbe inoltre sull’erroneo presupposto interpretativo che l’eventuale trasmissione al pubblico ministero della documentazione raccolta nello svolgimento dell’attività di accertamento dell’illecito di abuso di informazioni privilegiate comporti anche l’effettiva utilizzabilità a fini probatori, nel processo penale, del materiale raccolto. Dal disposto dell’art. 220 del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271 (Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale) e dalla giurisprudenza di legittimità formatasi in materia si ricaverebbe, invece, l’inutilizzabilità delle dichiarazioni rese da persona nei cui confronti siano emersi, nel corso dell’attività ispettiva e di vigilanza, anche semplici dati indicativi di un fatto apprezzabile come reato e le cui dichiarazioni, ciò nonostante, siano state raccolte in violazione delle norme poste a garanzia del diritto di difesa. Le stesse relazioni ispettive dei funzionari della CONSOB sarebbero acquisibili ai sensi dell’art. 234 del codice di procedura penale e utilizzabili nel processo penale limitatamente alle parti riguardanti il rilevamento dei dati oggettivi.

Infine, la premessa interpretativa circa la natura punitiva delle violazioni di cui all’art. 187-bis del d.lgs. n. 58 del 1998 non sarebbe adeguatamente argomentata.

2.2.– Nel merito, sarebbe insussistente la denunciata violazione dell’art. 24 Cost., atteso che il diritto costituzionale di difesa «non [potrebbe] concretarsi in comportamenti che ledono l’interesse all’efficiente e trasparente funzionamento del mercato pubblico, tutelato dalla sanzione contemplata dall’art. 187-quinquiesdecies».

2.3.– Del pari infondata sarebbe la censura formulata in riferimento all’art. 111 Cost., poiché il dovere di collaborazione presidiato dall’art. 187-quinquiesdecies del d.lgs. n. 58 del 1998 non sarebbe suscettibile di alterare la posizione di parità tra l’incolpato e la CONSOB nella fase giurisdizionale di impugnativa del provvedimento, ove spetta alla seconda provare la fondatezza della propria pretesa punitiva, avvalendosi delle risultanze acquisite nel corso del procedimento amministrativo.

2.4.– Per le medesime considerazioni, sarebbe insussistente la violazione – prospettata peraltro in via ipotetica – dell’art. 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 6, paragrafo 1, CEDU.

2.5.– Sarebbe infine infondato il dubbio di costituzionalità dell’art. 187-quinquiesdecies in riferimento agli artt. 11 e 117 Cost., in relazione all’art. 47 CDFUE, poiché la direttiva 2003/6/CE – di cui la disposizione censurata costituisce attuazione – sottolinea al trentottesimo considerando la necessità di prevedere sanzioni sufficientemente dissuasive e proporzionate alla gravità della violazione dei divieti e obblighi fissati dalla stessa direttiva, e precisa all’art. 12 che i poteri di vigilanza e di indagine conferiti alle autorità competenti includono il diritto di richiedere informazioni e di convocare in audizione «qualsiasi persona», ivi compreso, dunque, il soggetto cui si contesti l’abuso di informazioni privilegiate.

3.– Si è altresì costituito in giudizio D. B., il quale ha invece sostenuto la fondatezza delle questioni, in relazione a tutti i parametri evocati, ripercorrendo le argomentazioni dell’ordinanza di rimessione ed evidenziando – in relazione alla prospettata violazione degli artt. 117, primo comma, Cost. e 6 CEDU – che nelle pronunce Chambaz contro Svizzera e J. B. contro Svizzera la Corte EDU ha escluso la compatibilità con la disposizione convenzionale di sanzioni irrogate a fronte del rifiuto di rispondere a richieste dell’autorità amministrativa o di fornire documenti, nell’ambito di procedimenti fiscali.

4.– Non si è costituita in giudizio la CONSOB, che era parte nel giudizio a quo.

5.– Nella memoria illustrativa depositata in prossimità dell’udienza pubblica del 5 marzo 2019, l’Avvocatura generale dello Stato ha richiamato le deduzioni già svolte nell’atto di intervento.

6.– Nella propria memoria illustrativa D. B., contestate le eccezioni di irrilevanza sollevate dalla difesa erariale, ha sottolineato che il diritto di non contribuire alla propria incolpazione non potrebbe ritenersi recessivo rispetto all’interesse all’efficiente funzionamento del mercato pubblico, stanti l’intangibilità del diritto di difesa di cui all’art. 24 Cost. (è citata la sentenza n. 232 del 1989) e la circostanza che la direttiva 2003/6/CE debba rispettare i diritti fondamentali della CDFUE, secondo quando indicato nel suo quarantaquattresimo considerando.

7.– All’esito dell’udienza pubblica del 5 marzo 2019, con l’ordinanza n. 117 del 2019 questa Corte ha sottoposto alla Corte di giustizia dell’Unione europea, ai sensi dell’art. 267 del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea (TFUE), le seguenti questioni pregiudiziali:

«a) se l’art. 14, paragrafo 3, della direttiva 2003/6/CE, in quanto tuttora applicabile ratione temporis, e l’art. 30, paragrafo 1, lettera b), del regolamento (UE) n. 596/2014 debbano essere interpretati nel senso che consentono agli Stati membri di non sanzionare chi si rifiuti di rispondere a domande dell’autorità competente dalle quali possa emergere la propria responsabilità per un illecito punito con sanzioni amministrative di natura “punitiva”;

b) se, in caso di risposta negativa a tale prima questione, l’art. 14, paragrafo 3, della direttiva 2003/6/CE, in quanto tuttora applicabile ratione temporis, e l’art. 30, paragrafo 1, lettera b), del regolamento (UE) n. 596/2014 siano compatibili con gli artt. 47 e 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, anche alla luce della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo in materia di art. 6 CEDU e delle tradizioni costituzionali comuni agli Stati membri, nella misura in cui impongono di sanzionare anche chi si rifiuti di rispondere a domande dell’autorità competente dalle quali possa emergere la propria responsabilità per un illecito punito con sanzioni amministrative di natura “punitiva”».

