Corte Cost., 7 luglio 2015, n. 132 (testo)
SENTENZA N. 132
ANNO 2015
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Marta CARTABIA; Giudici : Giuseppe FRIGO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 37-bis, comma 4, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi), promosso dalla Corte di cassazione, nel procedimento vertente tra l’Agenzia delle entrate e la Cassa di Risparmio di Rieti spa, con ordinanza del 5 novembre 2013, iscritta al n. 278 del registro ordinanze 2013 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 1, prima serie speciale, dell’anno 2014.
Visti l’atto di costituzione della Cassa di Risparmio di Rieti spa, nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 26 maggio 2015 il Giudice relatore Daria de Pretis;
uditi l’avvocato Augusto Fantozzi per la Cassa di Risparmio di Rieti spa e l’avvocato dello Stato Gianni De Bellis per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza del 5 novembre 2013, la Corte di cassazione ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 37-bis, comma 4, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi), in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione.
La questione è sorta nel corso di un giudizio promosso dalla Cassa di Risparmio di Rieti spa, che ha impugnato davanti alla Commissione tributaria provinciale di Rieti un avviso di accertamento – e la derivata cartella esattoriale – in materia di IRPEF e di ILOR per l’anno 1997.
Con l’avviso di accertamento, che trae origine da un processo verbale di constatazione redatto dalla Guardia di finanza, l’Agenzia delle entrate ha sottoposto a tassazione, tra il resto, la somma di 760.558,00 euro, dedotta quale perdita generata dalla cessione di crediti, in quanto operazione elusiva, ai sensi dell’art. 37-bis del d.P.R. n. 600 del 1973.
Con sentenza depositata il 12 luglio 2007, la Commissione tributaria regionale del Lazio, in totale riforma della sentenza di primo grado, ha annullato l’avviso di accertamento, giacché la sua notifica è avvenuta prima del decorso del termine di sessanta giorni dal ricevimento della lettera di chiarimenti richiesti al contribuente, in violazione dell’art. 37-bis, comma 4, del d.P.R. n. 600 del 1973.
La sentenza di appello è stata impugnata dall’Agenzia delle entrate, sulla base di quattro motivi.
La Corte di cassazione precisa di dovere esaminare per primo, atteso il suo carattere preliminare, il secondo motivo del ricorso, con il quale l’Agenzia delle entrate deduce che il rispetto delle regole sul contraddittorio preventivo con il contribuente, ai sensi del comma 4 dell’art. 37-bis, è divenuto irrilevante, dovendo prevalere la necessità di reprimere l’elusione, a seguito dell’introduzione nell’ordinamento nazionale del generale divieto di abuso del diritto, in forza del quale l’amministrazione può disattendere gli effetti di operazioni compiute essenzialmente per il conseguimento di un vantaggio fiscale.
2.– Ad avviso della rimettente, la questione sarebbe rilevante, in quanto l’avviso di accertamento impugnato nel giudizio principale è stato notificato cinquantaquattro giorni dopo il ricevimento della richiesta di chiarimenti, sicché dall’applicazione della norma censurata conseguirebbe la nullità dell’atto.
Quanto alla non manifesta infondatezza, la norma contrasterebbe in primo luogo con l’art. 3 Cost., per disparità di trattamento, perché è “distonica” rispetto al diritto vivente, costituito dalla costante giurisprudenza di legittimità secondo cui nel nostro ordinamento esiste un principio generale, ricavabile dall’art. 53 Cost., che vieta di conseguire indebiti vantaggi fiscali abusando del diritto.
Secondo la rimettente, solo l’art. 37-bis del d.P.R. n. 600 del 1973, che ha natura speciale rispetto al generale divieto dell’abuso del diritto, prevede forme di contraddittorio preventivo con il contribuente da osservare a pena di nullità, sicché ne deriva una irragionevole disparità di trattamento con le fattispecie antielusive che non sono riconducibili alla norma denunciata, nonché con altre disposizioni che consentono l’inopponibilità all’amministrazione finanziaria di negozi elusivi, come l’art. 20 del decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131 (Approvazione del Testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro), in relazione alle quali la legge non prevede analoga sanzione.
L’irragionevolezza della sanzione di nullità sarebbe resa evidente anche dal confronto con la natura officiosa della rilevabilità delle fattispecie elusive ad opera del giudice, che implica l’impossibilità di instaurare un contraddittorio preventivo tra l’amministrazione finanziaria e il contribuente.
