Commistione pericolosa tra studi di settore e preclusioni probatorie
Nel nostro sistema tributario sono previste alcune preclusioni probatorie a scapito del contribuente che abbia attuato manovre ostruzionistiche durante l’istruttoria procedimentale.
Molto spesso queste limitazioni sono invocate in giudizio dall’Amministrazione finanziaria in maniera del tutto impropria, sostenendo che il contribuente, nelle varie ipotesi di contraddittorio endoprocedimentale contemplate nel nostro ordinamento, dovrebbe introdurre argomenti difensivi atti a modificare le determinazioni dell’ufficio, pena l’operatività di dette preclusioni probatorie e fatti salvi i soli casi di impossibilità per causa non imputabile.
Questa strategia processuale è sempre più frequentemente utilizzata nelle controversie in materia di accertamenti standardizzati, come confermano alcune recenti prese di posizione della Corte di Cassazione in tema di studi di settore (cfr. sentenza n. 14027 del 2011) e accertamento sintetico (cfr. sentenza n. 453 del 2013). Talora gli uffici si spingono a invocare le preclusioni probatorie persino nei casi di mancata partecipazione del contribuente al contraddittorio endoprocedimentale, totalmente obliterando quanto autorevolmente affermato dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione (sentenza nn. 26635, 26636, 26637 e 26638 del 2009): il Giudice di legittimità si è infatti ben guardato dal comminare preclusioni a danno del contribuente rimasto inerte nella fase procedimentale, al contrario ribadendo a suo favore, nel corso del giudizio, “la più ampia facoltà di prova, anche a mezzo di presunzioni semplici” e considerando la mancata cooperazione soltanto come legittimazione per l’ufficio procedente a emettere un avviso di accertamento fondato esclusivamente sugli studi di settore, senza nessuna ulteriore argomentazione personalizzata né indagine specifica.
Bisogna ammettere che il dato normativo si presta a interpretazioni quantomeno tendenziose: l’art. 32, comma 4, d.p.r. 29 settembre 1973, n. 600, infatti, estende le preclusioni probatorie anche a “notizie e dati non addotti”, vale a dire a informazioni fornite verbalmente.
La tattica seguita dagli uffici è palesemente fallace, perché poggia sulla marchiana confusione tra la richiesta di notizie e dati e l’invito a formulare le proprie difese.
Mediante la richiesta di notizie il contribuente è chiamato a fornire verbalmente informazioni che l’ufficio procedente può utilizzare per sviscerare una certa ipotesi investigativa: ad esempio, la richiesta di notizie può concernere i prezzi applicati o i quantitativi di materie prime impiegate per la produzione di un certo bene. La richiesta di notizie si colloca quindi all’interno dell’istruttoria. Solo in relazione a questa categoria di informazioni possono dirsi operanti le preclusioni probatorie: se il contribuente non gioca a carte scoperte, se è reticente, scatta la limitazione all’esercizio del diritto di difesa.
L’invito a formulare le proprie difese è invece finalizzato a verificare se il contribuente possa far valere le proprie ragioni contro contestazioni che hanno già raggiunto un determinato livello di compiutezza: esso può quindi essere legittimamente rivolto al contribuente soltanto una volta che l’istruttoria sia conclusa e che siano stati circoscritti i rilievi a suo carico. Diversamente opinando, si porrebbe sul contribuente l’onere di anticipare le argomentazioni difensive che egli potrebbe compiutamente sviluppare solo a seguito di una precisa contestazione dell’ufficio procedente: in buona sostanza, se l’interpretazione dell’Amministrazione finanziaria fosse accettata, il contribuente dovrebbe costruire la propria strategia difensiva prima ancora di conoscere gli addebiti posti a suo carico, quasi come se fosse un indovino. L’accoglimento di questo orientamento determinerebbe una lampante lesione del diritto di difesa del contribuente, perché, se fosse accolto, sarebbero azzerati i tempi che gli sono accordati per apprestare la propria strategia difensiva.
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