Cass., sez. unite civ., 25 marzo 2021, n. 8500 (testo)
Corte di Cassazione, sez. Unite Civili, sentenza 26 gennaio – 25 marzo 2021, n. 8500
Presidente Spirito – Relatore Stalla
Fatti rilevanti e ragioni della decisione
p. 1.1 L’agenzia delle entrate ha proposto due motivi di ricorso per la cassazione della sentenza n. 74/5 del 16 maggio 2013, notificata il 12 giugno 2013, con la quale la commissione tributaria regionale della Lombardia, a conferma della prima decisione, ha ritenuto illegittimo l’avviso di accertamento notificato nel novembre 2009 – per Ires ed Irap 2004 – alla Rabobank Nederland Cooperatieve Centrale Raiffeisen-Boerenleenbank B.A., Milan Branch, in qualità di stabile organizzazione in Italia della società – madre Nederland Cooperatieve Centrale Raiffeisen-Boerenleenbank B.A. con sede in (omissis).
Sul presupposto della riconoscibilità alla stabile organizzazione in Italia di una soggettività tributaria a se stante rispetto alla società-madre olandese (ex art. 7 Convenzione tra la Repubblica Italiana ed i Paesi Bassi contro le doppie imposizioni in materia di imposte sul reddito e patrimoniali, firmata a l’Aja l’8 maggio 1990 e ratificata con L. n. 305 del 1993), con l’avviso di accertamento in questione l’amministrazione finanziaria ha inteso disconoscere (per quanto qui ancora interessa) la componente negativa di reddito data dalla svalutazione in bilancio del credito maturato dalla branch per finanziamenti erogati a Parmalat spa (posta in amministrazione straordinaria nel 2003) e ad altra società da quest’ultima controllata.
Il disconoscimento ha avuto ad oggetto, segnatamente, la quota di un nono dell’eccedenza rispetto al limite dello 0,60% del valore dei crediti risultanti in bilancio, secondo quanto previsto dall’art. 106, comma 3, TUIR nella formulazione all’epoca vigente: “3. Per gli enti creditizi e finanziari di cui al D.Lgs. 27 gennaio 1992, n. 87, le svalutazioni dei crediti risultanti in bilancio, per l’importo non coperto da garanzia assicurativa, che derivano dalle operazioni di erogazione del credito alla clientela, compresi i crediti finanziari concessi a Stati, banche centrali o enti di Stato esteri destinati al finanziamento delle esportazioni italiane o delle attività ad esse collegate, sono deducibili in ciascun esercizio nel limite dello 0,60 per cento del valore dei crediti risultanti in bilancio, aumentato dell’ammontare delle svalutazioni dell’esercizio. L’ammontare complessivo delle svalutazioni che supera lo 0,60 per cento è deducibile in quote costanti nei nove esercizi successivi (…)”.
Si affermava nell’avviso di accertamento opposto, conseguente a verifica fiscale, che: “per determinare la quota deducibile in capo alla società è stata (…) calcolata la percentuale del finanziamento ad essa attribuibile rispetto al totale finanziato (dettaglio alla pagina n. 7 del PVC). Operata la svalutazione, i verificatori hanno constatato che la società ha superato il limite massimo sancito dal TUIRn. 917 del 1986, art. 106 e pertanto hanno quantificato in Euro 2.831.723,00 pari alla maggiore svalutazione operata nell’esercizio precedente, l’importo da riprendere a tassazione, relativamente all’anno d’imposta 2004, per violazione del combinato disposto di cui all’art. 7 Convenzione contro le doppie imposizioni Italia-Paesi Bassi e Tuirn. 917 del 1986, art. 23, comma 1, lett. e). Detto importo di Euro 2.831.723,00 viene dunque ripreso a tassazione dall’Ufficio, trattandosi di una indebita deduzione di componenti negativi, operando una rettifica di pari importo nelle variazioni in diminuzione accertate”.
Secondo l’impostazione dell’Ufficio, la quota di svalutazione in oggetto non poteva trovare riconoscimento perchè il finanziamento erogato al gruppo Parmalat non derivava da risorse proprie della stabile organizzazione – priva di idonea patrimonializzazione e di adeguato fondo di dotazione secondo quanto prescritto sia dalla Circ. Banca d’Italia n. 229/09, sia dal Commentario Ocse all’art. 7 Mod. Convenzione, p. 18.3 – bensì da finanziamenti ad essa procurati dalla società-madre olandese.
Il che comportava sia la sottrazione di utili della stabile organizzazione alla tassazione in Italia, in quanto girati alla società-madre sotto forma di interessi passivi a questa dovuti sui finanziamenti in questione; sia l’imputazione alla stabile organizzazione di poste passive (svalutazione) afferenti a crediti di finanziamento a questa ascrivibili solo nei limiti della quota (figurativa) del patrimonio di vigilanza.
Nella sentenza impugnata la commissione tributaria regionale ha, sul punto, rilevato che:
- l’agenzia delle entrate era decaduta dalla potestà di ripresa fiscale perchè non aveva rettificato, nei termini di legge, i redditi della stabile organizzazione per il periodo d’imposta 2003 (nel quale era stata per la prima volta effettuata la svalutazione del credito nei confronti del gruppo Parmalat), con la conseguenza che i presupposti di tale svalutazione non potevano da essa più venire rimessi in discussione e disconosciuti nel merito per il periodo d’imposta 2004; annualità, quest’ultima, con riguardo alla quale l’amministrazione finanziaria era ammessa unicamente a verificare che la quota di svalutazione dedotta non eccedesse il rateo costante consentito (un nono);
infondata era comunque la tesi della non imputabilità alla stabile organizzazione delle perdite su crediti, in quanto non legittimata nè dalla Convenzione bilaterale conclusa su conforme modello OCSE, nè dalla disciplina della concentrazione dei rischi e del fondo di dotazione delle banche (c.d. “(omissis)”), dalla quale le stabili organizzazioni bancarie erano specificamente esonerate.
p. 1.2 Con il primo motivo di ricorso l’agenzia delle entrate lamenta – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43 e D.P.R. n. 917 del 1986, art. 7.
Per avere la commissione tributaria regionale (con la prima ratio decidendi su riportata) erroneamente ritenuto decaduta l’amministrazione finanziaria per effetto della mancata rettifica, nei termini, della iniziale appostazione della svalutazione pluriennale nel bilancio 2003 della stabile organizzazione, nonostante che:
questa rettifica (come già affermato da Cass. n. 15178/10) costituisse una mera “facoltà” dell’ufficio e non un “onere” la cui mancata osservanza precludesse al Fisco il recupero d’imposta per le annualità successive, ciascuna connotata, ex art. 7 cit., da autonoma rilevanza;
l’asserita intangibilità della svalutazione operata nel 2003 dipendesse appunto dalla mancata rettifica, da parte dell’ufficio, della dichiarazione dei redditi relativa a quell’annualità e non da un giudicato attestante la legittimità nel merito di tale svalutazione.
Con il secondo motivo di ricorso l’agenzia delle entrate deduce – ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 – violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 106 e art. 7, comma 2, della citata Convenzione Italia-Paesi Bassi contro le doppie imposizioni.
Per avere la Commissione Tributaria Regionale (con la seconda ratio decidendi su riportata) erroneamente ritenuto illegittimo il disconoscimento della svalutazione dei crediti verso Parmalat, nonostante che:
in base all’art. 7 della menzionata Convenzione, la stabile organizzazione domestica avesse l’obbligo, sul piano fiscale, di comportarsi come soggetto economico indipendente, così da risultare adeguatamente patrimonializzata mediante costituzione di un fondo di dotazione tale da permetterle di erogare credito, al pari di ogni altro operatore bancario, con le proprie risorse e non con provvista proveniente dalla società-madre; - l’erogazione della provvista da parte della società-madre in contesto di sottocapitalizzazione della branch comportasse un effetto distorsivo sia della autonoma soggettività tributaria di quest’ultima, sia della necessaria correlazione costi-ricavi sia, ancora, dei principi di libera concorrenza, in quanto ingenerante, nei confronti della casa-madre, componenti negative deducibili (interessi passivi) in grado di ridurre il reddito tassabile in Italia (in tal senso l’amministrazione finanziaria si era già pronunciata, su interpello, con la Risoluzione n. 44/06);
- l’esonero della stabile organizzazione dalla costituzione di un adeguato fondo di dotazione e dall’osservanza delle prescrizioni sulla “concentrazione dei rischi” di cui alla Circolare della Banca d’Italia n. 299/99 non rilevasse sul piano tributario, riguardo al quale la costituzione di tale fondo (anche solo figurativo) in capo alla branch costituiva il presupposto per attuare in concreto il principio della autonoma soggettività tributaria di quest’ultima rispetto alla società-madre, così come anche raccomandato nel Commentario all’art. 7 del Modello OCSE di convenzioni contro le doppie imposizioni.
p. 1.3 Resiste con controricorso e memoria la Rabobank Milan Branch, la quale – premessa l’autonomia delle due ragioni decisorie poste dalla CTR a fondamento della sentenza impugnata – eccepisce preliminarmente l’inammissibilità del secondo motivo di ricorso per cassazione, con conseguente carenza di interesse dell’amministrazione finanziaria all’accoglimento del primo.