La norma violerebbe, in secondo luogo, il principio che impone a tutti l’adempimento delle obbligazioni tributarie, ai sensi dell’art. 53 Cost., giacché fa dipendere la nullità dell’avviso di accertamento da un mero vizio di forma del contraddittorio, il quale deve avere invece carattere di effettività sostanziale e non formalistico, come si desume dall’applicazione, nel ben più delicato campo processuale, della regola, riconosciuta dalla giurisprudenza, in base alla quale la nullità delle notificazioni degli atti fiscali è sanata per raggiungimento dello scopo, se il contribuente impugna correttamente l’atto, ai sensi degli artt. 156, terzo comma, del codice di procedura civile, e 60 del d.P.R. n. 600 del 1973.
La rimettente conclude rilevando che la norma non sembra suscettibile di interpretazioni adeguatrici, attesa la perentoria formulazione della comminatoria di nullità, «diretta proprio a protezione delle forme del preventivo contraddittorio».
3.– La Cassa di Risparmio di Rieti spa, costituitasi in giudizio, ha chiesto che la questione sia dichiarata manifestamente infondata, sottolineando la legittimità e la ragionevolezza della procedura di contraddittorio preventivo delineata nel comma 4 dell’art. 37-bis, che costituisce il contraltare, a tutela del contribuente, del penetrante e invasivo potere dell’amministrazione finanziaria di accertare fattispecie elusive, permeato da ampie valutazioni discrezionali.
A tale proposito, richiama il principio generale del “giusto procedimento amministrativo”, che prevede l’obbligo del contraddittorio con l’interessato prima dell’emanazione dell’atto amministrativo, e ricorda che il legislatore ha più volte previsto, a pena di nullità dell’accertamento, l’obbligo del contraddittorio preventivo tra l’amministrazione finanziaria e il contribuente, tutte le volte che ha ritenuto di rilevante interesse la partecipazione del privato in chiave difensiva, e che la giurisprudenza, in via interpretativa, ha ravvisato la nullità dell’atto impositivo in casi nei quali il legislatore, pur prevedendo l’obbligo del contraddittorio preventivo, non ha tuttavia specificato la sanzione per la sua violazione.
Ne conseguirebbe che la norma censurata, là dove prevede la nullità dell’avviso di accertamento per violazione delle regole sul contraddittorio preventivo, non è “distonica” nemmeno in una prospettiva sistematica, al contrario di quanto ritiene il giudice a quo.
La Cassa di Risparmio di Rieti spa nega, altresì, che il divieto di abuso del diritto in materia tributaria costituisca idoneo tertium comparationis, e contesta la legittimità della creazione stessa di un simile divieto per via giurisprudenziale, con particolare riguardo ai tributi non armonizzati, creazione che si risolverebbe in un eccesso di potere giurisdizionale, in quanto l’art. 53 Cost. – norma dalla quale, malgrado la sua natura programmatica, la Corte di cassazione fa discendere l’indicato divieto – non esprime un principio generale antielusivo direttamente applicabile alle singole fattispecie, risultando ciò incompatibile con l’art. 23 Cost., che prevede una riserva di legge in materia.
Osserva poi che è arbitrario il confronto di una norma di legge con un orientamento giurisprudenziale e che si dovrebbero semmai estendere anche alle altre fattispecie antielusive, individuate sulla base del generale divieto di abuso del diritto, le stesse garanzie difensive previste a tutela del contribuente dalla norma denunciata, in ossequio al richiamato principio del giusto procedimento amministrativo, che è riconosciuto anche dall’art. 41 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000, e che la Corte di giustizia dell’Unione europea ha più volte applicato in tema di accertamento dei tributi armonizzati, facendo così sorgere una esigenza di pari trattamento dei comportamenti abusivi riguardanti i tributi non armonizzati, in particolare le imposte dirette.
Nega, quindi, che l’art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986, individuato dalla rimettente quale ulteriore tertium comparationis, costituisca in realtà una norma antielusiva e che il richiamo alla rilevabilità d’ufficio dell’abuso del diritto nel processo tributario sia conferente, poiché si tratta di un istituto estraneo alla fase dell’accertamento tributario, alla quale si riferisce invece la norma denunciata, e poiché comunque il rilievo officioso non esonera il giudice dal dovere di instaurare sulla questione il contraddittorio tra le parti.
