Corte Cost., 28 maggio 2014, n. 142 (testo)
SENTENZA N. 142
ANNO 2014
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Gaetano SILVESTRI; Giudici : Luigi MAZZELLA, Sabino CASSESE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI, Giorgio LATTANZI, Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Sergio MATTARELLA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 39, comma 5, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 15 luglio 2011, n. 111, promosso dalla Commissione tributaria provinciale di Campobasso nel giudizio vertente tra Candela Anna e l’Agenzia delle entrate – Direzione provinciale – Ufficio Controlli Campobasso, con ordinanza dell’11 novembre 2013, iscritta al n. 276 del registro ordinanze 2013 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 1, prima serie speciale, dell’anno 2014.
Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nella camera di consiglio del 26 marzo 2014 il Giudice relatore Aldo Carosi.
Ritenuto in fatto
1.– Con ordinanza dell’11 novembre 2013, la Commissione tributaria provinciale di Campobasso ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 39, comma 5, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 15 luglio 2011, n. 111, in riferimento agli artt. 3, 53 e 104 della Costituzione.
La norma censurata prevede che: «I compensi corrisposti ai membri delle commissioni tributarie entro il periodo di imposta successivo a quello di riferimento si intendono concorrere alla formazione del reddito imponibile ai sensi dell’articolo 11 del testo unico delle imposte sui redditi di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917».
1.1.– Il rimettente, dopo aver escluso la sussistenza degli estremi dell’astensione obbligatoria in ragione dell’oggetto della questione, riferisce che la ricorrente nel giudizio principale, giudice della Commissione tributaria provinciale di Campobasso, ha percepito nel dicembre del 2012 compensi arretrati di competenza dell’anno 2011 (per un importo lordo di euro 5.932,75 e netto di euro 3.951,70, con ritenute per un ammontare di euro 1.981,05) assoggettati a tassazione ordinaria (aliquota massima) in base all’art. 39, comma 5, del d.l. n. 98 del 2011 invece che a tassazione separata, come in precedenza previsto dall’art. 17, comma 1, lettera b), del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, recante «Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi» (TUIR). Secondo quest’ultima disposizione, «L’imposta si applica separatamente sui seguenti redditi: […] b) emolumenti arretrati per prestazioni di lavoro dipendente riferibili ad anni precedenti, percepiti per effetto di leggi, di contratti collettivi, di sentenze o di atti amministrativi sopravvenuti o per altre cause non dipendenti dalla volontà delle parti, compresi i compensi e le indennità di cui al comma 1 dell’articolo 47» (ora art. 50), comma 1, lettera f), che annovera tra i redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente anche «i compensi corrisposti ai membri delle commissioni tributarie». Deducendo l’illegittima applicazione dell’art. 39, comma 5, del d.l. n. 98 del 2011 anche ad emolumenti arretrati maturati prima della sua entrata in vigore e l’illegittimità costituzionale della norma per contrasto con gli artt. 53 e 3 Cost., la ricorrente – che aveva vanamente chiesto all’Agenzia delle entrate il rimborso di quanto indebitamente trattenuto, anche esperendo reclamo, ai sensi dell’art. 17-bis del decreto legislativo 21 dicembre 1992, n. 546 (Disposizioni sul processo tributario in attuazione delle delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), avverso l’originario diniego – ha proposto ricorso al giudice a quo, chiedendo l’annullamento del provvedimento e che fosse dichiarato l’obbligo dell’Agenzia delle entrate di assoggettare gli emolumenti relativi all’anno 2011 a tassazione separata con applicazione dell’aliquota media e conseguente condanna al rimborso di quanto trattenuto in eccesso, oltre interessi e spese di lite.
Costituitasi in giudizio, l’Agenzia delle entrate ha sostenuto di aver fatto corretta applicazione della norma censurata, ritenendone la conformità a Costituzione.
1.2.– Il rimettente evidenzia che, ai sensi dell’art. 51 (già art. 48) del TUIR, per il reddito di lavoro dipendente – cui è assimilato il compenso del giudice tributario, in base all’art. 50 (già art. 47), comma 1, lettera f), del medesimo testo unico – vige il principio di cassa, secondo cui le somme debbono essere assoggettate ad imposizione nel medesimo anno in cui sono corrisposte, con la sola eccezione rappresentata dalla cosiddetta “cassa allargata”, per la quale è imputato al periodo d’imposta precedente il reddito percepito entro il 12 gennaio successivo.