Eccepisce a tal fine la genericità ed incompletezza della doglianza perchè priva dell’indicazione dei passaggi logici e giuridici della sentenza impugnata che si presterebbero a censura, nonchè la non attinenza del motivo alla ratio decidendi, come resa palese dalla indebita sovrapposizione, nel motivo in esame, dei tutt’affatto diversi piani della disconoscibilità della “svalutazione” (unico profilo posto a base dell’avviso di accertamento) e della disconoscibilità degli “interessi passivi” dovuti alla società-madre.
Rileva in ogni caso l’infondatezza di questo motivo proprio perchè basato sulla sovrapposizione dei suddetti diversi profili, nonchè sul fatto che il presupposto oggettivo della svalutazione dei crediti per l’insolvenza dei debitori sussisteva indipendentemente dalla provenienza (dalla società-madre, piuttosto che dal fondo di dotazione proprio della stabile organizzazione) della provvista; fatta salva l’eventualità che l’erogazione delle risorse finanziarie dalla società-madre alla stabile organizzazione potesse qualificarsi non già come finanziamento fruttifero bensì come conferimento in capitale di rischio (non produttivo di interessi), eventualità che tuttavia non era qui stata dedotta dall’amministrazione finanziaria. Come osservato dalla commissione tributaria regionale, inoltre, nessuna disposizione nazionale o convenzionale imponeva alla stabile organizzazione bancaria la costituzione di un fondo di dotazione o di un patrimonio di vigilanza da porsi in rapporto con i finanziamenti erogati.
Quanto al primo motivo di ricorso, se ne evidenzia a sua volta l’infondatezza, dal momento che il mancato disconoscimento della svalutazione, siccome operata per la prima volta con l’iscrizione in conto economico nel 2003, precludeva la rettifica sulle rate delle annualità successive basate sul medesimo presupposto costitutivo, di per sè suscettibile di immediata ed integrale operatività con l’iscrizione in bilancio. Diversamente da quanto stabilito da Cass. n. 15178/10, richiamata dall’Agenzia delle Entrate, nella specie non si verteva di quote di ammortamento di immobilizzazione materiale di importo negli anni decrescente in relazione alla residua utilizzabilità del cespite, bensì di svalutazione di crediti attraverso rate costanti. In maniera tale che “l’ufficio avrebbe dovuto, dapprima accertare il periodo di imposta 2003, rettificando l’ammontare della svalutazione dichiarata, e poi recuperare a tassazione la quota dedotta nel 2004 per effetto del rinvio disposto dall’art. 106, comma 3 Tuir”.
In fatto, la decadenza dell’amministrazione finanziaria era pacifica, perchè l’avviso di accertamento in questione era stato notificato (23 novembre 2009) oltre il termine del 31 dicembre del quarto anno successivo a quello di presentazione della dichiarazione dei redditi per l’anno (2003) nel quale la svalutazione era stata per la prima volta contabilizzata (D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, nella formulazione vigente ratione temporis).
p. 2. Assegnata la causa a decisione, interveniva l’ordinanza interlocutoria n. 10701/20 con la quale la Sezione Tributaria di questa Corte rimetteva gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione alle Sezioni Unite, ex art. 374 c.p.c., comma 2, della seguente questione di massima di particolare importanza: “se la decadenza dalla potestà impositiva dell’amministrazione finanziaria, che intenda contestare una svalutazione dei crediti risultanti in bilancio e, più in generale, un componente di reddito ad efficacia pluriennale per ragioni che non dipendono dal mero errato computo del singolo rateo di esso, si determini con il decorso del termine per la rettifica della dichiarazione dove è indicato il singolo rateo in cui il componente reddituale pluriennale è suddiviso, ovvero con il decorso del termine per la rettifica della dichiarazione relativa al periodo d’imposta in cui il componente reddituale pluriennale è maturato ed è stato iscritto per la prima volta in bilancio”.
Dopo aver evidenziato la rilevanza pratica del problema, in quanto concernente non la sola svalutazione di crediti ma ogni fattispecie reddituale ad efficacia pluriennale, l’ordinanza di rimessione muove da due decisioni di legittimità (nn. 9993/18 e 2899/19, quest’ultima non massimata e richiamante la prima) che hanno concluso nel senso della effettiva decadenza dell’amministrazione finanziaria in ipotesi di mancata tempestiva rettifica della dichiarazione di prima emersione del componente pluriennale (in fattispecie di quote di ammortamento del costo di beni o del valore di avviamento): “in tema di accertamento, nell’ipotesi di beni ammortizzabili, il termine di decadenza per l’esercizio del potere impositivo decorre dall’annualità nella quale è stata presentata la dichiarazione in cui i costi sono stati concretamente sostenuti e la quota di ammortamento è stata iscritta in bilancio, rispetto alla quale sorgono i presupposti del diritto alla deduzione, a ciò non ostando il principio di autonomia dei periodi di imposta, che non opera in relazione a situazioni geneticamente unitarie ma destinate a ripercuotersi su annualità successive, e non potendo il contribuente, come peraltro affermato dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 280 del 2005, essere esposto all’azione del Fisco per un periodo eccessivamente dilatato” (Cass. n. 9993/18 cit.).
E però i giudici remittenti, dopo aver segnalato la presenza di altre decisioni rilevanti sebbene non perfettamente aderenti al problema (Cass. nn. 9834/16 15178/10 cit., 3304/09, 12880/08), mostrano di dubitare della bontà di questa conclusione, i cui argomenti fondanti vengono punto per punto sottoposti a critica, in termini che possono così riassumersi:
il principio dell’autonomia di ciascuna annualità solare di imposta (art. 7, comma 1, Tuir) opera sul piano sostanziale, così da non risultare dirimente al fine di risolvere la diversa questione, di natura procedurale, della decadenza sulla contestazione di un componente reddituale pluriennale;
la regola processuale dell’efficacia espansiva del giudicato esterno su fatti aventi “efficacia permanente o pluriennale” (Cass. n. 4832/15, 21395/17 ed altre) mira ad evitare divergenti accertamenti di tali fatti nei diversi periodi d’imposta, obiettivo pratico di per sè non garantito neppure dalla disciplina di decadenza così come stabilita da Cass. n. 9993/18 in esame; inoltre, una cosa è la inoppugnabilità di un componente reddituale pluriennale conseguente a vaglio giudiziale consolidatosi nel giudicato, e tutt’altra è l’inoppugnabilità della dichiarazione per effetto di mancato accertamento; - la citata sentenza della Corte Costituzionale n. 280 del 2005 sul D.P.R. n. 602 del 1973, art. 25, non pare riferibile all’istituto della decadenza in generale, ma solo a quella per la notificazione della cartella di pagamento (all’epoca non assistita da alcun termine legale), fermo restando che la fase dell’accertamento è invece presidiata dai termini decadenziali di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, il cui eventuale superamento (quand’anche ravvisabile in ipotesi di contestazione di un componente pluriennale) non potrebbe di per sè ritenersi irragionevole e quindi incostituzionale, in quanto giustificato dalla complessità dell’attività di verifica;
- il far decorrere il termine di decadenza per la contestazione dell’elemento pluriennale dalla prima annualità non potrebbe neppure fondarsi sull’assunto che in tale annualità si ingenera il diritto del contribuente a far valere questo elemento, dal momento che ai fini della decadenza dal potere impositivo rileva il momento di esercizio, anno per anno, di quel diritto.