Infine, osserva che nel caso concreto è stata radicalmente omessa la richiesta di chiarimenti al contribuente, con macroscopica violazione della norma, e che la Corte di cassazione sembra avere confuso la disciplina speciale di cui all’art. 37-bis, comma 4, del d.P.R. n. 600 del 1973 con quella generale prevista dall’art. 12, comma 7, della legge 27 luglio 2000, n. 212 (Disposizioni in materia di statuto dei diritti del contribuente), che contempla una mera facoltà del contribuente di instaurare il contraddittorio preventivo, imponendo all’amministrazione solo di rispettare il termine dilatorio di sessanta giorni dal rilascio del processo verbale di constatazione, prima di notificare l’atto impositivo.
4.– È intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile.
A suo avviso, il giudice a quo ha in primo luogo omesso di esperire il doveroso tentativo di interpretare la norma denunciata in senso costituzionalmente orientato, alla luce della sua stessa giurisprudenza, che ha più volte escluso, in materia processuale, la legittimità di soluzioni interpretative volte a conferire rilievo a formalismi non giustificati da effettive garanzie difensive, mediante il richiamo al principio del «giusto processo», come introdotto dal novellato art. 111 Cost., e ha altresì escluso la nullità prevista dall’art. 42, secondo e terzo comma, del d.P.R. n. 600 del 1973 in materia di motivazione degli avvisi di accertamento, se è rispettato il diritto di difesa.
Si dovrebbe inoltre considerare che l’origine comunitaria del divieto dell’abuso del diritto impone di disapplicare le eventuali regole processuali di diritto interno che impediscono la sua piena attuazione.
In secondo luogo, il giudice a quo non avrebbe sufficientemente motivato sulla rilevanza della questione, omettendo di valutare la infondatezza del terzo e del quarto motivo di impugnazione della sentenza di appello – entrambi idonei ad assorbire il secondo motivo, erroneamente qualificato come preliminare –, con i quali l’Agenzia delle entrate ha dedotto, rispettivamente, che il termine dilatorio di sessanta giorni venne osservato, decorrendo esso dal giorno in cui il processo verbale di constatazione era entrato nel possesso della contribuente, e che non ci fu alcuna violazione del contraddittorio, sia perché durante la verifica fiscale vi era stato uno scambio di informazioni e di chiarimenti con i responsabili della banca, sia perché il ritardo di soli sei giorni rispetto alla scadenza era, da un lato, giustificato dalla necessità di impedire la decadenza della pretesa impositiva e, d’altro lato, non aveva impedito alla contribuente di esercitare il diritto di difesa.
5.– La Cassa di Risparmio di Rieti spa ha depositato una memoria illustrativa, nella quale contesta le ragioni dedotte dal Presidente del Consiglio dei ministri, ribadendo che la sanzione in esame non attribuisce rilievo a formalismi non giustificati da concrete esigenze difensive del contribuente e risponde anche alla «necessità di evitare una inaccettabile “discriminazione a rovescio”», che si verificherebbe a danno dei rapporti disciplinati dal solo diritto interno rispetto a quelli soggetti anche al diritto comunitario, in relazione ai quali, con particolare riferimento ai tributi armonizzati, si applica il principio del giusto processo amministrativo.
Osserva poi che, dopo la pronuncia dell’ordinanza di rimessione, la Corte di cassazione medesima ha dapprima recepito il principio fondamentale dell’obbligatorietà del contraddittorio endoprocedimentale in materia tributaria, a pena di nullità dell’atto, ogni volta che deve essere adottato un provvedimento lesivo dei diritti e degli interessi del contribuente, indipendentemente dal fatto che ciò sia previsto espressamente da una norma positiva, e con successive pronunce ha superato il presupposto stesso da cui muove l’ordinanza, statuendo che l’amministrazione finanziaria, nel caso in cui intenda contestare fattispecie elusive, indipendentemente dalla loro riconducibilità o meno alle ipotesi contemplate dall’art. 37-bis, comma 3, del d.P.R. n. 600 del 1973, è tenuta a richiedere i preventivi chiarimenti al contribuente e ad osservare il termine dilatorio di sessanta giorni prima di emettere l’atto, che è altrimenti viziato da nullità.
L’evoluzione della giurisprudenza, che esclude anche la natura elusiva della fattispecie disciplinata dall’art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986, dimostrerebbe pertanto la manifesta infondatezza della questione.
Infine, la Cassa di Risparmio di Rieti contesta l’eccezione di irrilevanza della questione, osservando sia che la Corte di cassazione ha sufficientemente motivato sul punto, là dove ha sottolineato che dall’applicazione della norma conseguirebbe la nullità dell’avviso, sia che il terzo e il quarto motivo di impugnazione, al contrario di ciò che sostiene l’intervenuto, sono in concreto infondati.