8.– Con sentenza del 2 febbraio 2021 (in causa C-481/19, D. B. contro Consob) la grande sezione della Corte di giustizia ha statuito che «[l]’articolo 14, paragrafo 3, della direttiva 2003/6/CE […], e l’articolo 30, paragrafo 1, lettera b), del regolamento (UE) n. 596/2014 […], letti alla luce degli articoli 47 e 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, devono essere interpretati nel senso che essi consentono agli Stati membri di non sanzionare una persona fisica, la quale, nell’ambito di un’indagine svolta nei suoi confronti dall’autorità competente a titolo di detta direttiva o di detto regolamento, si rifiuti di fornire a tale autorità risposte che possano far emergere la sua responsabilità per un illecito passibile di sanzioni amministrative aventi carattere penale oppure la sua responsabilità penale».

9.– È stata quindi fissata nuova udienza innanzi a questa Corte, per il prosieguo della trattazione del presente giudizio di legittimità costituzionale.

10.– In prossimità dell’udienza pubblica del 13 aprile 2021, l’Avvocatura generale dello Stato ha depositato un’ulteriore memoria illustrativa, chiedendo alla Corte, in via principale, di dichiarare irrilevanti o infondate le questioni sollevate dalla Corte di cassazione.

10.1.– La difesa erariale ribadisce che D. B. è stato sanzionato dalla CONSOB non per il silenzio serbato in sede di audizione, ma per le reiterate ed ingiustificate richieste di rinvio dell’audizione, sicché la dedotta violazione del diritto al silenzio sarebbe meramente ipotetica, con conseguente irrilevanza delle questioni.

Poiché inoltre, secondo la sentenza D. B. contro Consob della Corte di giustizia, il diritto al silenzio non può giustificare qualsiasi condotta di omessa collaborazione con le autorità competenti, quale il rifiuto a presentarsi a un’audizione o manovre dilatorie tendenti a rinviare lo svolgimento della stessa, le questioni sollevate dalla Corte di cassazione non potrebbero essere accolte, riferendosi a una fattispecie in cui la parte privata è stata sanzionata per avere appunto posto in essere manovre dilatorie.

10.2.– In subordine, l’Avvocatura generale dello Stato chiede che l’eventuale accoglimento delle questioni circoscriva la portata del diritto al silenzio nei termini ricavabili dalla sentenza D. B. contro Consob.

Ivi la Corte di giustizia avrebbe ricostruito il contenuto del diritto al silenzio alla luce della giurisprudenza della Corte EDU, da cui risulterebbe il carattere non assoluto di tale diritto, che assumerebbe rilievo solo nella misura in cui le dichiarazioni rese dall’incolpato su questioni di fatto abbiano influito sulla motivazione della decisione adottata o sulla sanzione inflitta all’esito del procedimento (sono citate le sentenze Murray contro Regno Unito e 19 marzo 2015, Corbet e altri contro Francia, nonché le conclusioni dell’Avvocato generale Pikamäe rese il 27 ottobre 2020 nella causa D. B. contro Consob).

Nell’ambito dei procedimenti innanzi alla CONSOB, la garanzia del diritto al silenzio non dovrebbe essere letta nel senso di «rimettere all’arbitrio individuale di pochi soggetti qualificati che dispongono di tutte le informazioni rilevanti per qualificare come lecite o illecite le singole operazioni, la decisione se collaborare o meno, consentendo loro di stabilire a propria discrezione se la collaborazione richiesta sia potenzialmente pregiudizievole per i loro interessi in quanto li esporrebbe, a loro giudizio, a sanzioni amministrative».

Tale lettura, alla luce dell’«asimmetria informativa che regna nel mercato finanziario», priverebbe di ogni effetto utile le funzioni di vigilanza della CONSOB, la quale non disporrebbe, al fine dell’accertamento di illeciti legati ad abusi di mercato, di poteri autonomamente esercitabili di accesso, perquisizione e sequestro o di intercettazione di comunicazioni.

Occorrerebbe al contrario differire l’operatività della garanzia del diritto al silenzio «ad un momento successivo al completamento delle indagini: vale a dire al momento della decisione circa la sussistenza degli illeciti, o comunque ad un momento successivo alla contestazione formale degli addebiti; momento in cui si potrà realmente valutare se le dichiarazioni doverosamente rese dall’incolpato siano utilizzabili al fine di accertare a sua carico una violazione sanzionata».

Considerato inoltre che, secondo la giurisprudenza della Corte EDU (è citata la sentenza Chambaz contro Svizzera), la garanzia del nemo tenetur se ipsum accusare nell’ambito dei procedimenti amministrativi «acquista consistenza nei casi in cui il mancato riconoscimento di essa possa condurre all’acquisizione di informazioni utilizzabili contro l’interessato nell’ambito di un procedimento penale», detta garanzia non dovrebbe applicarsi fino al momento in cui il presidente della CONSOB procede alla trasmissione al pubblico ministero della documentazione raccolta nel corso dell’indagine ispettiva, ai sensi dell’art. 187-decies, comma 2, del d.lgs. n. 58 del 1998.