Ad ulteriore riscontro sistematico della opinabilità della soluzione offerta da Cass. n. 9993/18, l’ordinanza di rimessione osserva poi che: - per i soggetti Ires vale il principio di derivazione della base imponibile dal risultato di conto economico ma, in forza dei generali principi civilistici di veritiera e corretta rappresentazione della situazione patrimoniale ed economica della società (art. 2423 c.c.), gli amministratori hanno il dovere di correggere l’errore di redazione del bilancio nel bilancio immediatamente successivo a quello di individuazione (principio contabile nazionale OIC 29), sicchè “a tale dovere sembra dover logicamente corrispondere il potere dell’amministrazione finanziaria di contestare i bilanci successivi nei quali la correzione non sia stata rilevata, senza che a ciò possa opporsi un ipotizzato “consolidamento” del bilancio in cui il dato contabile è stato per la prima volta erroneamente iscritto”;
la tesi della decorrenza del termine di decadenza non dalla prima dichiarazione ma dalle singole successive annualità di contestazione non confligge necessariamente con la tutela del contribuente, al quale la legge consente di disfarsi della documentazione contabile relativa alla dichiarazione una volta decorsi i termini di accertamento (D.P.R. n. 600 del 1973, art. 22, comma 2, primo periodo), e comunque una volta decorsi 10 anni dalla formazione della stessa L. n. 212 del 2000, (art. 8, comma 5); ciò perchè, con riguardo alla documentazione di componenti reddituali pluriennali, il regime dell’art. 22 citato andrebbe appunto ricollegato a ciascuno dei successivi periodi d’imposta nei quali il componente reddituale assuma rilievo, sicchè per ognuno di tali periodi dovrebbe decorrere un nuovo termine dell’obbligo di conservazione documentale (fino allo spirare del termine di decadenza di accertamento dell’ultima dichiarazione rilevante).
Il ricorso è stato quindi assegnato dal Primo Presidente a queste Sezioni Unite.
p. 3. Il Procuratore Generale ha depositato requisitoria scritta chiedendo l’accoglimento del ricorso e la cassazione con rinvio della sentenza: - quanto al primo motivo, il Procuratore Generale ha evidenziato che la soluzione adottata dalla commissione tributaria regionale, nel senso dell’intervenuta decadenza dell’amministrazione finanziaria dalla potestà di accertamento, risulta priva di base legale e non coerente con fondamentali elementi di ordine sistematico concernenti, tra l’altro, la natura della dichiarazione fiscale e l’autonomia delle singole annualità d’imposta;
quanto al secondo motivo di ricorso, ha osservato come la commissione tributaria regionale non abbia esaminato gli aspetti dedotti in giudizio dall’amministrazione finanziaria circa la imputabilità, quantomeno parziale, dei finanziamenti Parmalat (e della relativa svalutazione) non alla stabile organizzazione italiana, ma alla casa-madre olandese, con conseguente violazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 106, comma 3.
Fissato all’udienza pubblica del 26 gennaio 2021 con avviso notificato il 28 ottobre 2020, il ricorso è stato trattato in Camera di consiglio, in base alla disciplina dettata dal sopravvenuto del D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8-bis, inserito dalla legge di conversione n. 176 del 2020, senza l’intervento del Procuratore Generale e dei difensori delle parti, non avendo nessuno degli interessati fatto richiesta di discussione orale.
p. 4.1 Al di là dell’ipotesi qui dedotta della svalutazione su crediti degli intermediari finanziari (art. 106, comma 3 Tuir, modificato dopo i fatti di causa), la questione devoluta investe una casistica ampia e di notevole riscontro pratico, caratterizzata dalla rilevanza pluriennale di determinati componenti reddituali; cioè di elementi economici e patrimoniali che, per quanto emersi e consolidatisi nella loro genesi causale sostanziale in una determinata annualità d’imposta, sono tuttavia dalla legge fiscale ammessi a produrre effetti sulla formazione della base imponibile di annualità successive, eventualmente anche molto lontane da quella di origine.
Importanti applicazioni si hanno – ad esempio – nel riporto in avanti delle perdite di esercizi pregressi (art. 84 Tuir), nelle quote di ammortamento di beni materiali ed immateriali (artt. 102 e segg. Tuir), nelle sopravvenienze attive rateizzabili (art. 88 Tuir).
All’attribuzione di rilevanza reddituale pluriennale il legislatore fa inoltre sempre più frequente e sistematico ricorso nell’utilizzo della leva fiscale in funzione non propriamente tributaria, ma di politica di modernizzazione e rilancio, perchè agevolativa del perseguimento di obiettivi virtuosi di tutela del territorio e dell’ambiente, o in campo edilizio (cc.dd. “bonus”), come – tra gli altri – nell’art. 16 bis Tuir sulla detrazione decennale per rate costanti di quota delle spese per interventi di recupero del patrimonio edilizio e di riqualificazione energetica degli edifici; nella L. n. 160 del 2019, art. 1, commi 219-224 (legge previsionale 2020) sulla detrazione decennale per rate costanti del 90% delle spese documentate per la pulitura o tinteggiatura delle facciate esterne degli edifici o, ancora, del D.L. n. 34 del 2020, artt. 119 e segg., conv.c.m. in L. n. 77 del 2020, quanto a detrazione quinquennale in rate costanti delle spese affrontate per l’efficientamento energetico degli edifici, la prevenzione sismica, l’installazione di impianti fotovoltaici e di colonnine di ricarica di veicoli elettrici (c.d. “superbonus” 110%).
Può rientrare nella fattispecie anche il riconoscimento pluriennale di crediti d’imposta, come quelli (introdotti dal D.L. n. 145 del 2013, art. 3 conv.c.m. in L. n. 9 del 2014, come successivamente riformato) per attività di ricerca, sviluppo ed innovazione tecnologica e digitale, suscettibili di essere fatti valere in compensazione, entro un tetto predeterminato, in quote annuali di pari importo a decorrere dal periodo di imposta successivo a quello di maturazione (nel qual caso, il termine per la contestazione di inesistenza e per il recupero del credito decorre per legge, non dalla dichiarazione iniziale, ma dal suo successivo utilizzo in compensazione: D.L. n. 185 del 2008, art. 27, comma 16, conv.c.m. in L. n. 2 del 2009).
Scopo pratico del differimento pluriennale è quello di tutelare il gettito erariale evitandone la verticale riduzione altrimenti conseguente alla piena sottrazione dell’onere in un medesimo esercizio; nelle ipotesi incentivanti è proprio la diluizione nel tempo a rendere sostenibili per l’erario le misure di favore per il contribuente.
Si tratta, come ben si vede, di ipotesi tra loro assai eterogenee: sia per soggetti interessati alla dilazione (soggetti Ires, Irap, persone fisiche), sia per natura del componente reddituale pluriennale (che può essere tanto negativo quanto positivo) sia, ancora, per maggiore o minore durata del differimento (che, nel caso delle perdite pregresse, può oggi addirittura essere indeterminato, fermo il limite di capienza del reddito imponibile in ciascuno degli anni di utilizzo).
Non è poi detto (anche se questa è l’ipotesi più frequente) che l’elemento reddituale pluriennale sia sempre suscettibile di essere speso, nelle annualità successive, attraverso rate costanti derivanti dalla semplice suddivisione del suo ammontare iniziale per il numero delle annualità di fruibilità, ben potendo darsi anche il caso di rate variabili, perchè invece derivanti dall’aggiornamento, anno per anno, degli importi fiscalmente rilevanti (come per le quote di ammortamento via via riconducibili alla minore utilità residua attribuibile al bene nell’ambito del suo ordinario ciclo di vita).
Mentre nella prima ipotesi la diluizione negli anni del componente reddituale risponde ad un’operazione di pura ripartizione matematico-finanziaria dell’onere, nella seconda viene richiesta per ogni singolo anno una nuova valutazione che adegui la rata di competenza all’evolversi di una determinata situazione fattuale considerata dalla legge fiscalmente rilevante.
Ciò detto, non sembra che la complessità ed eterogeneità della fattispecie siano tali da impedire o sconsigliare una soluzione unitaria al problema giuridico posto dall’ordinanza di rimessione, così come del resto si addice ad una materia, qual è quella dell’accertamento e dei termini del suo esercizio da parte dell’amministrazione finanziaria, che più di ogni altra richiede regole operative il più possibile stabili ed uniformi.
p. 4.2 Tralasciando per il momento le decisioni (Cass. n. 9993/18 e 2899/19) dalle quali l’ordinanza di rimessione vorrebbe discostarsi, non può dirsi che in tema di accertamento degli elementi reddituali pluriennali vi sia uno specifico e consolidato indirizzo di legittimità.
In un ormai lontano precedente (sent.n. 1583 del 1989) la Corte di Cassazione, pronunciandosi in una fattispecie di riporto in avanti delle perdite secondo il previgente regime di cui al D.P.R. n. 645 del 1958, ebbe ad affermare che qualora l’amministrazione “non si sia avvalsa, nei prescritti termini, del potere di accertamento in rettifica, avverso la dichiarazione del contribuente relativa all’anno in cui si è verificata la perdita, non può metterne in discussione l’esistenza, con l’accertamento in rettifica della dichiarazione successiva, salva restando la contestabilità, in tale sede, della deducibilità della perdita medesima”.