5.1.– Con una memoria depositata nell’imminenza dell’udienza, il Presidente del Consiglio dei ministri ha illustrato ulteriormente le ragioni a sostegno delle eccezioni di inammissibilità della questione, ribadendo che l’esame preliminare del terzo e del quarto motivo di ricorso per cassazione avrebbe consentito alla rimettente di pronunciare l’annullamento della sentenza impugnata, senza necessità di sollevare la questione di legittimità costituzionale, e che il tentativo di interpretazione adeguatrice avrebbe condotto il giudice a quo alla stessa conclusione, alla luce della giurisprudenza relativa all’analoga fattispecie di cui all’art. 12, comma 7, della legge n. 212 del 2000, che nega la nullità dell’atto emesso ante tempus, qualora il contraddittorio sia stato sostanzialmente rispettato.
L’intervenuto contesta poi la tesi secondo la quale il principio generale dell’abuso del diritto in materia tributaria non sarebbe ammissibile, in mancanza di una norma positiva che lo prevede, e richiama un recente contrario orientamento espresso dalla Corte di giustizia dell’Unione europea in materia di IVA.
Considerato in diritto
1.– La Corte di cassazione dubita della legittimità costituzionale – in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione – dell’art. 37-bis, comma 4, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi), nella parte in cui sanziona con la nullità l’avviso di accertamento che sia stato emesso prima della scadenza del termine di sessanta giorni dal ricevimento da parte del contribuente della richiesta di chiarimenti.
La questione è sorta nel corso di un giudizio promosso dalla Cassa di Risparmio di Rieti spa per l’annullamento di un avviso di accertamento in materia di IRPEF e di ILOR per l’anno 1997, con il quale l’Agenzia delle entrate ha sottoposto a tassazione, tra il resto, la somma di 760.558,00 euro, dedotta quale perdita generata dalla cessione di crediti, in quanto operazione elusiva ai sensi dell’art. 37-bis del d.P.R. n. 600 del 1973.
La Commissione tributaria regionale del Lazio, in riforma della sentenza di primo grado, aveva annullato l’avviso di accertamento, in quanto notificato prima della scadenza del termine dilatorio di sessanta giorni previsto dalla norma censurata. La Corte di cassazione, investita dell’impugnazione della sentenza di appello, ritiene la questione rilevante, perché all’applicazione della norma stessa consegue la nullità dell’atto, come statuito dalla sentenza impugnata. La ritiene inoltre non manifestamente infondata, perché la norma contrasterebbe in primo luogo con l’art. 3 Cost., per disparità di trattamento, essendo “distonica” rispetto al diritto vivente, secondo cui esiste nel nostro ordinamento un principio generale, ricavabile dall’art. 53 Cost., che vieta di abusare del diritto per conseguire indebiti vantaggi fiscali.
Ad avviso della rimettente, solo l’art. 37-bis del d.P.R. n. 600 del 1973, che ha natura speciale rispetto alla disciplina generale del divieto dell’abuso del diritto, prevede forme di contraddittorio preventivo con il contribuente da osservare a pena di nullità. Alla fattispecie in esso prevista sarebbe quindi riservato un trattamento irragionevolmente diverso rispetto a quello generale stabilito per le fattispecie antielusive non riconducibili alla norma denunciata, nonché a quello previsto da altre disposizioni che, come l’art. 20 del decreto del Presidente della Repubblica 26 aprile 1986, n. 131 (Approvazione del Testo unico delle disposizioni concernenti l’imposta di registro), stabiliscono l’inopponibilità all’amministrazione finanziaria di negozi elusivi, senza prevedere una analoga sanzione.
In secondo luogo, facendo dipendere la nullità dell’avviso di accertamento da un mero vizio di forma del contraddittorio, la norma violerebbe l’art. 53 Cost., che impone a tutti l’adempimento delle obbligazioni tributarie. La garanzia del contraddittorio deve avere invece carattere di effettività sostanziale, come si desume, nel campo processuale, dagli artt. 156, terzo comma, del codice di procedura civile, e 60 del d.P.R. n. 600 del 1973, che la giurisprudenza interpreta nel senso che la nullità della notificazione dell’atto fiscale è sanata per raggiungimento dello scopo, se il contribuente impugna correttamente l’atto.
Secondo la rimettente, infine, la norma non sarebbe suscettibile di interpretazioni adeguatrici, considerata la perentoria formulazione della comminatoria di nullità, «diretta proprio a protezione delle forme del preventivo contraddittorio».