11.– Nella propria ulteriore memoria illustrativa, D. B. chiede invece l’accoglimento delle questioni di legittimità costituzionale, alla luce dell’indicata sentenza resa dalla Corte di giustizia, che ha chiarito come gli artt. 14, paragrafo 3, della direttiva 2003/6/CE e 30, paragrafo 1, lettera b), del regolamento (UE) n. 596/2014 non impongano di sanzionare, ai sensi dell’art. 187-quinquiesdecies, anche colui che sia «indagato» dalla CONSOB per l’illecito di abuso di informazioni privilegiate.

11.1.– La parte richiama le considerazioni svolte da questa Corte nell’ordinanza n. 117 del 2019, secondo cui il diritto al silenzio non può di per sé legittimare il rifiuto del soggetto di presentarsi all’audizione disposta dalla CONSOB, né il suo indebito ritardo nel presentarsi alla stessa audizione, «purché sia garantito – diversamente da quanto avvenuto nel caso di specie – il suo diritto a non rispondere alle domande che gli vengano rivolte durante l’audizione stessa».

Nel caso di specie, D. B. non disponeva, nell’ambito del procedimento avviato dalla CONSOB, di detta garanzia, invece contemplata in materia penale dall’art. 64, comma 3, lettera b), cod. proc. pen., nonché dall’art. 3, paragrafo 1, lettera e), della direttiva 2012/13/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 22 maggio 2012, sul diritto all’informazione nei procedimenti penali, richiamato dal trentunesimo e dal trentaduesimo considerando della direttiva (UE) 2016/343 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 9 marzo 2016, sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali; sicché le sue richieste di rinvio dell’audizione sarebbero giustificate dall’esercizio del diritto fondamentale al silenzio.

La disposizione censurata sarebbe dunque costituzionalmente illegittima ove utilizzata per sanzionare sia «l’esplicita manifestazione della volontà dell’incolpato di non rispondere», sia «un ritardo rispetto a convocazioni prive di indicazioni circa il diritto di evitare di rendere dichiarazioni autoincriminanti nell’ambito del procedimento sanzionatorio ed in particolare nella sua fase istruttoria».

11.2.– Tanto premesso, la parte ripercorre la giurisprudenza di questa Corte sulla natura fondamentale del diritto al silenzio, corollario del diritto di difesa (è citata la sentenza n. 253 del 2019) e sul carattere punitivo, secondo i criteri Engel, delle sanzioni amministrative in materia di abusi di mercato (sono richiamate le sentenze n. 112 del 2019, n. 63 del 2019, n. 223 del 2018 e n. 68 del 2017), per concludere che il censurato art. 187-quinquiesdecies del d.lgs. n. 58 del 1998 «non opera […] un ragionevole bilanciamento tra il diritto di difesa da un lato e quello al buon andamento della p.a. e della tutela del credito ex art. 47 Cost. dall’altro», così violando l’art. 24 Cost. Osserva inoltre che «sarebbe contraddittorio se l’ordinamento interno riconoscesse natura sostanzialmente penale/punitiva alla sanzione de qua […] per poi non pretendere che in siffatti procedimenti sanzionatori siano assicurate almeno le garanzie fondamentali da sempre riconosciute in quelli penali tra cui, in primis, il “diritto al silenzio”».

11.3.– Con riferimento alla violazione degli artt. 111 Cost. e 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 6 CEDU, 14, comma 3, lettera g), PIDCP, e 47 CDFUE, la parte ripercorre adesivamente le argomentazioni dell’ordinanza di rimessione, dell’ordinanza n. 117 del 2019 di questa Corte e della sentenza D. B. contro Consob della Corte di giustizia, concludendo che l’art. 187-quinquiesdecies del d.lgs. n. 58 del 1998 si pone in contrasto con detti parametri e non può essere interpretato in maniera costituzionalmente orientata, sicché dovrebbe essere dichiarato costituzionalmente illegittimo.

Considerato in diritto

1.– Con l’ordinanza indicata in epigrafe, la Corte di cassazione, sezione seconda civile, ha sollevato – accanto alle questioni di legittimità costituzionale già definite da questa Corte con la sentenza n. 112 del 2019 – questioni di legittimità costituzionale dell’art. 187-quinquiesdecies del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52), nel testo originariamente introdotto dall’art. 9, comma 2, lettera b), della legge 18 aprile 2005, n. 62 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee. Legge comunitaria 2004), «nella parte in cui detto articolo sanziona la condotta consistente nel non ottemperare tempestivamente alle richieste della CONSOB o nel ritardare l’esercizio delle sue funzioni anche nei confronti di colui al quale la medesima CONSOB, nell’esercizio delle funzioni di vigilanza, contesti un abuso di informazioni privilegiate».

La disposizione è censurata in riferimento agli artt. 24, 111 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), e all’art. 14, comma 3, lettera g), del Patto internazionale sui diritti civili e politici (PIDCP), nonché in riferimento agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost., in relazione all’art. 47 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (CDFUE).

2.– Le eccezioni di inammissibilità sollevate dall’Avvocatura generale dello Stato non sono fondate.

2.1.– Infondata è, anzitutto, l’eccezione di irrilevanza della questione.