A diversa conclusione pervenne, in fattispecie di ammortamento, Cass. 1347/1995, la quale stabilì che “ogni periodo di imposta ha una propria autonomia sì che le determinazioni dell’amministrazione tributaria con riferimento ad uno specifico periodo di imposta non possono avere alcun riflesso sulle sue determinazioni rispetto ad altri periodi o, comunque, sugli accertamenti relativi a questi distinti periodi. Ne consegue che la circostanza che l’ufficio non abbia rettificato la denuncia relativa ad un determinato esercizio non preclude l’autonoma valutazione della denuncia relativa all’esercizio successivo e la richiesta di documentazione delle spese e della effettività degli ammortamenti in essa dichiarati”.
In quest’ultima direzione si orienta più recentemente anche Cass. 14999/20 la quale, pronunciandosi in fattispecie di disconoscimento di una posta passiva costituita da un finanziamento-soci riportata nelle dichiarazioni di più esercizi, ha osservato che in presenza di contestazione dell’Amministrazione finanziaria relativa all’insussistenza della posta passiva iscritta a bilancio, è onere del contribuente dimostrare l’esistenza e l’ammontare della stessa, oltre che l’inerenza all’attività di impresa esercitata ai fini della deduzione, “senza che rilevi l’eventuale inerzia dell’Ufficio relativamente alla dichiarazione resa per i periodi di imposta precedenti, contenente la medesima posta, stante l’autonomia di ciascun periodo ai fini dell’esercizio del potere impositivo, tale per cui il termine decadenziale va valutato con riferimento al periodo di imposta cui si riferisce la dichiarazione rettificata”.
Cass. n. 5403/12, da ultimo ripresa da Cass. n. 5833/20, ebbe modo di pronunciarsi su materia analoga a quella qui dedotta (ripartizione annuale per noni delle rettifiche di valore sui crediti alla clientela da parte delle imprese bancarie e finanziarie), affrontando lo specifico profilo della retroattività, sulle annualità d’imposta anteriori al 2005, della regola di indeducibilità, da parte delle banche, di tali svalutazioni ai fini della base imponibile Irap (regola introdotta dal D.L. n. 168 del 2004, art. 2 conv. in L. n. 191 del 2004). La soluzione è stata nel senso di escludere tale retroattività, posto che la indeducibilità ai fini Irap “non attinge le quote (cd. noni pregressi) di competenza degli esercizi anteriori, in quanto relative a svalutazioni di crediti operate nei corrispondenti bilanci, ed oggetto, quindi, di una situazione giuridica sostanziale già consolidata”.
Questo indirizzo non sembra tuttavia del tutto pertinente al problema di causa, dal momento che con esso si è affermata l’indifferenza del presupposto della svalutazione dei crediti bancari agli eventi normativi sopravvenuti, senza tuttavia affrontare il diverso e più ampio problema della decadenza del Fisco dalla potestà di accertamento. In altri termini, l’intangibilità della svalutazione pregressa ai fini Irap è stata in quell’occasione affermata sul piano della disciplina sostanziale ritenuta applicabile (efficacia della riforma solo per le svalutazioni non ancora iscritte in bilancio alla data della sua entrata in vigore), non anche su quello – qui di interesse – in generale riferibile alla preclusione dell’azione accertativa dell’amministrazione con riguardo a ragioni di contestazione non sopravvenute al formarsi del presupposto svalutativo, ma originarie ed incidenti sulle annualità successive.
Cass. n. 15178/10 (non massimata) ha fatto applicazione (richiamando Cass. n. 12880/08) della “giurisprudenza di questa Corte (…) secondo cui in tema di accertamento delle imposte sui redditi è facoltà dell’Ufficio contestare anche soltanto i criteri utilizzati dal contribuente nella redazione del bilancio, per i loro riflessi fiscali negli esercizi futuri, senza necessariamente procedere, per il periodo considerato, alla determinazione di una maggiore pretesa impositiva, e senza che ciò comporti una preclusione al recupero d’imposta per gli anni successivi; ne consegue la legittimità dell’avviso di accertamento limitato, alla censura contro il metodo di contabilizzazione e il sistema di deduzione di una spesa o di una quota di spesa sostenuta, assolvendo il predetto atto ad una funzione di regolarizzazione di altri aspetti del comportamento tributario della parte nel periodo, e ad assicurare il corretto svolgimento del rapporto tributario nel futuro (…). Dunque, pur sussistendo l’asserita decadenza dell’Ufficio dalla possibilità di rideterminare valori riferiti a spese per immobili in anni precedenti il quinquennio, è possibile la regolarizzazione dei calcoli delle quote di ammortamento per gli anni successivamente accertati”.
Anche in tal caso l’incidenza del principio sul problema qui in esame è soltanto mediata, nel senso che l’orientamento riportato stabilisce la possibilità, per l’amministrazione finanziaria, di effettuare un accertamento senza una diretta pretesa di prelievo ed al solo fine di contestare i criteri di contabilizzazione adottati dal contribuente in una determinata annualità, così da suscitarne la regolarizzazione per le annualità successive.
Sennonchè, quella di effettuare accertamenti senza imposta – come ad esempio può accadere (a parte i casi di accertamento di redditi imputabili per trasparenza a soggetti diversi da quello sottoposto a verifica) nella contestazione, nell’annualità di prima iscrizione, delle perdite destinate al riporto in avanti – costituisce appunto, secondo questo indirizzo, una facoltà dell’amministrazione finanziaria, il cui mancato esercizio nella annualità di prima emersione del componente pluriennale non determina, di per sè, la preclusione alla sua contestazione nelle annualità successive.
Dalla giurisprudenza da ultimo riportata, pertanto, si evince unicamente che: - il fisco non ha l'”obbligo”, sancito da decadenza o preclusione, di contestare il componente pluriennale fin dalla sua prima dichiarazione, quanto soltanto la “facoltà” di farlo per rettificare comportamenti e scelte ritenute non corrette;
- questa possibilità gli va riconosciuta (ciò rispondendo, del resto, anche all’interesse del contribuente) pure nelle ipotesi in cui da questa contestazione d’origine non possa comunque scaturire alcuna immediata imposizione.
Sebbene al diverso fine di individuare il termine di prescrizione in ragione della natura, periodica o no, dell’obbligo tributario Irpef, Irap ed Iva, Cass. n. 12740/20 (richiamando Cass. n. 2941/07 ed altre), ha affermato che “l’obbligazione tributaria, pur consistendo in una prestazione a cadenza annuale, ha carattere autonomo ed unitario, ed il pagamento non è mai legato ai precedenti bensì risente di nuove ed autonome valutazione in ordine alla sussistenza dei presupposti impositivi”.
La giurisprudenza fin qui richiamata muove tutta dal principio di autonomia di ciascuna annualità, ma le conseguenze applicative di questo principio non appaiono poi univoche; ciò perchè da quello stesso elemento normativo costituito dall’autonomia di ciascun periodo d’imposta viene fatta discendere – talvolta – la distinta e piena potestà di accertamento su ogni singola annualità successiva, indipendentemente dalla mancata contestazione iniziale del componente pluriennale, – talaltra – invece la definitività e successiva immodificabilità di quanto inizialmente dichiarato dal contribuente e non tempestivamente contestato dall’amministrazione.
Va ancora evidenziato, per un approccio auspicabilmente organico al problema, come della questione si sia interessata anche la Cassazione penale, la quale ha più volte affermato il principio per cui “in tema di reati tributari e finanziari, il reato di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture o altri documenti per operazioni inesistenti è configurabile nel caso di un frazionamento in successive dichiarazioni annuali delle quote di ammortamento dell’importo di fatture per l’acquisto (inesistente) di beni strumentali ed è integrato da ogni dichiarazione nella quale vengono indicati i corrispondenti elementi passivi fittizi in detrazione dei redditi” (Cass. pen. 35729/13, così Cass. pen. 39176/08, Agrama ed altri). Anche in tal caso la base concettuale del ragionamento è costituita dall’autonomia di ciascun periodo d’imposta, dalla quale viene fatta discendere la consumazione di tanti autonomi reati di frode quante sono le dichiarazioni nelle quali vengono riportati gli elementi pluriennali fittizi.
p. 4.3 Autonomia ed annualità dei periodi d’imposta sono dunque fattori interpretativi chiave per la soluzione del problema.
L’imposta sul reddito è dal legislatore fortemente improntata a questi caratteri.