2.– Il Presidente del Consiglio dei ministri, intervenuto nel giudizio, ha eccepito l’inammissibilità della questione per non essere stato esperito il tentativo di interpretare la norma in senso costituzionalmente orientato e per omessa motivazione sulla rilevanza.
Per priorità logica si inizia con l’esame di questo secondo profilo.
Ad avviso dell’intervenuto, la rimettente avrebbe dovuto prima respingere gli altri motivi di ricorso proposti dalla Agenzia delle entrate, al cui accoglimento dovrebbe seguire la cassazione della sentenza impugnata, indipendentemente dalla soluzione della questione di costituzionalità.
L’eccezione non è fondata.
Secondo il costante orientamento di questa Corte, nel giudizio di costituzionalità non è sindacabile l’ordine logico secondo il quale il rimettente reputa, in modo non implausibile, di affrontare le varie questioni o i motivi di ricorso portati al suo esame (ex plurimis, sentenze n. 272 del 2007, n. 409 e n. 226 del 1998, n. 213 del 1994). Il giudice a quo ha precisato che il secondo motivo del ricorso ha carattere preliminare, perché con esso l’Agenzia delle entrate deduce che il rispetto del procedimento previsto dal comma 4 dell’art. 37-bis è ormai irrilevante, dovendo prevalere la necessità di reprimere l’elusione, a seguito dell’introduzione nell’ordinamento nazionale del generale divieto di abuso del diritto, in forza del quale l’amministrazione può disattendere gli effetti di operazioni compiute essenzialmente per conseguire un vantaggio fiscale.
La rimettente ha così fornito una motivazione non implausibile della rilevanza della questione con riferimento alla necessità, ai fini della soluzione della controversia, di stabilire se la notificazione dell’avviso di accertamento prima del decorso del termine dilatorio stabilito dalla norma censurata determini o meno la nullità dell’atto.
Nemmeno l’altra eccezione di inammissibilità è fondata.
Secondo l’intervenuto, la rimettente avrebbe potuto interpretare la norma nel senso, da ritenere costituzionalmente conforme, che la previsione di nullità in essa contenuta non è vincolante. A tale fine viene menzionata la giurisprudenza di legittimità che ha più volte escluso, in materia processuale, la legittimità di soluzioni interpretative dirette a conferire rilievo a formalismi non giustificati da effettive garanzie difensive, mediante il richiamo al principio del «giusto processo», come introdotto dal novellato art. 111 Cost., e ha altresì escluso che si possa dichiarare la nullità dell’avviso di accertamento per difetto di motivazione, ai sensi dell’art. 42, secondo e terzo comma, del d.P.R. n. 600 del 1973, qualora sia rispettato il diritto di difesa.
Il richiamo all’art. 111 Cost., tuttavia, non è conferente. La questione sottoposta all’esame di questa Corte non riguarda infatti la nullità di un atto processuale, bensì quella di un atto impositivo. Si consideri inoltre che l’orientamento giurisprudenziale invocato applica il principio del «giusto processo» per limitare i casi di inesistenza delle notificazioni degli atti processuali ogni qual volta vi sia un astratto collegamento tra il luogo di esecuzione della notifica e il suo destinatario, confermando che in tali casi si tratta pur sempre di nullità della notifica, suscettibile, in quanto tale, di essere sanata dall’intervenuto raggiungimento dello scopo ai sensi dell’art. 156 cod. proc. civ.
Neppure è conferente il richiamo all’orientamento giurisprudenziale in tema di motivazione dell’avviso di accertamento, richiesta a pena di nullità dall’art. 42, secondo e terzo comma, del d.P.R. n. 600 del 1973. Secondo il menzionato orientamento, l’obbligo di motivazione è soddisfatto ogni qual volta sia enunciato il petitum dell’ufficio impositore e risultino indicate le relative ragioni in termini sufficienti a definire la materia del contendere. La norma denunciata, tuttavia, non fa dipendere la nullità dell’atto impositivo dal suo contenuto, ma da un vizio del procedimento diretto a instaurare il contraddittorio anticipato con il contribuente. L’interpretazione della norma stessa, pertanto, non può essere in alcun modo orientata dall’individuazione dei requisiti minimi della motivazione dell’avviso di accertamento.