Il rimettente sostiene che, per evitare che il sistema della progressività delle aliquote possa condurre, per i redditi percepiti con ritardo, ad un carico fiscale eccessivamente elevato, l’art. 17 del TUIR prevede che l’imposta sia applicata separatamente dagli altri redditi dello stesso periodo con il limite, dettato da finalità antielusive, che il ritardo avvenga «per effetto di leggi, di contratti collettivi, di sentenze o di atti amministrativi sopravvenuti o per altre cause non dipendenti dalla volontà delle parti». Tra queste ultime non rientrerebbe, secondo la circolare dell’Agenzia delle entrate n. 23/E del 5 febbraio 1997, il ritardo cosiddetto “fisiologico”, che si avrebbe quando, per la complessità della procedura di liquidazione, i tempi di erogazione risultino conformi a quelli necessari per analoghe procedure di liquidazione da parte di altri sostituti d’imposta rientranti nella prassi comune.
Nel caso di specie, tuttavia, ad avviso del rimettente non si verserebbe in un caso di ritardo fisiologico, trattandosi di compensi liquidabili sulla base di prospetti in larga parte predisposti nell’anno di maturazione ma corrisposti solo l’ultimo mese di quello successivo. Peraltro, il Ministero dell’economia e delle finanze – proprio a fronte della nota n. 48710 dell’11 marzo 2004 con cui l’Agenzia delle entrate aveva ritenuto ritardo fisiologico la corresponsione nel mese di maggio dell’anno successivo a quello di maturazione dei compensi variabili dei giudici tributari maturati nel secondo semestre dell’anno precedente – avrebbe stabilito scansioni ben precise per l’erogazione degli emolumenti spettanti ai giudici tributari, l’ultima delle quali sarebbe costituita dal 15 gennaio dell’anno successivo a quello di maturazione, con solo qualche altra settimana per gli ulteriori adempimenti.
In questo contesto sarebbe intervenuta la norma censurata.
Il rimettente evidenzia che, fra tutti i redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente in base all’art. 50 (già art. 47) del TUIR, solo per gli emolumenti arretrati riferibili all’anno precedente corrisposti ai giudici tributari, il censurato. 39, comma 5, del d.l. n. 98 del 2011 prevede la tassazione ordinaria (aliquota massima) se corrisposti entro il periodo d’imposta successivo a quello di riferimento. In tal modo esso, quand’anche dettato dalla necessità di rispettare le esigenze di bilancio e di contenere la spesa pubblica, si paleserebbe discriminatorio – considerato che il principio espresso dall’art. 3 Cost. si estenderebbe all’uguaglianza tributaria, per cui a situazioni uguali dovrebbero corrispondere regimi impositivi uguali – e scollegato dalla capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost., che andrebbe intesa come idoneità del soggetto a soddisfare l’obbligazione d’imposta, desumibile dal presupposto economico al quale la prestazione risulti connessa.
Infatti, ad avviso del rimettente, sebbene possano ravvisarsi differenze tra gli emolumenti dei giudici tributari e quelli degli altri percettori di redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente, tale diversità qualitativa potrebbe rilevare solo ove la capacità contributiva di coloro che sono assoggettati a tassazione separata (ossia, ad un minor tributo) sia di gran lunga inferiore quantitativamente rispetto a quella dei contribuenti assoggettati alla tassazione ordinaria (ossia, ad un maggior tributo). Poiché il mancato assoggettamento al regime di cui all’art. 39, comma 5, del d.l. n. 98 del 2011 dei redditi degli altri contribuenti citati non dipenderebbe dalla valutazione delle diverse caratteristiche delle varie forme di lavoro e dalla minore capacità contributiva, la norma determinerebbe un’irragionevole ed ingiustificata discriminazione a discapito di una limitata categoria di soggetti passivi, sottoponendoli ad un regime tributario peggiorativo in violazione degli artt. 3 e 53 Cost.
Inoltre, secondo il rimettente, la norma censurata si paleserebbe come un monito nei confronti proprio di quei soggetti chiamati a giudicare sull’applicazione delle leggi tributarie e sul rispetto delle garanzie previste dall’ordinamento per i contribuenti, manifestando una supremazia del potere esecutivo – e segnatamente del Ministero dell’economia e delle finanze, che avrebbe predisposto il decreto-legge e, per di più, sarebbe debitore dei compensi da corrispondere ai giudici tributari, oltre ad essere parte sostanziale, attraverso le Agenzie fiscali, nella maggioranza dei giudizi tributari – sul potere giudiziario e violando il principio di autonomia ed indipendenza della magistratura di cui all’art. 104 Cost.
1.3.– Quanto alla rilevanza della questione, il rimettente sostiene che la norma impugnata, entrata in vigore il 17 luglio 2011, non sarebbe retroattiva, con la conseguenza che la questione non sarebbe rilevante quanto agli emolumenti maturati fino al 16 luglio 2011, cui illegittimamente l’amministrazione avrebbe applicato la tassazione ordinaria (aliquota massima) invece che quella separata (aliquota media).