Per le persone fisiche, dispone il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 7, comma 1, che: “Periodo di imposta. 1. L’imposta è dovuta per anni solari, a ciascuno dei quali corrisponde un’obbligazione tributaria autonoma, salvo quanto stabilito dell’art. 8, comma 3 e nel secondo periodo dell’art. 11, comma 3”.
Per i soggetti Ires provvede l’art. 76: “Periodo d’imposta. 1. L’imposta è dovuta per periodi di imposta, a ciascuno dei quali corrisponde una obbligazione tributaria autonoma salvo quanto stabilito negli artt. 80 e 84. 2. Il periodo di imposta è costituito dall’esercizio o periodo di gestione della società o dell’ente, determinato dalla legge o dall’atto costitutivo. Se la durata dell’esercizio o periodo di gestione non è determinata dalla legge o dall’atto costitutivo, o è determinata in due o più anni, il periodo di imposta è costituito dall’anno solare”.
Per quanto la base imponibile sia infine necessariamente costituita da un dato economico, e quindi numerico, di sintesi e compendio, come tale sempre percepibile nella sua puntualità ed istantaneità, il presupposto dell’imposta sul reddito viene invece dal legislatore colto nel suo formarsi nel tempo.
Come prescritto dalla legge, il risultato di ciascun periodo costituisce l’oggetto di un’ “obbligazione tributaria autonoma”.
Ciò rende quella sul reddito una tipica imposta di natura periodica, ed il periodo di riferimento viene convenzionalmente dal legislatore fissato nell’anno solare ovvero, per le società di capitali, nell’anno di esercizio.
Il principio della periodicità annuale non è assoluto, perchè l’ordinamento conosce in effetti delle deroghe nel senso della infra o ultra-annualità d’imposta, ma ciò accade – appunto in via di eccezione – non in ragione della mera rilevanza poliennale di certi elementi reddituali, ma allorquando si verifichino eventi straordinari nella vita del contribuente (come nel caso della liquidazione sociale ovvero del c.d. “maxiperiodo concorsuale” costituito dall’intera durata della procedura fallimentare o di liquidazione coatta amministrativa ex artt. 182 e segg. TUIR) che giustifichino il fatto che il prelievo sia commisurato non all’utile di un singolo esercizio, ma all’attivo differenziale eventualmente sussistente all’esito dell’intera procedura, dopo che siano stati soddisfatti i creditori.
Per contro, la regola è nel senso che l’imposta non cessa di essere annuale – e dunque scandita su rapporti tributari nuovi, perchè via via insorti in ciascun anno – sol perchè, come di frequente accade, alla formazione del reddito di una determinata annualità possano per legge concorrere componenti derivanti da fatti generatori ricadenti in annualità pregresse.
Altrimenti detto, il reddito viene colpito su base annuale quand’anche determinato da elementi pluriennali.
p. 4.4 La periodizzazione annuale dell’imposta sul reddito e la novazione, tempo per tempo, di ciascuna obbligazione tributaria si riflettono sulla dichiarazione, la quale deve indicare “annualmente i redditi posseduti” (D.P.R. n. 600 del 1973, art. 1).
L’orientamento di gran lunga maggioritario, in dottrina e giurisprudenza, è nel senso di attribuire a quella fiscale la natura di dichiarazione di scienza o giudizio, non dispositiva e di volontà; in tal senso si esprime, in particolare, quella giurisprudenza di legittimità che si è diffusamente occupata dell’errore nella dichiarazione e delle condizioni della sua retrattabilità ed emendabilità successiva (SSUU 15063/02; SSUU 13378/16; da ultimo tra le molte, Cass. 31237/19, 6060/20).
Questa natura è evidente quando la pluriannualità dell’elemento di reddito sia prescritta ed imposta direttamente dalla legge, spettando al contribuente unicamente di uniformarvisi.
Ma, a ben vedere, anche quando essa muova da un’opzione di tipo volontaristico e negoziale del contribuente (come nel caso del riporto a nuovo delle perdite: Cass. 16977/19; Cass. 5105/19) la soluzione in ordine allo specifico problema della decadenza dall’accertamento non muta, rilevando a tal fine la quota annuale di deduzione solo in rapporto al periodo al quale si riferisce la dichiarazione.
In effetti, stabilisce l’art. 1 D.P.R., sull’accertamento delle imposte sul reddito, che questa deve contenere “l’indicazione degli elementi attivi e passivi necessari per la determinazione degli imponibili secondo le norme che disciplinano le imposte stesse”.
La dichiarazione dei redditi costituisce dunque essenzialmente una narrazione di fatti (“elementi” o “dati” o “informazioni”), fatti giuridicamente rilevanti perchè ricostruiti in funzione impositiva.
Essa non espone “diritti” nè posizioni giuridiche soggettive del contribuente, ma soltanto componenti economici e patrimoniali che l’ordinamento tributario prende in considerazione in quanto determinativi di un risultato algebrico nel quale la legge individua il reddito imponibile di quell’anno (solo di quello).
La rilevanza prettamente giuridica del fatto esposto esclude, al contempo, che quest’ultimo possa essere inteso quale riporto puramente contabile, inoppugnabile soltanto perchè tralatizio.
Dunque, la mera indicazione unilaterale di un fatto, valevole per legge solo per l’anno al quale la dichiarazione si riferisce, non può di per sè esplicare alcun effetto preclusivo sull’azione dell’amministrazione finanziaria che voglia contestare quello stesso fatto una volta dichiarato “ex novo” in una dichiarazione diversa, in quanto concernente un’altra annualità d’imposta nella quale quello stesso fatto continui a rilevare.
Nè si ritiene che vi sia spazio per diversificare l’ipotesi in cui la quota del componente pluriennale possa di anno in anno mutare secondo l’evolversi di una determinata situazione (come nel caso dell’ammortamento), da quella in cui esso si riproduca di anno in anno in quote costanti predeterminate (attraverso una ripartizione meramente finanziaria della posta), atteso che in entrambi i casi si ha autonoma rilevanza fiscale di periodo.
p. 4.5 La periodizzazione annuale dell’imposta e della relativa dichiarazione si riflette anche sull’accertamento, il quale deve essere notificato (salvo prolungamento dei termini in particolari situazioni) “a pena di decadenza, entro il 31 dicembre del quinto anno successivo a quello in cui è stata presentata la dichiarazione” (D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43).
La norma è chiara nel collegare la decadenza all’inutile spirare di un determinato termine di attivazione decorrente dalla dichiarazione che si intende accertare, senza distinguere tra natura annuale o poliennale del singolo elemento di reddito in essa esposto. Nè permette – in assenza di specifiche disposizioni in tal senso, ed a maggior ragione in una materia di stretta interpretazione qual è quella della decadenza – una lettura tale da ingenerare un’ipotesi di decadenza anticipata o ultrattiva a carico del Fisco, perchè maturata a causa dello spirare del termine di accertamento relativo, non già alla stessa dichiarazione oggetto di verifica, ma ad una diversa (precedente).
Anche l’accertamento si “rinnova” dunque di anno in anno, nel senso che il suo oggetto è il controllo del reddito di ciascuna singola annualità presa in esame, e siccome il reddito verificato costituisce, come detto, un dato complessivo unitario costituente l’esito dell’interdipendenza di una molteplicità di voci rilevanti, la sua verifica neppure si presta ad essere limitata a taluni componenti soltanto, con la salvezza di altri (quelli pluriennali) che, in ipotesi, non siano stati sottoposti a verifica negli anni precedenti; altrimenti, si verrebbe ad introdurre un limite di accertabilità, non solo temporale ma anche contenutistico, di cui non vi è riscontro nella legge (non potendosi esso ravvisare, in particolare, in quanto disposto, sull’oggetto dell’accertamento, negli artt. 39 e 40 D.P.R. cit.).
Da ciò consegue che l’accertamento deve essere possibile, su ogni annualità, anche con riguardo al fatto costitutivo dell’elemento pluriennale dedotto e non soltanto alla correttezza della singola quota annuale di deduzione.
Il che equivale ad affermare che la “definitività”, in conseguenza del mancato accertamento, della dichiarazione di prima emersione del componente pluriennale non porta con sè il diverso effetto della “preclusività” di sindacato per un periodo successivo; anzi, per meglio dire, non produce proprio alcun effetto di accertamento, il quale può derivare soltanto dalla positiva verifica di rispondenza alla realtà di quanto dichiarato.
p. 4.6 Venendo al contrario indirizzo di cui alle più volte citate sentenze (Cass. 9993/18; 12880/18), si rimarca in esse la natura non assoluta nè incondizionata del criterio dell’autonomia dei periodi di imposta, difatti suscettibile di venire meno nel caso di “efficacia espansiva del giudicato su annualità diversa da quella oggetto della decisione definitiva”; caso in cui la regola di separazione delle annualità viene travolta dal giudicato che abbia ad oggetto “situazioni geneticamente unitarie e, tuttavia, comunque destinate a ripercuotersi su annualità successive” (Cass. 9993/18 cit.).