A sostegno dell’eccezione in esame, l’intervenuto invoca, altresì, il potere-dovere del giudice di conformarsi al diritto comunitario nella decisione della controversia e quindi, secondo l’orientamento della stessa Corte di cassazione, l’obbligo di disapplicare le regole processuali di diritto interno (come quelle che precludono, in sede di legittimità, l’esame di questioni non specificamente dedotte dal ricorrente e l’introduzione di nuove questioni di fatto) che impediscono la piena applicazione delle norme dell’Unione europea. Nemmeno questo argomento è idoneo a orientare l’interprete nel senso indicato dall’intervenuto, sia perché la norma denunciata non costituisce una regola processuale, sia perché dall’origine comunitaria del principio generale del divieto di abuso del diritto in materia tributaria non deriva, di per sé, l’incompatibilità con lo stesso diritto dell’Unione europea di una norma nazionale che prevede misure a garanzia del contraddittorio preventivo con il contribuente. Al contrario, il rispetto dei diritti di difesa costituisce un principio generale del diritto comunitario, che trova applicazione ogniqualvolta l’amministrazione si proponga di adottare nei confronti di un soggetto un atto per esso lesivo, con la conseguenza che i destinatari di decisioni che incidono sensibilmente sui loro interessi devono essere messi in condizione di manifestare utilmente il loro punto di vista in merito agli elementi sui quali l’amministrazione intende fondare la propria decisione (ex plurimis, Corte di giustizia delle Comunità europee, sentenza 18 dicembre 2008, in causa C-349/07).
3.– La questione sollevata in relazione all’art. 3 Cost. è infondata.
Nel porre la questione, la rimettente individua il tertium comparationis della lamentata violazione dell’art. 3 Cost., in primo luogo, nel principio generale antielusivo in materia tributaria, che non sanzionerebbe con la nullità gli avvisi di accertamento affetti da vizi formali del contraddittorio preventivo con il contribuente. Un ulteriore tertium comparationis è individuato poi dal giudice a quo nell’art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986, che dovrebbe essere considerato come una speciale norma antielusiva in materia di imposta di registro.
3.1.– Secondo la costante giurisprudenza di legittimità (ex plurimis, Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenze 23 dicembre 2008, n. 30055 e n. 30057; Corte di cassazione, quinta sezione civile, sentenza 7 novembre 2012, n. 19234), il generale divieto di abuso del diritto si traduce, in materia tributaria, in un principio generale antielusivo, che trae fondamento dai principi costituzionali di capacità contributiva e di progressività dell’imposizione. Tale principio preclude al contribuente di conseguire vantaggi fiscali mediante l’uso distorto, anche se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un’agevolazione o un risparmio d’imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, diverse dalla mera aspettativa di quei benefici. Esso comporta che il negozio non sia opponibile all’amministrazione finanziaria per ogni profilo di indebito vantaggio tributario che il contribuente pretenda di far discendere dall’operazione elusiva.
Il ricordato orientamento implica, come suo naturale corollario, che il divieto di abuso del diritto in materia tributaria deve considerarsi operante nel nostro ordinamento fin da prima dell’entrata in vigore dell’art. 37-bis del d.P.R. n. 600 del 1973, con la conseguenza che quest’ultima disposizione, introdotta dall’art. 7, comma 1, del decreto legislativo 8 ottobre 1997, n. 358 (Riordino delle imposte sui redditi applicabili alle operazioni di cessione e conferimento di aziende, fusione, scissione e permuta di partecipazioni), costituirebbe una norma speciale, con la quale il legislatore ha applicato la clausola generale antielusiva nel settore delle imposte sui redditi.
La sussistenza della violazione del principio di eguaglianza, nei termini prospettati dal giudice a quo, presuppone che, per le fattispecie elusive non riconducibili all’art. 37-bis e soggette al solo divieto generale di abuso del diritto, non operi la stessa sanzione della nullità dell’atto impositivo che risulti affetto dallo stesso vizio.
Tuttavia, non solo l’ordinanza di rimessione non offre alcuna particolare motivazione sul punto, limitandosi ad affermare che per le fattispecie elusive non disciplinate dall’art. 37-bis non operano regole analoghe, ma l’ipotesi dalla quale muove è contraddetta dalla stessa giurisprudenza di legittimità – sia pure formatasi in epoca successiva all’ordinanza di rimessione – secondo la quale l’amministrazione finanziaria che intenda contestare fattispecie elusive, anche se non riconducibili alle ipotesi contemplate dall’art. 37-bis del d.P.R. n. 600 del 1973, è tenuta, a pena di nullità dell’atto impositivo, a richiedere chiarimenti al contribuente e a osservare il termine dilatorio di sessanta giorni, prima di emettere l’avviso di accertamento, il quale dovrà essere specificamente motivato anche con riguardo alle osservazioni, ai chiarimenti e alle giustificazioni, eventualmente forniti dal contribuente (Corte di cassazione, quinta sezione civile, sentenze 14 gennaio 2015, n. 406 e 5 dicembre 2014, n. 25759).