Viceversa, lo sarebbe con riferimento agli emolumenti arretrati relativi al periodo successivo all’entrata in vigore dell’art. 39, comma 5, del d.l. n. 98 del 2011, ossia dal 17 luglio 2011 al 31 dicembre 2011, cui sarebbe applicabile, dovendosi stabilire il sistema di tassazione operante nella fattispecie.
2.– Con atto depositato il 22 gennaio 2014 è intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o, comunque, manifestamente infondata.
2.1.– Anzitutto, l’ordinanza di rimessione non preciserebbe l’importo di cui è chiesto il rimborso, come si sia pervenuti allo stesso ed a quale periodo si riferirebbe l’asserita maggiore tassazione, tenuto conto che non rileverebbero gli emolumenti maturati fino al 17 luglio 2011 e quelli maturati dal 1° ottobre 2011 al 31 dicembre 2011, in quanto “fisiologicamente” corrisposti oltre il 12 gennaio 2012, per cui comunque assoggettati a tassazione ordinaria. Infine, non sarebbe precisato se e quali compensi sarebbero maturati nei settantacinque giorni per i quali dovrebbe operare, secondo il rimettente, il regime di tassazione separata.
Alla luce di tali considerazioni, la questione sarebbe inammissibile per difetto di motivazione sulla rilevanza.
2.2.– Secondo il Presidente del Consiglio dei ministri, inoltre, la questione sarebbe manifestamente infondata.
A suo avviso, il giudice a quo muoverebbe dall’erroneo presupposto che la norma abbia una finalità di maggiore imposizione, mentre in realtà essa si limiterebbe a reintrodurre il normale regime di cassa, i cui effetti potrebbero essere favorevoli o sfavorevoli al contribuente a seconda dei casi, con il fine di evitare incertezze applicative della disciplina fiscale in ragione della peculiarità di determinazione dei compensi dei giudici tributari.
Sotto il primo profilo, la difesa erariale evidenzia che l’art. 17 (già art. 16), comma 1, lettera b), del TUIR, sarebbe stato costantemente interpretato dall’amministrazione finanziaria nel senso che la tassazione separata, in deroga al regime generale di tassazione per cassa, operi solo quando il ritardo nella corresponsione degli emolumenti sia conseguenza di nuove disposizioni o sia conseguenza di eventi eccezionali tali da qualificarlo come “patologico”, dovendo altrimenti applicarsi l’ordinaria disciplina, per cui il reddito contribuisce a determinare l’imponibile dell’anno di percezione.
Quanto all’altro aspetto, il Presidente del Consiglio dei ministri rammenta le peculiarità del regime dei compensi dei giudici tributari, secondo cui, ai sensi dell’art. 13 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 545 (Ordinamento degli organi speciali di giurisdizione tributaria ed organizzazione degli uffici di collaborazione in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), con decreto ministeriale viene determinato un compenso fisso mensile ed un compenso aggiuntivo per ciascun ricorso definito, liquidato in relazione ad ogni provvedimento emesso. Tale particolarità avrebbe indotto il legislatore ad emanare una norma di chiarimento che evitasse di dover verificare caso per caso il motivo del ritardo, ritenendolo fisiologico – e, come tale, inidoneo a provocare la tassazione separata – allorché i compensi vengano corrisposti nell’anno successivo a quello di maturazione. La finalità di semplificazione escluderebbe l’irragionevolezza della norma ed il suo carattere discriminatorio, afferendo ad un sistema di corresponsione degli emolumenti diverso da quello previsto per le altre categorie di contribuenti contemplate dall’art. 50 (già art. 47) del TUIR, dunque insuscettibile di dare luogo ad ingiustificate disparità di trattamento. Sarebbe pertanto esclusa la violazione dell’art. 3 Cost.
Secondo l’intervenuto, inoltre, la norma censurata non si porrebbe in contrasto con il principio della capacità retributiva, in quanto la norma inciderebbe solo sul criterio di tassazione applicabile, che potrebbe in astratto condurre anche ad una riduzione dell’imposizione.
Infine, ad avviso del Presidente del Consiglio dei ministri, sarebbe altresì da escludere una violazione dell’art. 104 Cost., alla luce delle effettive finalità della disposizione impugnata e per l’impossibilità di configurare la dedotta supremazia del potere esecutivo a fronte di un atto promanante dal Parlamento, che ha approvato la legge di conversione del decreto-legge.
Considerato in diritto
1.– La Commissione tributaria provinciale di Campobasso ha sollevato questione di legittimità costituzionale dell’art. 39, comma 5, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 15 luglio 2011, n. 111, in riferimento agli artt. 3, 53 e 104 della Costituzione.
La norma censurata prevede che: «I compensi corrisposti ai membri delle commissioni tributarie entro il periodo di imposta successivo a quello di riferimento si intendono concorrere alla formazione del reddito imponibile ai sensi dell’articolo 11 del testo unico delle imposte sui redditi di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917».