L’ordinanza di rimessione dà atto, invero, che il ricorrente nel processo a quo è stato sanzionato dalla Corte d’appello di Roma non già per essersi rifiutato di rispondere alle domande poste dalla Commissione nazionale per le società e la borsa (CONSOB) in sede di audizione, bensì per il ritardo nel presentarsi all’audizione stessa. Da ciò l’Avvocatura generale dello Stato deduce in sostanza – in particolare nella memoria presentata in prossimità dell’udienza del 13 aprile 2021 – che anche nell’ipotesi di accoglimento delle questioni il ricorrente dovrebbe essere comunque sanzionato, dal momento che il suo diritto al silenzio – secondo quanto espressamente affermato dalla sentenza della grande sezione della Corte di giustizia del 2 febbraio 2021, in causa C-481/19, D. B. contro Consob – non coprirebbe la condotta consistente nel ritardare le funzioni di vigilanza della medesima CONSOB.

Tale rilievo non è, tuttavia, dirimente.

In primo luogo, la rilevanza di una questione di legittimità costituzionale deve essere vagliata ex ante sulla base del petitum così come prospettato dal giudice rimettente, non già – ex post – sulla base della decisione di questa Corte, che ben può circoscrivere l’accoglimento della questione in termini che potrebbero anche non giovare alla parte del giudizio a quo nel cui interesse la questione stessa è stata formulata. Nel caso ora all’esame, il rimettente ha ritenuto per l’appunto di estendere il petitum anche all’ipotesi del procurato ritardo nell’esercizio delle funzioni di vigilanza della CONSOB da parte del ricorrente; ciò che rende di per sé rilevante la questione prospettata.

Inoltre, come più volte precisato da questa Corte (sentenze n. 59 del 2021, n. 254 del 2020, n. 253 e n. 179 del 2019, n. 20 del 2018), la nozione di rilevanza non si identifica con l’utilità concreta dell’auspicata pronuncia di accoglimento per la parte nel procedimento a quo: essenziale e sufficiente a conferire rilevanza alla questione prospettata è, infatti, che il giudice debba effettivamente applicare la disposizione della cui legittimità costituzionale dubita nel procedimento pendente avanti a sé (sentenza n. 253 del 2019) e che la pronuncia della Corte «influi[sca] sull’esercizio della funzione giurisdizionale, quantomeno sotto il profilo del percorso argomentativo che sostiene la decisione del processo principale (tra le molte, sentenza n. 28 del 2010)» (sentenza n. 20 del 2016).

Infine, non può non reiterarsi il rilievo – già svolto nell’ordinanza n. 117 del 2019, e ripreso dalla parte nelle proprie difese – per cui, nella valutazione della sanzionabilità del ritardo di D. B. nel presentarsi all’audizione disposta dalla CONSOB, ben potrebbe il giudice del procedimento a quo valorizzare la circostanza che il diritto al silenzio non era, all’epoca, garantito; e che pertanto il ricorrente – presentandosi all’audizione – si sarebbe trovato di fronte all’alternativa tra rendere in quella sede dichiarazioni potenzialmente autoaccusatorie, ovvero rischiare di essere sanzionato per il rifiuto di rendere tali dichiarazioni.

2.2.– Infondata è altresì l’ulteriore eccezione (invero non ripresa nella memoria conclusiva) di erroneità del presupposto interpretativo, relativa alla mancata considerazione, da parte dell’ordinanza di rimessione, dell’art. 220 del decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271 (Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale). Tale disposizione – nell’interpretazione offertane dalla giurisprudenza di legittimità – escluderebbe l’utilizzabilità delle dichiarazioni rese da persona nei cui confronti siano emersi, nel corso dell’attività ispettiva e di vigilanza, anche semplici dati indicativi di un fatto apprezzabile come reato e le cui dichiarazioni, ciò nonostante, siano state raccolte in violazione delle norme poste a garanzia del diritto di difesa.

Come già rilevato nell’ordinanza n. 117 del 2019, è indubbio che nell’ordinamento italiano non è consentito – ai sensi dell’art. 220 norme att. cod. proc. pen. – utilizzare nel processo penale dichiarazioni rese all’autorità amministrativa nel corso di attività ispettiva o di vigilanza senza l’osservanza delle disposizioni del codice di procedura penale; ma è altrettanto indubbio che tali dichiarazioni – ottenute dall’autorità amministrativa mediante la minaccia di sanzione per il caso di mancata cooperazione – possono in concreto fornire all’autorità stessa (e poi al pubblico ministero) informazioni essenziali in vista dell’acquisizione di ulteriori elementi di prova della condotta illecita, destinati poi a essere utilizzati nel successivo processo penale contro l’autore della condotta, e possono pertanto contribuire, almeno indirettamente, a determinare la sua futura responsabilità penale.

Anche a prescindere da tale considerazione, è peraltro decisivo il rilievo che il diritto al silenzio è qui invocato dal giudice rimettente quale garanzia in capo a colui che possa essere successivamente accusato di avere commesso anche solo un illecito amministrativo, ma suscettibile di dar luogo all’applicazione di una sanzione amministrativa dal carattere punitivo. Indipendentemente, dunque, dalla eventualità che nei suoi confronti venga effettivamente contestata la commissione di un reato.

2.3.– Ictu oculi infondata è, infine, l’eccezione – anch’essa formulata dall’Avvocatura generale dello Stato soltanto nel primo scritto difensivo – secondo cui il rimettente non avrebbe argomentato sulla natura punitiva delle sanzioni amministrative per l’illecito di abuso di informazioni privilegiate, di cui D. B. fu poi ritenuto responsabile dalla CONSOB. Il rimettente ha, in effetti, ampiamente motivato sul punto (pagine 14 e 15 dell’ordinanza), in termini peraltro corrispondenti ad affermazioni più volte compiute da questa stessa Corte, in epoca precedente (sentenza n. 68 del 2017) e successiva all’ordinanza di rimessione (sentenze n. 112 del 2019, n. 63 del 2019 e n. 223 del 2018, nonché ordinanza n. 117 del 2019).