Questa conclusione si collega idealmente, rappresentandone l’evoluzione, a precedenti decisioni delle sezioni unite della Corte di cassazione, con le quali è stato riconosciuto, nella fattispecie di cui al richiamato art. 12, comma 7, della legge n. 212 del 2000, che l’inosservanza da parte dell’amministrazione del termine dilatorio di sessanta giorni dal rilascio della copia del processo verbale di chiusura delle operazioni, posto a garanzia del diritto di difesa del contribuente, determina la nullità dell’atto di accertamento emesso ante tempus anche in mancanza di un’espressa comminatoria, salvo che non ricorrano specifiche ragioni di urgenza, le quali devono essere adeguatamente motivate (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 29 luglio 2013, n. 18184), ed è stato riconosciuto, altresì, in materia di iscrizione ipotecaria prevista dall’art. 77 del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito), che l’attivazione del contraddittorio endoprocedimentale costituisce un principio fondamentale immanente nell’ordinamento, operante anche in difetto di una espressa e specifica previsione normativa, a pena di nullità dell’atto finale del procedimento, per violazione del diritto di partecipazione dell’interessato al procedimento stesso (Corte di cassazione, sezioni unite civili, sentenza 18 settembre 2014, n. 19667). Talune incertezze che permangono, nella giurisprudenza di legittimità, intorno ai limiti e, soprattutto, alle modalità di applicazione di questi principi, specie nei casi diversi da quelli contemplati dall’art. 12, comma 7, della legge n. 212 del 2000, costituiscono oscillazioni interpretative che non toccano direttamente la portata applicativa della norma censurata.
Il quadro composito così delineato chiarisce che il principio generale antielusivo, assunto dalla rimettente a tertium comparationis, non impedisce affatto, con riguardo alle fattispecie non riconducibili all’art. 37-bis del d.P.R. n. 600 del 1973, che debba essere instaurato il previo contraddittorio fra l’amministrazione finanziaria e il contribuente, né esclude che il vizio del contraddittorio conseguente alla violazione del termine produca la nullità dell’atto impositivo.
La sussistenza di un orientamento non isolato della stessa Corte di cassazione, che tende a riconoscere forza espansiva alla regola contenuta nella norma denunciata, non consente di ritenere esistente un diritto vivente in base al quale gli atti impositivi adottati in applicazione della clausola generale antielusiva si debbano considerare validi anche se emessi in violazione della regola contenuta nella stessa norma.
In altri termini, il tertium comparationis indicato dal giudice a quo non corrisponde a un principio generale, rispetto al quale la disciplina denunciata rivesta un carattere ingiustificatamente derogatorio, come è invece necessario ai fini del giudizio sulla violazione del principio di eguaglianza (sentenze n. 43 del 1989 e n. 1064 del 1988).
Nemmeno l’art. 20 del d.P.R. n. 131 del 1986, in tema di applicazione dell’imposta di registro, secondo cui «L’imposta è applicata secondo la intrinseca natura e gli effetti giuridici degli atti presentati alla registrazione, anche se non vi corrisponda il titolo o la forma apparente», costituisce un idoneo tertium comparationis. Secondo la rimettente, anche tale norma avrebbe natura antileusiva, ma la sua violazione non comporta una sanzione analoga a quella stabilita dalla norma denunciata.
Senza entrare nel merito della qualificazione della norma, è sufficiente osservare che la mancanza dell’espressa previsione, in essa, del contraddittorio anticipato non sarebbe comunque d’ostacolo all’applicazione del principio generale di partecipazione del contribuente al procedimento, di cui si è detto. Sicché nemmeno questo termine di riferimento assunto dalla rimettente è idoneo a dimostrare la denunciata disparità di trattamento.
A sostegno del giudizio di non manifesta infondatezza della questione, la rimettente richiama anche l’orientamento giurisprudenziale favorevole alla rilevabilità d’ufficio delle fattispecie elusive. È tuttavia evidente la mancanza di omogeneità dei due istituti – della sanzione della nullità dell’accertamento in violazione del contraddittorio procedimentale, per un verso, e del rilievo d’ufficio, per l’altro –, giacché l’uno, disciplinato dall’art. 37-bis, comma 4, del d.P.R. n. 600 del 1973, attiene alla fase propedeutica all’accertamento fiscale, mentre l’altro si collega, secondo l’indicato orientamento, al potere-dovere del giudice di rilevare ex officio, nelle controversie tributarie, le eventuali cause di invalidità o di inopponibilità di un negozio, che già appartengono all’oggetto del giudizio.