1.1.– Il rimettente precisa che il giudizio a quo è stato proposto da un giudice della Commissione tributaria provinciale di Campobasso, il quale ha percepito nel dicembre del 2012 compensi arretrati di competenza dell’anno 2011 assoggettati a tassazione ordinaria (aliquota massima), in base all’art. 39, comma 5, del d.l. n. 98 del 2011, invece che a tassazione separata come in precedenza avrebbe previsto l’art. 17 (già art. 16), comma 1, lettera b), del decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, recante «Approvazione del testo unico delle imposte sui redditi» (TUIR). Detta disposizione prevede che: «L’imposta si applica separatamente sui seguenti redditi: […] b) emolumenti arretrati per prestazioni di lavoro dipendente riferibili ad anni precedenti, percepiti per effetto di leggi, di contratti collettivi, di sentenze o di atti amministrativi sopravvenuti o per altre cause non dipendenti dalla volontà delle parti, compresi i compensi e le indennità di cui al comma 1 dell’articolo 47 [ora art. 50]». L’art. 50, comma 1, lettera f), richiama «i compensi corrisposti ai membri delle commissioni tributarie».
La regola generale prevista dall’art. 51 (già art. 48) del TUIR per il reddito di lavoro dipendente – cui è assimilato il compenso del giudice tributario, ai sensi dell’art. 50 (già art. 47), comma 1, lettera f), del medesimo testo unico – sarebbe quella del “principio di cassa”, secondo cui le somme debbono essere assoggettate ad imposizione nel medesimo anno in cui sono corrisposte, con la sola eccezione rappresentata dalla cosiddetta “cassa allargata”, per la quale è imputato al periodo d’imposta precedente il reddito percepito entro il 12 gennaio successivo.
Peraltro, per detti redditi sarebbe previsto il regime particolare di cui all’art. 17 (già art. 16), comma 1, lettera b), del d.P.R. n. 917 del 1986.
L’ordinanza di rimessione sottolinea come, fra tutti i redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente indicati dall’art. 50 TUIR, solo per gli emolumenti arretrati riferibili all’anno precedente corrisposti ai giudici tributari l’art. 39, comma 5, del d.l. n. 98 del 2011 abbia introdotto la tassazione ordinaria – comportante l’applicazione della aliquota massima inerente ai redditi dell’anno di percezione – fino al compimento dell’intero periodo d’imposta successivo a quello di competenza.
La nuova disciplina sarebbe discriminatoria nei confronti di una limitata categoria di soggetti passivi, quella dei giudici tributari, sottoponendoli ad un regime di tassazione contrario agli artt. 3 e 53 Cost. Da un lato, infatti, si tratterebbe di una deroga immotivata all’interno di una categoria di redditi per i quali l’art. 17 (già art. 16) del TUIR prevede l’applicazione dell’imposta separatamente dagli altri redditi dello stesso periodo; dall’altro, tale regime sarebbe scollegato dalla capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost., tenendo conto che l’obbligazione tributaria si manifesterebbe in relazione all’esercizio in cui l’attività di questa tipologia di contribuenti produce ricchezza e non a quello in cui avviene la materiale erogazione del compenso.
In pratica, la norma contestata amplierebbe, in modo assolutamente discriminatorio nell’ambito della categoria dei percettori di redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente, il principio della cassa allargata da 12 giorni all’intero anno solare.
Inoltre, secondo il giudice a quo, la norma censurata verrebbe a configurare un’anomala manifestazione di supremazia dell’esecutivo proprio nei confronti del potere giudiziario ed in particolare dei soggetti chiamati a giudicare sull’applicazione delle leggi tributarie e ad assicurare il rispetto delle garanzie previste dall’ordinamento per i contribuenti.
1.2.– La difesa dello Stato contesta, sotto il profilo della rilevanza, la mancata specificazione, nell’ordinanza di rimessione, del titolo e dell’importo della asserita maggiore tassazione.
Nel merito, essa eccepisce che: a) il meccanismo ordinario di tassazione dei redditi delle persone fisiche sarebbe quello di cassa, per cui il regime derogatorio dello stesso non potrebbe essere utilizzato quale tertium comparationis; b) la norma impugnata non avrebbe lo scopo di aggravare la tassazione nei riguardi dei giudici tributari, ma solo quello di quantificare in modo preciso i ritardi fisiologici determinati dagli incombenti a carico dell’amministrazione per liquidare i compensi; c) la natura del reddito in questione sarebbe diversa dagli altri assimilati a quelli da lavoro dipendente e, in ragione di tale diversità, sarebbe stata dettata una particolare disciplina ispirata alla semplificazione; d) non vi sarebbe violazione del principio di capacità contributiva poiché la norma non avrebbe natura impositiva ed, in quanto tale, non influirebbe in modo diretto sull’imposizione che, nella concreta applicazione, ne potrebbe essere condizionata anche in senso favorevole al contribuente; e) non vi sarebbe violazione dell’art. 104 Cost., attesa la conversione del decreto-legge ad opera del Parlamento, cui sarebbe imputabile la disciplina in esso contenuta.