3.– Nel merito, le questioni sollevate dal rimettente sono fondate in riferimento agli artt. 24, 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 6 CEDU e 14, paragrafo 3, lettera g), PIDCP, nonché agli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. in relazione all’art. 47 CDFUE, restando assorbita la questione formulata in riferimento all’art. 111 Cost.

3.1.– Come questa Corte ha già avuto modo di rammentare nell’ordinanza n. 117 del 2019, l’art. 187-quinquiesdecies del d.lgs. n. 58 del 1998, nella versione applicabile ratione temporis ai fatti di cui è causa nel procedimento a quo, prevedeva: «[f]uori dai casi previsti dall’articolo 2638 del codice civile, chiunque non ottempera nei termini alle richieste della CONSOB ovvero ritarda l’esercizio delle sue funzioni è punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da euro cinquantamila ad euro un milione».

Tra i poteri attribuiti alla CONSOB si annovera in particolare, ai sensi dell’art. 187-octies, comma 3, lettera c), del d.lgs. n. 58 del 1998, quello di «procedere ad audizione personale» nei confronti di «chiunque possa essere informato sui fatti».

Il tenore letterale dell’art. 187-quinquiesdecies del d.lgs. n. 58 del 1998, nella versione vigente al momento dei fatti e applicabile nel giudizio a quo, appare dunque estendersi anche all’ipotesi in cui l’audizione personale sia disposta nei confronti di colui che la CONSOB abbia già individuato, sulla base delle informazioni in proprio possesso, come il possibile autore di un illecito il cui accertamento ricade entro la sua competenza.

Il giudice a quo dubita, tuttavia, che un simile esito sia compatibile con il “diritto al silenzio”, fondato su tutti i parametri costituzionali e sovranazionali poc’anzi rammentati.

3.2.– Nell’ordinanza n. 117 del 2019, questa Corte ha già avuto modo di affermare:

– che il “diritto al silenzio” dell’imputato – pur non godendo di espresso riconoscimento costituzionale – costituisce un «corollario essenziale dell’inviolabilità del diritto di difesa», riconosciuto dall’art. 24 Cost. (ordinanze n. 202 del 2004, n. 485 e n. 291 del 2002), garantendo nel procedimento penale all’imputato la possibilità di rifiutare di sottoporsi all’esame testimoniale e, più in generale, di avvalersi della facoltà di non rispondere alle domande del giudice o dell’autorità competente per le indagini;

– che questa Corte non ha avuto, sinora, l’occasione di stabilire se tale diritto si estenda anche nell’ambito di procedimenti amministrativi funzionali all’irrogazione di sanzioni di natura punitiva secondo i criteri Engel;

– che, tuttavia, in numerose occasioni questa Corte ha ritenuto che singole garanzie costituzionali previste per la materia penale si estendano anche a tali sanzioni e ai relativi procedimenti applicativi (si vedano le sentenze citate nell’ordinanza n. 117 del 2019 al punto 7.1. del Considerato in diritto, cui adde sentenze n. 68 del 2021 e n. 96 del 2020);

– che, d’altra parte, non v’è dubbio che le sanzioni previste dagli artt. 187-bis e 187-ter del d.lgs. n. 58 del 1998 abbiano natura punitiva (si vedano le sentenze di questa Corte, della Corte EDU e della Corte di giustizia parimenti citate nell’ordinanza n. 117 del 2019 al punto 7.1. del Considerato in diritto);

– che la Corte EDU ha dal canto suo espressamente esteso il diritto al silenzio desumibile dall’art. 6 CEDU – sub specie di diritto a non cooperare alla propria incolpazione e a non essere costretto a rendere dichiarazioni di natura confessoria – anche all’ambito dei procedimenti amministrativi, riconoscendo in particolare il diritto di chiunque sia sottoposto a un procedimento che potrebbe sfociare nella irrogazione di sanzioni di carattere punitivo a non essere obbligato a fornire all’autorità risposte dalle quali potrebbe emergere la propria responsabilità, sotto minaccia di una sanzione in caso di inottemperanza (si vedano le sentenze citate nell’ordinanza n. 117 del 2019 al punto 7.2. del Considerato in diritto);

– che dagli artt. 47 e 48 CDFUE parrebbe parimenti doversi desumere un tale diritto, pur in assenza di una giurisprudenza in termini della Corte di giustizia.

3.3.– Rilevato, peraltro, che l’art. 187-quinquiesdecies del d.lgs. n. 58 del 1998 censurato costituisce specifica trasposizione dell’obbligo sancito dall’art. 14, paragrafo 3, della direttiva 2003/6/CE (poi sostituito, in termini analoghi, dall’art. 30, paragrafo 1, lettera b, del regolamento UE n. 596/2014), con l’ordinanza n. 117 del 2019 questa Corte aveva ritenuto di dover sospendere il procedimento e di sottoporre alla Corte di giustizia la duplice domanda pregiudiziale, di interpretazione e di validità, letteralmente riportata supra (punto 7 del Ritenuto in fatto). Ciò allo scopo di chiarire, da un lato, se le citate disposizioni della direttiva 2003/6/CE e del regolamento (UE) n. 596/2014, anche alla luce degli artt. 47 e 48 CDFUE, possano essere interpretate nel senso di non vincolare gli Stati membri a sanzionare chi si rifiuti di rispondere a domande dell’autorità competente dalle quali possa emergere la propria responsabilità per un illecito punito con sanzioni amministrative di natura punitiva, esercitando così il proprio diritto al silenzio nell’ambito di tale procedimento; e dall’altro lato se, in caso di risposta negativa a tale prima domanda, le disposizioni in parola siano compatibili con i citati artt. 47 e 48 CDFUE.