Non si tratta di argomento dirimente.
E’ noto che nella giurisprudenza tributaria la teoria generale dei limiti oggettivi e soggettivi del giudicato si arricchisce – nell’ambito dei rimedi di unificazione e convergenza decisionale su più accertamenti omogenei – di una prospettiva peculiare, costituita dalla proiezione del giudicato stesso nel tempo.
Nella non infrequente ipotesi di plurimi avvisi di accertamento, ciascuno concernente una diversa ed autonoma annualità di imposta e separatamente impugnato, si è posto il problema di verificare se, ed a quali condizioni, il giudicato che abbia appurato determinati fatti materiali di imposizione relativamente ad una annualità, possa o debba estendere la propria efficacia preclusiva, tra le stesse parti, anche ad annualità diverse ed ancora sub judice. Il problema sorge proprio perchè quello tributario è giudizio non limitato all’atto, ma esteso, nei limiti della domanda, alla valutazione fattuale del rapporto secondo lo schema della “impugnazione-merito”.
Ebbene, la questione è stata organicamente affrontata dalle Sezioni Unite nel 2006 (n. 13916/06) e successivamente innumerevoli volte ripresa, anche e soprattutto nella specificazione e concretizzazione dei requisiti di “tendenziale permanenza” e di “durevolezza” degli elementi fattuali definitivamente acclarati che costituiscono il presupposto imprescindibile della estensione ad annualità diverse del giudicato extra moenia (tra le molte, Cass. nn. 23723/13, 4832/15, 20257/15, 21824/18, 30033/18).
Non è qui il caso di tornare sui risultati ai quali questa giurisprudenza, che interamente si richiama, è negli anni pervenuta (tra l’altro, anche includendo tra i fatti suscettibili di espansione nel tempo, perchè certamente stabili, anche quelli ingeneranti le deduzioni pluriennali: Cass. 16064/17 ed altre).
E’ invece necessario evidenziarne l’ininfluenza ai fini del problema in esame.
In primo luogo, la preclusione da giudicato tributario ultrannuale attiene al merito dell’imposizione, cioè alla sussistenza o insussistenza sostanziale dei suoi presupposti fattuali o di qualificazione giuridica, non già alla potestà accertativa dell’ufficio, ostando infatti quel giudicato non all’accertamento in sè, ma ad un suo determinato esito sul fondo della pretesa.
In secondo luogo, i principi giurisprudenziali in materia presuppongono appunto che la coincidenza della dichiarazione con la realtà sia stata vagliata da una sentenza passata in giudicato là dove, nel caso in esame, questo requisito manca per definizione, discutendosi della ben diversa ipotesi intangibilità della dichiarazione di prima emersione del componente pluriennale a seguito, non già di giudicato, ma di semplice inerzia dell’amministrazione che, per quella annualità, abbia tralasciato di verificare quella coincidenza.
Pertanto, nel problema di specie manca il sostrato fondamentale dato dall’effetto conformativo tipico, ex art. 2909 c.c., del giudicato e soltanto di questo.
p. 4.7 Ulteriore argomento di conforto viene dal menzionato indirizzo individuato in un principio più generale, ed anzi di rilevanza costituzionale, secondo quanto stabilito dal giudice delle leggi con le sentenze nn. 280/05 e 352/04.
Si è osservato (Cass. 9993/18 cit.) come la Corte Costituzionale abbia ritenuto compatibile con l’art. 24 Cost., solo un sistema decadenziale della pretesa fiscale “che non lasci il contribuente esposto all’azione esecutiva del fisco per termini eccessivamente dilatati”.
Si tratta, come è evidente, di un argomento basilare di civiltà giuridica che si fa al contempo carico sia dell’interesse generale alla stabilizzazione, entro un termine ragionevole, del rapporto giuridico tributario ed alla correlativa certezza delle entrate erariali, sia del diritto del contribuente di non essere lasciato per un tempo indeterminato, o comunque eccessivamente lungo (quale può essere quello decennale di prescrizione), sostanzialmente in balìa delle iniziative recuperatorie del Fisco.
Nella sentenza n. 280 del 2005 (sollecitativa di un intervento legislativo riparatore, poi intervenuto) ebbe a stabilire la Corte Costituzionale che: “E’ costituzionalmente illegittimo del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 25, come modificato dal D.Lgs. 27 aprile 2001, n. 193, nella parte in cui non prevede un termine, fissato a pena di decadenza, entro il quale il concessionario deve notificare al contribuente la cartella di pagamento delle imposte liquidate ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 36-bis. Premesso che, nel disciplinare il procedimento di riscossione delle imposte liquidate del D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 36-bis, le disposizioni che si sono succedute nel tempo hanno sempre collegato l’atto finale ed “esterno” del procedimento stesso (la notifica della cartella) ad un atto precedente (consegna dei ruoli all’esattore) a sua volta legato ad atti preesistenti, sicchè vi era comunque certezza relativamente al termine ultimo entro il quale il contribuente doveva venire a conoscenza della pretesa del fisco, il venir meno della fissazione di un termine per la consegna dei ruoli al concessionario non consente più di individuare un termine certo entro il quale deve intervenire la notifica della cartella di pagamento delle imposte liquidate ai sensi del citato art. 36-bis, sicchè la disposizione censurata si pone in contrasto con l’art. 24 Cost., il quale non consente che il contribuente sia assoggettato all’azione esecutiva del fisco per un tempo indeterminato e comunque, se corrispondente a quello ordinario di prescrizione, certamente eccessivo e irragionevole, soprattutto ove si consideri che l’Amministrazione, in tale procedimento, è chiamata a compiere una elementare operazione di verifica meramente formale (…)”.
Fermo il principio, non si ritiene che esso possa essere utilmente impiegato, quanto al problema qui in esame, per affermare la decadenza dell’amministrazione dall’accertamento di elemento pluriennale.
La Corte Costituzionale si è pronunciata su un contesto normativo del tutto differente, perchè relativo non alla fase di accertamento ma a quella della riscossione-esecuzione (iscrizione a ruolo e notificazione della cartella) e, inoltre, concernente una prodromica attività di verifica che la stessa Corte Costituzionale definisce necessariamente “elementare” perchè rinveniente dalla liquidazione di imposte oggetto di controllo automatizzato D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 36 bis.
Soprattutto, la Corte Costituzionale si è pronunciata con riguardo ad una disciplina nella quale l’azione riscossiva dell’amministrazione non era in sostanza assoggettata ad alcun termine decadenziale, così da potersi indebitamente protrarre ad libitum con il solo limite della prescrizione decennale.
E’ evidente come si tratti di situazione ben diversa dalla presente, nella quale l’attività di accertamento è per legge sottoposta (D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43) ad un termine decadenziale certo, e la cui ampiezza non può dirsi irragionevole.
Inoltre, la possibilità per il Fisco di accertare l’elemento pluriennale con riguardo ad una annualità successiva, pur a fronte della decadenza nella quale esso sia incorso con riguardo alli annualità di prima enunciazione o deduzione, non implica che quest’ultima annualità possa essere messa di nuovo in discussione, e neppure comporta un allungamento dei termini di accertamento, che restano fissi ed ancorati in ogni caso, ex art. 43 cit., alla sola annualità oggetto di verifica.
In definitiva, posto che tutte le volte in cui viene riportato in dichiarazione il componente di reddito pluriennale ne vengono al contempo richiamati e riutilizzati tutti i fatti presupposti e gli elementi costitutivi, può ben dirsi che quando l’ufficio operi la rettifica della dichiarazione in cui è riportata la singola quota, tale rettifica non incide in alcun modo, in pregiudizio del contribuente, sulla dichiarazione dell’anno di primo riporto ovvero su quelle successive già “decadute”. Il che rende evidente come, in tal caso, non venga affatto attribuito all’amministrazione (con rispettiva soggezione del contribuente) un potere di controllo per un tempo indeterminato, così da violare quanto prescritto dal giudice delle leggi.