2.– Preliminarmente, deve essere dichiarata priva di fondamento l’eccezione d’inammissibilità sollevata dall’Avvocatura dello Stato in ordine alla pretesa mancata specificazione del titolo e dell’importo dell’asserita maggiore tassazione.
In realtà, l’ordinanza di rimessione precisa che il ricorso da cui ha preso le mosse il giudizio a quo individua correttamente quali emolumenti – nell’ambito complessivo dei compensi arretrati percepiti – sono stati assoggettati a tassazione ordinaria, anziché separata, in applicazione della norma impugnata. L’ambito temporale applicativo di quest’ultima viene infatti ad essere ampliato proprio dalla disposizione della cui legittimità si dubita, senza alcuna correlata influenza del cosiddetto criterio del ritardo fisiologico di cui si dirà meglio in prosieguo – e che, comunque, il giudice a quo non contesta – poiché l’idoneità di quest’ultimo a differire in modo legittimo la tassazione separata è resa ininfluente dal più ampio periodo moratorio stabilito dalla disposizione stessa.
3.– Ai fini della decisione del merito, è utile ricordare alcuni principi che ispirano la disciplina dell’imposizione tributaria sui redditi di lavoro dipendente ed assimilati, categoria cui appartiene – per effetto dell’art. 50 (già art. 47), comma 1, lettera f), del TUIR – la fattispecie all’esame di questa Corte.
La regola generale dell’imposizione su detti redditi è quella di cassa, ricavabile dall’art. 7 del TUIR, secondo cui ad ogni anno solare – salvo quanto appresso specificato – corrisponde un’obbligazione tributaria autonoma.
Su quest’ultima si innesta il principio della “cassa allargata”, il quale trova fondamento nell’art. 51 (già art. 48), comma 1, del TUIR. Esso consiste nella parificazione, ai fini impositivi, dei compensi di lavoro dipendente ed assimilati erogati entro il 12 gennaio dell’esercizio successivo a quelli erogati nel precedente. In buona sostanza, sulla base di detto principio, vengono attratte nel reddito annuale le somme percepite entro il 12 gennaio dell’anno successivo.
Al contrario, per i redditi percepiti in un determinato periodo d’imposta, ma maturati in tempi precedenti, vige il diverso regime della tassazione separata (art. 17 (già art. 16), comma 1, del TUIR), che è una modalità particolare di determinazione dell’IRPEF, la cui ratio è individuata dalla circolare del Ministero delle finanze n. 23/E del 5 febbraio 1997 nella necessità di «attenuare gli effetti negativi che deriverebbero dalla rigida applicazione del criterio di cassa» in quei casi in cui la tassazione ordinaria di un reddito formatosi nel corso di più anni, ma corrisposto in unica soluzione, potrebbe risultare eccessivamente oneroso per il contribuente.
La disciplina dei compensi erogati ai giudici tributari è contenuta nell’art. 13 del decreto legislativo 31 dicembre 1992, n. 545 (Ordinamento degli organi speciali di giurisdizione tributaria ed organizzazione degli uffici di collaborazione in attuazione della delega al Governo contenuta nell’art. 30 della legge 30 dicembre 1991, n. 413), il quale stabilisce che i giudici componenti delle commissioni tributarie percepiscono due tipi di compensi: uno mensile, determinato in cifra fissa, ed uno aggiuntivo variabile, che discende dal numero e dalla tipologia dei provvedimenti depositati. L’entità dei compensi è determinata periodicamente dal Ministero dell’economia e delle finanze con proprio decreto.
Le modalità di computo ed erogazione, in attuazione del primo decreto interministeriale 19 dicembre 1997, sono contenute nella circolare del Ministero delle finanze n. 80/E dell’11 marzo 1998, secondo la quale la liquidazione dei compensi deve avvenire di regola mensilmente.
Come detto, tali compensi sono assimilati dall’art. 50 (già art. 47), comma 1, lettera f), del TUIR ai redditi da lavoro dipendente. In ragione di tale assimilazione per i medesimi trovano applicazione le disposizioni inerenti a tale categoria generale, ivi comprese quelle che determinano i principi della tassazione per cassa e per “cassa allargata”, nonché il criterio della tassazione separata per gli emolumenti arretrati.