3.4.– Nella propria sentenza D. B. contro Consob, la Corte di giustizia ha in sintesi risposto:

– che, in forza del combinato disposto dell’art. 6, paragrafo 3, del Trattato sull’Unione europea (TUE) e dell’art. 52, paragrafo, 3, CDFUE, nell’interpretazione degli artt. 47 e 48 CDFUE occorre tenere conto dei diritti corrispondenti garantiti dall’art. 6 CEDU, come interpretato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, in quanto soglia di protezione minima;

– che, secondo la giurisprudenza della Corte EDU sull’art. 6 CEDU, il diritto al silenzio si trova al centro della nozione di equo processo;

– che, «[t]enuto conto che la protezione del diritto al silenzio mira a garantire che, in una causa penale, l’accusa fondi la propria argomentazione senza ricorrere ad elementi di prova ottenuti mediante costrizione o pressioni, in spregio alla volontà dell’imputato […], tale diritto risulta violato, segnatamente, in una situazione in cui un sospetto, minacciato di sanzioni per il caso di mancata deposizione, o depone o viene punito per essersi rifiutato di deporre» (paragrafo 39);

– che, d’altra parte, tale diritto «non può ragionevolmente essere limitato alle confessioni di illeciti o alle osservazioni che chiamino direttamente in causa la persona interrogata, bensì comprende anche le informazioni su questioni di fatto che possano essere successivamente utilizzate a sostegno dell’accusa ed avere così un impatto sulla condanna o sulla sanzione inflitta a tale persona» (paragrafo 40), ma al tempo stesso non può essere invocato a giustificazione di «qualsiasi omessa collaborazione con le autorità competenti, qual è il caso di un rifiuto di presentarsi ad un’audizione prevista da tali autorità o di manovre dilatorie miranti a rinviare lo svolgimento dell’audizione stessa» (paragrafo 41);

– che il diritto in questione deve essere rispettato anche nell’ambito di procedure di accertamento di illeciti amministrativi, suscettibili di sfociare nell’inflizione di sanzioni amministrative di carattere sostanzialmente penale, come nel caso oggetto del procedimento a quo;

– che tale conclusione «non trova smentita nella giurisprudenza della Corte [di giustizia] relativa alle norme dell’Unione in materia di concorrenza, da cui risulta, in sostanza, che, nell’ambito di un procedimento inteso all’accertamento di una violazione di tali norme, l’impresa interessata può essere costretta a fornire tutte le informazioni necessarie relative ai fatti di cui essa può avere conoscenza e a fornire, ove occorra, i documenti pertinenti che siano in suo possesso, anche quando questi possano servire per dimostrare, segnatamente nei suoi confronti, l’esistenza di un comportamento anticoncorrenziale» (paragrafo 46). Ciò perché – da un lato – anche in tale contesto l’impresa non è comunque tenuta a fornire risposte in virtù delle quali essa si troverebbe a dover ammettere l’esistenza di una violazione siffatta, e perché – dall’altro – tale giurisprudenza concerne persone giuridiche, e «non può applicarsi per analogia quando si tratta di stabilire la portata del diritto al silenzio di persone fisiche» come il ricorrente nel giudizio a quo (paragrafo 48);

– che nell’interpretazione delle norme del diritto derivato dell’Unione, deve essere sempre preferita «quella che rende la disposizione conforme al diritto primario anziché quella che porta a constatare la sua incompatibilità con quest’ultimo» (paragrafo 50);

– che le disposizioni della direttiva 2003/6/CE e del regolamento (UE) n. 596/2014, oggetto dei quesiti di questa Corte, «si prestano ad una interpretazione conforme agli articoli 47 e 48 della Carta, in virtù della quale essi non impongono che una persona fisica venga sanzionata per il suo rifiuto di fornire all’autorità competente risposte da cui potrebbe emergere la sua responsabilità per un illecito passibile di sanzioni amministrative aventi carattere penale oppure la sua responsabilità penale» (paragrafo 55);

– che, anzi, dal diritto al silenzio garantito dagli artt. 47 e 48 CDFUE, come sopra interpretati, discende l’obbligo, a carico degli Stati membri, di assicurare che una persona fisica non possa essere sanzionata in circostanze siffatte (paragrafo 57).

3.5.– L’interpretazione della Corte di giustizia appena riassunta collima, dunque, con la ricostruzione offerta da questa Corte della portata del diritto al silenzio nell’ambito di procedimenti amministrativi che – come quello che ha interessato il ricorrente nel giudizio a quo – siano comunque funzionali a scoprire illeciti e a individuarne i responsabili, e siano suscettibili di sfociare in sanzioni amministrative di carattere punitivo.

Tale diritto è fondato, assieme, sull’art. 24 Cost., sull’art. 6 CEDU e sugli artt. 47 e 48 CDFUE, questi ultimi nell’interpretazione che ne ha ora fornito la Corte di giustizia; e può essere ricavato altresì dall’art. 14, paragrafo 3, lettera g), PIDCP, laddove alla nozione di «reato» contenuta nell’incipit del paragrafo 3 venga assegnato un significato sostanziale, corrispondente a quello gradatamente individuato dalle due corti europee a partire dalla sentenza della Corte EDU 8 giugno 1976, Engel contro Paesi Bassi.