Il quale, d’altra parte, tornando sull’argomento, ma nella specifica materia dell’accertamento IVA, ha anche stabilito un rapporto di ragionevolezza tra estensione del termine legale di decadenza e natura della materia da accertare (così C. Cost., sent. 247/2011, reiettiva della questione di legittimità costituzionale, ex artt. 3 e 24 Cost., in tema di raddoppio dei termini di accertamento in caso di obbligo di denuncia penale per reati tributari, D.P.R. n. 633 del 1972, ex art. 57, nella formulazione vigente ratione temporis), ritenendo costituzionalmente censurabili solo quelle situazioni (qui non ricorrenti) nelle quali i tempi di esercizio della potestà di accertamento siano lasciati sostanzialmente alla discrezionalità dell’ufficio impositore.
p. 4.8 Poichè, nella soluzione prospettata, l’amministrazione finanziaria potrebbe contestare il fatto generatore ed il presupposto costitutivo dell’elemento pluriennale anche a molti anni di distanza dal suo insorgere, vi è da chiedersi se questa sola situazione determini la lesione di posizioni giuridiche tutelate in capo al contribuente, segnatamente sotto il duplice profilo dell’affidamento e dei limiti all’obbligo di conservazione della documentazione probatoria relativa.
Per quanto concerne il primo aspetto, stabilisce la L. n. 212 del 2000, art. 10, commi 1 e 2″: “Tutela dell’affidamento e della buona fede. Errori del contribuente 1. I rapporti tra contribuente e amministrazione finanziaria sono improntati al principio della collaborazione e della buona fede. 2. Non sono irrogate sanzioni nè richiesti interessi moratori al contribuente, qualora egli si sia conformato a indicazioni contenute in atti dell’amministrazione finanziaria, ancorchè successivamente modificate dall’amministrazione medesima, o qualora il suo comportamento risulti posto in essere a seguito di fatti direttamente conseguenti a ritardi, omissioni od errori dell’amministrazione stessa.(…)”
Ci si trova indubbiamente di fronte all’affermazione di un principio generale dell’ordinamento che, nella materia tributaria, trova radice negli artt. 3,23,53 e 97 Cost., oltre che, per i tributi armonizzati, nei principi unionali.
Su questo presupposto deve anzi ritenersi che le situazioni di tutela dell’affidamento concretamente riconoscibili siano tendenzialmente indeterminate e da valutare caso per caso, purchè riconducibili (a parte l’oggettiva incertezza normativa valutata dal giudice) vuoi ad “indicazioni” fuorvianti provenienti dall’amministrazione finanziaria alle quali il contribuente si sia uniformato (circolari, pareri, interpelli, inviti ecc…), vuoi a “ritardi, omissioni od errori” dell’amministrazione medesima.
E tuttavia, tra queste situazioni non può farsi rientrare la mera inerzia dell’amministrazione che sia incorsa in decadenza nell’accertare la dichiarazione di prima deduzione dell’elemento pluriennale.
Da questa circostanza il contribuente non può realisticamente trarre alcun convincimento tutelabile circa la correttezza del proprio operato e la legittimità della sua reiterazione nelle dichiarazioni successive; reiterazione che di certo non potrebbe reputarsi “direttamente conseguente”, e men che meno causalmente determinata, dalla mancata sottoposizione a verifica di una annualità pregressa.
Se in via generale deve escludersi che il solo decorso del tempo ed il comportamento meramente passivo dell’amministrazione finanziaria siano suscettibili di produrre nel contribuente un affidamento tutelabile, a maggior ragione questa conclusione si impone nello specifico caso del mancato esercizio della potestà di rettifica.
Comportamento, questo, notoriamente dipendente da una serie assai complessa ed eterogenea di variabili, e di per sè privo di significatività all’interno di un sistema impositivo che, soprattutto in campo reddituale trova il proprio fulcro non nell’accertamento (evento che resta pur sempre secondario nella dinamica complessiva delle entrate tributarie) ma nella fisiologia della dichiarazione quale vero e proprio atto di responsabilità autoimpositiva ed autoliquidativa.
p. 4.9 Per quanto concerne il secondo aspetto, si obietta che non potrebbe esigersi dal contribuente la tenuta della documentazione dimostrativa dell’elemento pluriennale allorquando quest’ultimo venga contestato, non solo a notevole distanza dalla sua insorgenza, ma addirittura (come pure potrebbe accadere, a seconda della durata della dilazione) una volta decorso il termine decennale massimo di tenuta obbligatoria delle scritture ex art. 2220 c.c. ed art. 8, comma 5, Statuto del contribuente.
Va però considerato che nel D.P.R. n. 600 del 1973, il legislatore fornisce univoci segnali di indirizzo, nel senso che è il regime di conservazione documentale, per la sua evidente finalizzazione e strumentalità, a doversi per forza adeguare alla disciplina dell’accertamento ed alla sua tempistica, non il contrario.
Per le persone fisiche, l’art. 3 D.P.R. cit. ricollega l’obbligo di conservazione documentale al “periodo previsto dall’art. 43”, appunto concernente i termini di decadenza dell’accertamento; per le società e gli altri soggetti obbligati alla tenuta delle scritture contabili previste dalla legge civile e tributaria, l’art. 22, comma 2, stabilisce l’obbligo di conservazione “fino a quando non siano definiti gli accertamenti relativi al corrispondente periodo di imposta anche oltre il termine stabilito dall’art. 2220 c.c. o da altre leggi tributarie, salvo il disposto dell’art. 2457 c.c.”.
Questa correlazione servente è stata fatta propria anche dalla Corte Costituzionale nella già citata sentenza n. 247/11, nella quale si è ritenuto costituzionalmente legittimo un sistema, quale quello risultante dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 22 e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 57, ratione temporis applicabile, che comporti la conservazione delle scritture e dei documenti fino alla definizione degli accertamenti relativi al corrispondente periodo di imposta, ivi compresi quelli che vengano adottati, perchè implicanti fatti oggetto di denuncia per reati tributari, nel raddoppio dei termini; ed il conseguente raddoppio anche dei termini di conservazione documentale si è ritenuto non comportare alcuna lesione del diritto di difesa, proprio perchè non irragionevole e, per quanto sensibilmente prolungato, fissato entro limiti certi e predeterminati.
Cass. n. 9834/16 ha affrontato espressamente (in una fattispecie di ammortamenti ultradecennali), il profilo del coordinamento tra le norme rilevanti, affermando che: “del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 22, comma 2, nell’imporre la conservazione delle scritture contabili sino a quando non siano definiti gli accertamenti relativi al corrispondente periodo di imposta, va interpretato nel senso che l’ultrattività dell’obbligo di conservazione oltre il termine decennale di cui all’art. 2220 c.c., termine pure specificamente previsto, agli effetti tributari, dalla L. n. 212 del 2000, art. 8, comma 5, opera solo se l’accertamento, iniziato prima del decimo anno, non sia ancora stato definito a tale scadenza”. Diversamente opinando, ha osservato la Corte, ne deriverebbe “se non un’interpretazione sostanzialmente abrogatrice della norma, un’applicazione di essa influenzata da un forte indice di discrezionalità, nel senso che potendo l’amministrazione procedere all’accertamento nei termini del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 43, l’obbligo di conservazione, scaduto il periodo decennale, si protrarrebbe sino alla scadenza dei termini anzidetti per una durata che dipende esclusivamente dalla volontà dell’ufficio, rispetto alla quale il contribuente non avrebbe altra difesa che conservare le scritture sine die”.
Va però considerato che una volta stabilito che la deduzione dell’elemento pluriennale in ogni singola annualità di imposta espone il contribuente alla potestà di accertamento dell’amministrazione finanziaria indipendentemente dalla decadenza nella quale quest’ultima sia incorsa sulle annualità pregresse, non pare inesigibile – proprio in ottica, anche questa statutaria, di affidamento e reciproca collaborazione – che il contribuente sia onerato della diligente conservazione delle scritture, non sine die, ma fino allo spirare del termine di rettifica (anche se ultradecennale) dell’ultima dichiarazione accertabile.
Tanto più considerato che si verte di dichiarazione nella quale quella documentazione è stata dal contribuente stesso necessariamente utilizzata e richiamata a giustificazione della deduzione di rata, così da riguardare, per riprendere la formulazione dell’art. 22 cit., il “corrispondente periodo di imposta”.
Nè il disposto dell’art. 8, comma 5, Statuto, secondo cui il termine decennale di tenuta obbligatoria, ai soli effetti tributari, decorre dalla “emanazione” o dalla “formazione” della documentazione (là dove l’art. 2220 c.c., fa invece richiamo, per le scritture, alla data di “ultima registrazione”) osta nel caso specifico alla permanenza di questo onere. Per un verso, si tratta di fonte normativa non avente rango superiore alla legge ordinaria e di funzione essenzialmente interpretativa e di guida nell’applicazione della norma tributaria (tra le molte, Cass. nn. 4411/20, 2870/19); per altro, esso non può ragionevolmente riferirsi anche all’ipotesi del tutto caratteristica nella quale la documentazione, sebbene di più risalente genesi, venga purtuttavia in concreto utilizzata e valorizzata dal contribuente – come può accadere nelle rateazioni ultradecennali – anche oltre il termine massimo di legge.