La versione originaria dell’art. 17 (già art. 16) del TUIR non forniva la nozione di «emolumenti arretrati», ma si limitava a far generico riferimento agli «emolumenti arretrati relativi ad anni precedenti per prestazioni di lavoro dipendente». In seguito, l’art. 3, comma 82, della legge 28 dicembre 1995, n. 549 (Misure di razionalizzazione della finanza pubblica), precisò che tale locuzione individua «[…] emolumenti arretrati per prestazioni di lavoro dipendente riferibili ad anni precedenti, percepiti per effetto di leggi, di contratti collettivi, di sentenze o di atti amministrativi sopravvenuti o per altre cause non dipendenti dalla volontà delle parti».
Secondo l’interpretazione che ne ha dato il Ministero dell’economia e delle finanze (in particolare, a partire dalla circolare n. 23/E del 5 febbraio 1997), la norma in oggetto, come modificata dall’art. 3, comma 82, della legge n. 549 del 1995, stabilisce che gli emolumenti da lavoro dipendente (od assimilati) corrisposti in ritardo possono essere assoggettati a tassazione separata allorquando il ritardo non sia dipeso da accordi tra le parti, ma da circostanze oggettive di fatto o da impedimenti di carattere giuridico.
Di converso, conclude la suddetta circolare, non può farsi luogo a tale imposizione separata quando il pagamento in ritardo debba considerarsi una “conseguenza fisiologica” insita nelle modalità di erogazione degli emolumenti stessi, tali da richiedere pertanto determinati tempi tecnici per essere condotti a termine.
Proprio in questa ipotesi rientra l’erogazione dei compensi (variabili) attribuiti ai componenti delle commissioni tributarie, che richiedono un determinato periodo di tempo per essere liquidati rapportandosi al numero ed alla tipologia dei «provvedimenti emessi» (art. 13 del d.lgs n. 545 del 1992).
In questo contesto, comune a tutti gli emolumenti arretrati da lavoro dipendente od assimilato, si è inserita la norma impugnata, la quale – di fatto – ha allargato ad un anno, per la sola categoria dei giudici tributari, cui appartiene la ricorrente del giudizio a quo, l’intervallo temporale tra il titolo giuridico della competenza e la sua effettiva qualificazione ai fini fiscali, attraverso una fictio iuris (i compensi corrisposti ai membri delle commissioni tributarie entro il periodo d’imposta successivo a quello di riferimento «si intendono concorrere alla formazione del reddito imponibile ai sensi dell’articolo 11 del testo unico delle imposte sui redditi di cui al decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917»), della cui legittimità dubita il rimettente.
4.– Alla luce delle suesposte premesse, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 39, comma 5, del d.l. n. 98 del 2011 è fondata con riferimento sia all’art. 3 che all’art. 53 Cost. in ragione del diverso e più sfavorevole trattamento previsto per gli emolumenti spettanti ai membri delle commissioni tributarie.
Non ha pregio la difesa dell’Avvocatura dello Stato, secondo cui il giudice a quo non avrebbe tenuto conto del fatto che la tassazione separata rappresenta una deroga a quella ordinaria e, in quanto tale, non sarebbe suscettibile di utilizzazione come tertium comparationis nel giudizio di legittimità costituzionale per violazione del principio di uguaglianza.
Come correttamente osservato dal rimettente, la norma censurata non ha sottratto i compensi dei giudici tributari al regime della tassazione separata, cosicché essi restano pienamente compresi ed espressamente menzionati tra quelli che hanno diritto a beneficiarne, ma, a differenza di tutti gli altri percettori, il censurato art. 39, comma 5, ha provveduto a fissare un periodo di ritardo oltre il quale la tassazione separata continuerebbe a trovare comunque applicazione.
Pertanto, il profilo della differenziazione resta all’interno del regime della tassazione separata, creando, in assenza di un ragionevole motivo discriminante, una situazione di trattamento svantaggioso rispetto alle altre specie di redditi assimilati.
Questa Corte, proprio in materia tributaria, ha riconosciuto l’estensibilità di norme di favore laddove, in caso di piena omogeneità di situazioni poste a raffronto, lo esiga la ratio della disciplina invocata quale tertium comparationis (sentenza n. 431 del 1997).
Nel caso di specie precise esigenze, non solo di lettura conforme alla logica della tassazione separata, bensì anche di coerenza sistematica con la regolamentazione complessiva della materia, impongono di ritenere discriminatorio il fatto che, a fronte di un’omogenea situazione che accomuna tutti i percettori di competenze arretrate, solo per i giudici tributari – e senza che una giustificazione sia enunciata espressamente dalla legge o sia ricavabile in via interpretativa – sia stato normativamente ridotto il periodo di rilievo per l’applicazione del regime fiscale della categoria di riferimento, con conseguente aumento, per tale lasso temporale, dell’imposizione tributaria.