Tutte queste norme, nazionali e sovranazionali, «si integrano, completandosi reciprocamente nella interpretazione» (sentenza n. 388 del 1999, nonché, di recente, sentenza n. 187 del 2019), nella definizione dello standard di tutela delle condizioni essenziali del diritto di difesa di fronte a un’accusa suscettibile di sfociare nell’applicazione di sanzioni a contenuto comunque punitivo, che non possono non comprendere il diritto – con le parole dell’art. 14, paragrafo 3, lettera g), PIDCP – a «non essere costretto a deporre contro se stesso».

3.6.– Resta, a questo punto, soltanto da precisare la portata di tale diritto con riferimento alla specifica questione sottoposta a questa Corte, a fronte della prospettazione del giudice rimettente e delle allegazioni delle parti.

Ritiene questa Corte, sulla base anche delle indicazioni fornite dalla Corte di giustizia in merito alla portata degli artt. 47 e 48 CDFUE, che sia incompatibile con il diritto al silenzio la possibilità di sanzionare una persona fisica la quale, richiesta di fornire informazioni alla CONSOB nel quadro dell’attività di vigilanza svolta da quest’ultima e funzionale alla scoperta di illeciti e alla individuazione dei responsabili, ovvero – a fortiori – nell’ambito di un procedimento sanzionatorio formalmente aperto nei suoi confronti, si sia rifiutata di rispondere a domande, formulate in sede di audizione o per iscritto, dalle quali sarebbe potuta emergere una sua responsabilità per un illecito amministrativo sanzionato con misure di carattere punitivo, o addirittura una sua responsabilità di carattere penale.

Come ha chiarito la Corte di giustizia, non solo il diritto derivato dell’Unione non impone allo Stato italiano di applicare una simile sanzione, ma – anzi – la sua applicazione in un caso siffatto risulterebbe in contrasto con lo stesso diritto primario dell’Unione.

Non può condividersi, in proposito, la lettura restrittiva del diritto al silenzio proposta dall’Avvocatura generale dello Stato nella sua memoria conclusiva, secondo cui l’operatività di tale garanzia andrebbe riservata al momento della decisione circa la sussistenza dell’illecito, o comunque ad un momento successivo alla contestazione formale di esso, quando l’autorità sia in grado di «valutare se le dichiarazioni doverosamente rese dall’incolpato siano utilizzabili al fine di accertare a sua carico una violazione sanzionata». Una tale lettura condurrebbe, infatti, a negare l’essenza stessa del diritto al silenzio, che consiste – precisamente – nel diritto di rimanere in silenzio, ossia di non essere costretto – sotto minaccia di una sanzione, come quella comminata dalla disposizione in questa sede censurata – a rendere dichiarazioni potenzialmente contra se ipsum, e dunque a rispondere a domande dalle quali possa emergere una propria responsabilità. Tale garanzia deve potersi necessariamente esplicare anche in una fase antecedente alla instaurazione del procedimento sanzionatorio, e in particolare durante l’attività di vigilanza svolta dall’autorità, al fine di scoprire eventuali illeciti e di individuarne i responsabili.

Peraltro, come parimenti sottolineato dalla Corte di giustizia (paragrafo 41 della sentenza D. B. contro Consob) e come già questa Corte aveva rilevato nell’ordinanza n. 117 del 2019 (punto 4 del Considerato in diritto), il diritto al silenzio non giustifica comportamenti ostruzionistici che cagionino indebiti ritardi allo svolgimento dell’attività di vigilanza della CONSOB, come il rifiuto di presentarsi ad un’audizione prevista da tali autorità, ovvero manovre dilatorie miranti a rinviare lo svolgimento dell’audizione stessa. Né il diritto al silenzio potrebbe legittimare l’omessa consegna di dati, documenti, registrazioni preesistenti alla richiesta della CONSOB, formulata ai sensi dell’art. 187-octies, commi 3 e 4, del d.lgs. n. 58 del 1998.

3.7.– Va dunque dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 187-quinquiesdecies del d.lgs. n. 58 del 1998, nel testo introdotto dall’art. 9, comma 2, lettera b), della legge n. 62 del 2005 e vigente al momento del fatto addebitato al ricorrente nel processo a quo, nella parte in cui si applica anche alla persona fisica che si sia rifiutata di fornire alla CONSOB risposte che possano far emergere la sua responsabilità per un illecito passibile di sanzioni amministrative di carattere punitivo, ovvero per un reato.

4.– Ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), la dichiarazione di illegittimità costituzionale deve essere estesa, in via consequenziale, alle disposizioni dell’art. 187-quinquiesdecies del d.lgs. n. 58 del 1998 così come modificate, rispettivamente, dall’art. 24, comma 1, lettera c), del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179 (Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, nella legge 17 dicembre 2012, n. 221, e dall’art. 5, comma 3, del decreto legislativo 3 agosto 2017, n. 129, recante «Attuazione della direttiva 2014/65/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 15 maggio 2014, relativa ai mercati degli strumenti finanziari e che modifica la direttiva 2002/92/CE e la direttiva 2011/61/UE, così, come modificata dalla direttiva 2016/1034/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 giugno 2016, e di adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del regolamento (UE) n. 600/2014 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 15 maggio 2014, sui mercati degli strumenti finanziari e che modifica il regolamento (UE) n. 648/2012, così come modificato dal regolamento (UE) 2016/1033 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 giugno 2016».