Si deve sottolineare, altresì, che il rilievo d’ufficio del giudice è in ogni caso subordinato all’avvenuta instaurazione del previo contraddittorio tra le parti, a pena di nullità della sentenza ai sensi dell’art. 101, secondo comma, cod. proc. civ., norma applicabile anche al processo tributario in virtù del rinvio di cui all’art. 1, comma 2, del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413)
3.2.– Con riguardo alla prospettata violazione dell’art. 53 Cost., si osserva che la nullità dell’avviso di accertamento per inosservanza del termine dilatorio prescritto dalla norma denunciata è la conseguenza, come si è detto, di un vizio del procedimento, consistente nel fatto di non essere stato messo a disposizione del contribuente l’intero lasso di tempo previsto dalla legge a garanzia della sua facoltà di partecipare al procedimento stesso presentando osservazioni e chiarimenti. Il rispetto del termine dilatorio assolve anche allo scopo di consentire che l’avviso di accertamento sia «specificamente motivato» dall’ufficio tributario, in relazione alle giustificazioni fornite dal contribuente, come prescrive, sempre a pena di nullità, il comma 5 dello stesso art. 37-bis.
Dalla considerazione unitaria delle prescrizioni dei commi 4 e 5, che scandiscono in modo rigoroso il procedimento preordinato all’assunzione dell’avviso di accertamento della fattispecie elusiva, emerge in modo ancora più evidente la funzione di tutela effettiva del contraddittorio propria del termine in questione. La sanzione della nullità dell’atto conclusivo del procedimento assunto in violazione del termine stesso trova dunque ragione in una divergenza dal modello normativo che, lungi dall’essere qualificabile come meramente formale o innocua, o come di lieve entità, è invece di particolare gravità, in considerazione della funzione di tutela dei diritti del contribuente della previsione presidiata dalla sanzione della nullità, e del fatto che la violazione del termine da essa previsto a garanzia dell’effettività del contraddittorio procedimentale impedisce il pieno svolgersi di tale funzione.
La sanzione prevista dalla norma censurata non è dunque posta a presidio di un mero requisito di forma del procedimento, estraneo alla sostanza del contraddittorio, come assume la rimettente, ma costituisce invece strumento efficace ed adeguato di garanzia dell’effettività del contraddittorio stesso, eliminando in radice l’avviso di accertamento emanato prematuramente. La necessità che al contribuente sia consentito di partecipare al procedimento e la ragionevolezza della sanzione in caso di violazione del termine stabilito per garantire l’effettività di tale partecipazione, sono ancora più evidenti se si considerano le peculiarità dell’accertamento delle fattispecie elusive e il ruolo decisivo che in esso possono svolgere gli elementi forniti dal contribuente, in particolare in vista della valutazione che l’amministrazione è chiamata a compiere dell’esistenza di valide ragioni economiche sottese alle operazioni esaminate.
È poi evidente che, ai fini della decisione della questione in esame, non può presentare alcun rilievo la circostanza, richiamata nell’ordinanza di rimessione a sostegno della pretesa irragionevolezza della norma censurata, che nel caso oggetto del giudizio a quo l’avviso fosse stato notificato poco prima dello spirare del termine dilatorio di sessanta giorni. Così come non è pertinente il richiamo, operato dalla rimettente, all’interpretazione giurisprudenziale della regola sulla sanatoria della nullità della notificazione degli atti, sia processuali che impositivi, per raggiungimento dello scopo. Il giudice a quo censura la norma in quanto prescrive la nullità dell’atto per violazione del termine dilatorio, non già perché il termine non sarebbe congruo o perché non sarebbe prevista la sanatoria della nullità così prodotta, sicché entrambi i menzionati argomenti sono da ritenere estranei ai termini della questione di legittimità costituzionale come sollevata.
La questione è, quindi, infondata anche in riferimento all’art. 53 Cost.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara non fondata la questione di legittimità costituzionale dell’art. 37-bis, comma 4, del decreto del Presidente della Repubblica 29 settembre 1973, n. 600 (Disposizioni comuni in materia di accertamento delle imposte sui redditi), sollevata, in riferimento agli artt. 3 e 53 della Costituzione, dalla Corte di cassazione con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 26 maggio 2015.
F.to:
Marta CARTABIA, Presidente
Daria de PRETIS, Redattore
Gabriella Paola MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 7 luglio 2015.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Gabriella Paola MELATTI
(fonte www.cortecostituzionale.it)