Inoltre, non possono essere condivisi gli argomenti del Presidente del Consiglio dei ministri sostanzialmente fondati sulle tre seguenti considerazioni: a) che la norma impugnata non sia ispirata al fine di garantire una maggiore imposizione, in quanto – essendosi limitata a «reintrodurre il normale regime di cassa» – agirebbe in modo neutro rispetto alle possibili ricadute della sua applicazione sui singoli casi concreti, in relazione ai quali potrebbe non solo avere effetti penalizzanti ma anche di favore; b) che la sua finalità sia essenzialmente quella di chiarire una fattispecie complessa, a confine tra il regime di tassazione separata e quello ordinario di cassa; c) che la fattispecie regolata sia assolutamente eterogenea rispetto alle altre inserite nel novero delle ipotesi di tassazione separata.
4.1.– Diversamente da quanto ritenuto dal Presidente del Consiglio dei ministri, la disposizione non assume carattere neutrale rispetto al meccanismo di progressività dell’IRPEF.
Infatti, nel sottrarre in misura così anomala al regime della tassazione separata il ritardo degli apparati dedicati alla quantificazione e alla liquidazione delle competenze dei giudici delle commissioni tributarie, di fatto la norma impugnata ha vanificato l’effetto mitigatore e correttivo del regime della tassazione per cassa in una fattispecie che il legislatore stesso, in diversa norma, aveva ritenuto meritevole di essere sottratta ad un’eccessiva imposizione tributaria su redditi che si sono formati – per cause non imputabili al contribuente – in anni diversi da quelli di effettiva percezione. La finalità di limitare in qualche modo gli effetti delle modalità temporali di liquidazione – tuttora formalmente operante per effetto del combinato disposto degli artt. 17 (già art. 16), comma 2, e 50 (già art. 47), comma 1, lettera f), del TUIR – viene nella sostanza neutralizzata dall’introduzione di una disposizione idonea a rendere ininfluenti, a danno del contribuente, anche tempi tecnici anomali come quelli che raggiungono la durata di un anno.
In proposito, questa Corte ha affermato che «le finalità sottese alla previsione dello speciale sistema della tassazione separata, vanno ricercate nella esigenza di attenuare gli effetti negativi derivanti dalla rigida applicazione del “principio di cassa” nei riguardi di redditi formatisi nel corso di periodi d’imposta precedenti quello di percezione delle somme […] dunque la ratio dell’istituto in esame è quella di evitare il determinarsi di una iniqua applicazione del meccanismo della progressività dell’IRPEF […]» (sentenza n. 287 del 1996).
L’istituto della tassazione separata, quindi, si giustifica proprio nella misura in cui costituisce per il contribuente un rimedio per evitare un’applicazione ingiustificatamente gravosa del principio di cassa.
Non è invece possibile che dalla stessa possano derivare anche effetti sfavorevoli, non solo perché la norma è strumento “mitigatore” della progressività dell’IRPEF, ma anche perché la sua applicazione è concepita come una facoltà del contribuente persona fisica esercente una impresa commerciale, che ben potrebbe rinunciarvi laddove, per particolari contingenze, la tassazione separata dovesse risultare svantaggiosa. Infatti, il comma 2 dell’art. 17 (già art. 16) del TUIR riconosce la facoltà del contribuente (che quindi non vi è vincolato, ma può comunque scegliere secondo criteri di personale convenienza) di farvi ricorso.
Lo stesso principio di favor per il contribuente è espresso, sotto altro profilo, dall’art. 17 (già art. 16), comma 3, del TUIR, il quale – in tema di iscrizione a ruolo delle maggiori imposte per emolumenti arretrati da lavoro dipendente o assimilato – dispone che «gli uffici provvedono [a detta iscrizione] con le modalità stabilite negli artt. 17 [ora art. 19] e 18 [ora art. 21] facendo concorrere i redditi stessi alla formazione del reddito complessivo dell’anno in cui sono percepiti, se ciò risulta più favorevole per il contribuente».
4.2.– Quanto alla pretesa funzione chiarificatrice della natura dei compensi dei giudici tributari, non ha pregio l’argomento, prospettato dall’avvocatura generale dello Stato, secondo cui la disciplina introdotta con il censurato art. 39, comma 5, sarebbe giustificata dall’assoluta peculiarità della fattispecie disciplinata. Il suo carattere distintivo, infatti, è già normativamente consolidato attraverso l’espressa previsione che ha assimilato i compensi dei giudici tributari ai redditi di lavoro dipendente, con incontroversa applicazione ai medesimi del regime tributario in questione.