La prima modifica estende le sanzioni previste dalla norma alle condotte di mancata collaborazione con la Banca d’Italia, tra le quali deve ritenersi compresa anche la mancata risposta a domande formulate dalla stessa Banca d’Italia, che possano far emergere la responsabilità della persona fisica per un illecito passibile di sanzioni amministrative di carattere punitivo, ovvero per un reato. Anche rispetto a tale situazione, strutturalmente identica a quella della mancata risposta alle domande della CONSOB, non può non operare il medesimo diritto al silenzio, nei limiti sopra enucleati; onde la dichiarazione di illegittimità costituzionale che colpisce la disposizione nella versione vigente all’epoca dei fatti deve necessariamente colpire, in parte qua, anche la nuova formulazione introdotta dalla novella in parola.

La seconda modifica ha precisato che il ritardo recato all’esercizio delle funzioni della Banca d’Italia e della CONSOB è sanzionato con riferimento alle sole funzioni «di vigilanza», ha aggiunto al novero delle condotte sanzionate quella di mancata cooperazione, e ha modificato la cornice edittale delle sanzioni, differenziando tra persone fisiche e persone giuridiche. Dal momento che il dato testuale risultante dalla novella lascia intatta la possibilità di sanzionare la persona fisica che si rifiuti di rispondere a domande formulate dalla Banca d’Italia o dalla CONSOB dalle quali possa emergere una sua responsabilità per un illecito amministrativo punito con sanzioni di natura punitiva, ovvero per un reato, anche tale nuova formulazione deve essere dichiarata costituzionalmente illegittima in parte qua.

5.– Merita infine sottolineare che la decisione delle questioni di legittimità costituzionale ora sottoposte all’esame di questa Corte è unicamente incentrata sulla disposizione – l’art.187-quinquiesdecies del d.lgs. n. 58 del 1998 – dalla quale discende l’obbligo di sanzionare anche chi si sia rifiutato di rispondere alle domande della Banca d’Italia e della CONSOB nell’esercizio del proprio diritto al silenzio, obbligo che la presente pronuncia dichiara costituzionalmente illegittimo. Spetterà poi primariamente al legislatore la più precisa declinazione delle ulteriori modalità di tutela di tale diritto – non necessariamente coincidenti con quelle che vigono nell’ambito del procedimento e del processo penale – rispetto alle attività istituzionali della Banca d’Italia e della CONSOB, in modo da meglio calibrare tale tutela rispetto alle specificità dei procedimenti che di volta in volta vengono in considerazione, nel rispetto dei principi discendenti dalla Costituzione, dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e dal diritto dell’Unione europea.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

1) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 187-quinquiesdecies del decreto legislativo 24 febbraio 1998, n. 58 (Testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria, ai sensi degli articoli 8 e 21 della legge 6 febbraio 1996, n. 52), nel testo originariamente introdotto dall’art. 9, comma 2, lettera b), della legge 18 aprile 2005, n. 62 (Disposizioni per l’adempimento di obblighi derivanti dall’appartenenza dell’Italia alle Comunità europee. Legge comunitaria 2004), nella parte in cui si applica anche alla persona fisica che si sia rifiutata di fornire alla CONSOB risposte che possano far emergere la sua responsabilità per un illecito passibile di sanzioni amministrative di carattere punitivo, ovvero per un reato;

2) dichiara, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l’illegittimità costituzionale dell’art. 187-quinquiesdecies del d.lgs. n. 58 del 1998, nel testo modificato dall’art. 24, comma 1, lettera c), del decreto-legge 18 ottobre 2012, n. 179 (Ulteriori misure urgenti per la crescita del Paese), convertito, con modificazioni, nella legge 17 dicembre 2012, n. 221, nella parte in cui si applica anche alla persona fisica che si sia rifiutata di fornire alla Banca d’Italia o alla CONSOB risposte che possano far emergere la sua responsabilità per un illecito passibile di sanzioni amministrative di carattere punitivo, ovvero per un reato;

3) dichiara, in via consequenziale, ai sensi dell’art. 27 della legge n. 87 del 1953, l’illegittimità costituzionale dell’art. 187-quinquiesdecies del d.lgs. n. 58 del 1998, nel testo modificato dall’art. 5, comma 3, del decreto legislativo 3 agosto 2017, n. 129, recante «Attuazione della direttiva 2014/65/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 15 maggio 2014, relativa ai mercati degli strumenti finanziari e che modifica la direttiva 2002/92/CE e la direttiva 2011/61/UE, così, come modificata dalla direttiva 2016/1034/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 giugno 2016, e di adeguamento della normativa nazionale alle disposizioni del regolamento (UE) n. 600/2014 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 15 maggio 2014, sui mercati degli strumenti finanziari e che modifica il regolamento (UE) n. 648/2012, così come modificato dal regolamento (UE) 2016/1033 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 23 giugno 2016», nella parte in cui si applica anche alla persona fisica che si sia rifiutata di fornire alla Banca d’Italia o alla CONSOB risposte che possano far emergere la sua responsabilità per un illecito passibile di sanzioni amministrative di carattere punitivo, ovvero per un reato.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 13 aprile 2021.

F.to:

Giancarlo CORAGGIO, Presidente

Francesco VIGANÒ, Redattore

Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria

Depositata in Cancelleria il 30 aprile 2021.

Il Direttore della Cancelleria

F.to: Roberto MILANA