4.3.– Per quanto concerne l’asserita eterogeneità della fattispecie in esame rispetto agli altri redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente ai sensi dell’art. 50 (già art. 47) del TUIR, è di tutta evidenza la controvertibilità di tale affermazione resa dalla difesa dello Stato: da un lato, emerge la chiara affinità dei compensi del giudice tributario a quelli del giudice di pace, inseriti nella stessa categoria; dall’altro, è di pari evidenza che il regime della tassazione separata non trova il suo comun denominatore nella natura omogenea dei redditi inseriti nel proprio ambito applicativo – che, al contrario, hanno caratteristiche e presupposti normativi tra i più disparati – ma piuttosto dal fatto che essi derivano da rapporti, prestazioni, titoli, caratterizzati dalla discrasia tra il momento della maturazione e quello della erogazione, comportante effetti irragionevolmente pregiudizievoli ai contribuenti che vi sono sottoposti.
Dunque, la particolarità della loro erogazione, concentrata in un unico (e successivo) periodo di imposta, a fronte di una maturazione derivante dalla sommatoria di un certo numero di periodi precedenti, esige l’applicazione del suddetto criterio, appunto al fine – come già evidenziato da questa Corte – di evitare gli eccessi distorti dell’applicazione del criterio della progressività dell’IRPEF.
4.4.– In realtà, il fine della disposizione censurata, come ricostruito attraverso l’analisi sistematica del quadro normativo di riferimento – la quale non consente di rintracciare diversi e più ragionevoli motivi della sua genesi – appare quello di incrementare il gettito dell’imposta.
Peraltro, ulteriore indiretta conferma di tale assunto si ricava dalla relazione predisposta dal servizio studi della Camera dei deputati, il quale, con riferimento alla presente disposizione, sottolinea significativamente che «la norma assoggetta al regime di tassazione ordinario anche i compensi corrisposti nel periodo di imposta successivo a quello di riferimento. Ciò sembrerebbe implicare un modesto incremento delle entrate, stante la non ampia platea dei membri delle Commissioni tributarie, ed un’anticipazione degli incassi, considerato che in assenza della disposizione in esame gli stessi importi sarebbero stati assoggettati a tassazione separata».
In definitiva, sono fondate le censure di irragionevolezza e contraddittorietà sollevate nei confronti dell’art. 39, comma 5, del d.l. n. 98 del 2011. Infatti, in tale sede il legislatore non ha espunto i compensi dei giudici tributari dal novero dei redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente, né tanto meno ha recato altre modifiche alla disciplina generale in materia di tassazione separata, implicitamente confermando la natura degli stessi ed il conseguente assoggettamento al regime di favore. Quest’ultimo, peraltro, è stato irragionevolmente vanificato dall’anomala prescrizione temporale che, di fatto, ha riprodotto, per la sola categoria dei giudici tributari, la regola del cumulo.
5.– Questa evidente disparità di trattamento finisce non solo per collidere con il principio di eguaglianza, ma anche con quello di capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost., atteso che l’effetto pregiudizievole della norma nei confronti di una sola categoria di redditi assimilati a quelli di lavoro dipendente non trova alcuna giustificazione obiettiva nella situazione dei loro percettori, in assenza di qualsiasi indice peculiare della fattispecie in termini di manifestazione di ricchezza. Il parametro della capacità contributiva espresso dall’art. 53, primo comma, Cost., pur non costituendo un vincolo rigido per il legislatore, non lo esime tuttavia dal rispetto dei limiti di razionalità e coerenza, che nella fattispecie in esame sono stati valicati.
Sul punto questa Corte ha affermato più volte che, in materia tributaria, l’art. 53 Cost. è espressione particolare del principio di uguaglianza e di ragionevolezza di cui all’art. 3 Cost. Se «la Costituzione non impone affatto una tassazione fiscale uniforme, con criteri assolutamente identici e proporzionali per tutte le tipologie di imposizione tributaria, [essa esige comunque] un indefettibile raccordo con la capacità contributiva […]. Il controllo della Corte in ordine alla lesione dei principi di cui all’art. 53 Cost., come specificazione del fondamentale principio di uguaglianza di cui all’art. 3 Cost., non può, quindi, che essere ricondotto ad un “giudizio sull’uso ragionevole, o meno, che il legislatore stesso abbia fatto dei suoi poteri discrezionali in materia tributaria”» (sentenza 111 del 1997; in senso conforme, sentenza n. 116 del 2013 e n. 341 del 2000).
6.– Va, quindi, dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 39, comma 5, del d.l. n. 98 del 2011 per contrasto con gli artt. 3 e 53 Cost., mentre rimangono assorbite le censure sollevate in riferimento all’art. 104 Cost.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 39, comma 5, del decreto-legge 6 luglio 2011, n. 98 (Disposizioni urgenti per la stabilizzazione finanziaria), convertito, con modificazioni, dall’art. 1, comma 1, della legge 15 luglio 2011, n. 111.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 19 maggio 2014.
F.to:
Gaetano SILVESTRI, Presidente
Aldo CAROSI, Redattore
Gabriella MELATTI, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 28 maggio 2014.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Gabriella MELATTI
(fonte www.cortecostituzionale.it)