Inoltre, il tema della conservazione delle scritture (oggi generalmente attuata con modalità tecnologiche di gestione documentale) non coincide appieno con quello dell’esercizio del diritto di difesa e della prova in giudizio, nel senso che il contribuente deve essere ammesso a fornire in altro modo la prova posta a suo carico, in tutti quei casi nei quali vi siano in concreto elementi per ritenere che egli si sia legittimamente privato, oltre il termine decennale, della documentazione fiscale.
p. 4.10 Viene dunque a cadere, in accoglimento del primo motivo di ricorso per cassazione, la prima ragione decisoria della Commissione Tributaria Regionale, dovendosi escludere l’affermata decadenza dell’amministrazione finanziaria.
Ciò in forza del seguente principio di diritto: “nel caso di contestazione di un componente di reddito ad efficacia pluriennale per ragioni diverse dall’errato computo del singolo rateo dedotto e concernenti invece il fatto generatore ed il presupposto costitutivo di esso, la decadenza dell’amministrazione finanziaria dalla potestà di accertamento va riguardata, D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 43, in applicazione del termine per la rettifica della dichiarazione nella quale il singolo rateo di suddivisione del componente pluriennale è indicato, non già in applicazione del termine per la rettifica della dichiarazione concernente il periodo di imposta nel quale quel componente sia maturato o iscritto per la prima volta in bilancio”.
p. 5.1 Venendo al secondo motivo di ricorso, ne va in primo luogo affermata l’ammissibilità.
Contrariamente a quanto eccepito dalla società controricorrente, si ritiene che il motivo di ricorso in esame – esclusivamente incentrato sulla violazione normativa ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) – sia tanto specificamente mirato ad individuare e censurare la ragione decisoria adottata sul punto dalla commissione tributaria regionale, quanto del tutto pertinente alla materia dell’accertamento opposto.
Per quanto concerne il primo aspetto, il motivo censura il ragionamento della commissione territoriale nei suoi due fondamenti logici e giuridici, costituiti dal fatto che la svalutazione sui crediti alla clientela della stabile organizzazione bancaria non potrebbe essere contestata nè in base alle convenzioni internazionali ed al relativo commentario Ocse (ritenuto nella specie non applicabile ratione temporis) nè in base agli accordi internazionali sulla concentrazione bancaria dei rischi (c.d. (OMISSIS)), escludendo tali accordi appunto le stabili organizzazioni bancarie. La doglianza in esame (ricorso, pagine 9 e 10) evidenzia l’erroneità di questi assunti, osservando che la fattispecie andava appunto disciplinata sulla base dell’art. 7 della Convenzione contro le doppie imposizioni tra Italia e Paesi Bassi, a sua volta richiedente che la succursale italiana si comportasse alla stregua di un soggetto economico indipendente rispetto alla casa-madre, anche con quanto ne conseguiva in ordine al rapporto fra dotazione patrimoniale propria ed entità dei finanziamenti erogati alla clientela; così come applicabile alla fattispecie doveva ritenersi quanto stabilito dal paragrafo 18.3 del Commentario Ocse all’art. 7 del Modello, appunto richiedente la dotazione da parte della stabile organizzazione di una struttura patrimoniale appropriata alla quale rapportare le eventuali perdite sui finanziamenti.
Per quanto concerne il secondo aspetto, è pur vero, come osservato dalla controricorrente, che nell'”impianto argomentativo” della doglianza l’agenzia delle entrate fa più volte riferimento alla solo parziale deducibilità degli “interessi passivi” sul finanziamento di provvista procurato alla succursale dalla società madre (vale a dire, alla deducibilità di una componente passiva diversa da quella fatta oggetto dell’avviso di accertamento opposto, costituita dalla svalutazione sui crediti), e tuttavia, non vi è dubbio che il richiamo alla indeducibilità degli interessi passivi sia stato fatto dalla ricorrente, appunto, a fini prettamente argomentativi e dimostrativi, intendendosi con ciò “specularmene” equiparare agli interessi passivi proprio la svalutazione dei crediti alla clientela. In maniera tale che, secondo la tesi della ricorrente ed in diverso avviso con quanto invece ritenuto dalla commissione tributaria regionale, tanto per gli interessi passivi quanto per la svalutazione sui crediti dovevano valere analoghe contestazioni di parziale indeducibilità in assenza di una dotazione patrimoniale della stabile organizzazione bancaria che mettesse in condizione quest’ultima di operare, nello Stato di residenza, quale entità autonoma ed indipendente. Di ciò vi è ampia riprova nello sviluppo della censura (ricorso, pagg. 11 e 12), laddove la ricorrente si riferisce invece, più volte e specificamente, proprio alle “svalutazioni” sui crediti in quanto oggetto dell’accertamento opposto, richiamando altresì la legittimità del proprio operato nella parte in cui aveva individuato il limite delle “svalutazioni” deducibili secondo le prescrizioni di cui alla Circolare della Banca d’Italia n. 229 del 1999 ed i parametri Ocse.
Va dunque escluso anche sotto questo profilo che il motivo di ricorso sia generico e non focalizzato sulla lite; ed è significativo che nel proprio controricorso la Banca spieghi abbondanti argomenti di merito volti a contrastare proprio l’assunto dell’amministrazione finanziaria secondo cui, ai fini di causa, i limiti di deducibilità dovevano valere tanto per gli interessi passivi sul finanziamento ottenuto dalla casa madre, quanto sulle svalutazioni dei crediti alla clientela della succursale, con ciò palesandosi una volta di più la centralità del tema e la sua piena attinenza alla decisione impugnata.
p. 5.2 Il motivo è fondato, con conseguente venir meno anche della seconda ragione decisoria della Commissione Tributaria Regionale.
La questione dei limiti di deducibilità delle poste passive rinvenienti da finanziamenti erogati alla clientela da stabili organizzazioni bancarie operanti in Italia in condizione di sottocapitalizzazione è già stata più volte affrontata dalla Sezione Tributaria di questa Corte, con esiti che non vi è ragione di qui disattendere.
Ha affermato Cass. n. 23355/19 che: “In tema di determinazione del reddito d’impresa derivante da attività esercitate nel territorio dello Stato mediante stabili organizzazioni, la deducibilità dei componenti negativi deve avvenire nel rispetto del principio di libera concorrenza – del quale è attuativo del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 110, comma 7 – il quale impone che i criteri di determinazione del reddito delle stabili organizzazioni siano omogenei rispetto a quelli operanti per le imprese residenti nello Stato.”.
Anche la società controricorrente prende in esame questa pronuncia, argomentandone, in memoria, l’estraneità alla presente fattispecie proprio perchè asseritamente non riguardante il tema della svalutazione dei crediti alla clientela, ma solo quello degli interessi passivi sui finanziamenti erogati a quest’ultima dalla casa madre.
Questo assunto non può condividersi.
Con la decisione in esame, la corte di legittimità (pronunciandosi in applicazione dell’art. 7 della Convenzione contro le doppie imposizioni stipulata tra Italia e Regno Unito, nella parte in questione di identico contenuto rispetto a quella italo-olandese) ha invece ribadito la legittimità di un avviso di accertamento che si era basato, come nella specie, sull’adozione di determinati correttivi costituiti dalla imputazione alla stabile organizzazione di parametri patrimoniali ritenuti consoni tanto per la deducibilità degli interessi passivi, quanto per quella delle perdite su crediti, così da ritenersi in realtà senz’altro rilevanti anche per le svalutazioni che le perdite prudenzialmente anticipano.
In particolare, corretta è stata ritenuta l’individuazione, da parte dell’amministrazione finanziaria, di un “fondo di dotazione” figurativo della stabile organizzazione, con deducibilità dei soli interessi passivi maturati sulla quota eccedente l’ammontare del fondo; nonchè l’individuazione contabile di un “patrimonio di vigilanza”, parametrato alle linee di credito concesse alla clientela, con deducibilità delle perdite su crediti limitatamente alla quota-parte imputabile a tale patrimonio, e con esclusione della quota-parte invece riferibile a risorse messe a disposizione dalla casa madre.
Va detto che questo indirizzo interpretativo è stato più recentemente convalidato da Cass. n. 6242/20 la quale (in fattispecie di recupero fiscale delle svalutazioni sui finanziamenti concessi al gruppo Parmalat dalla stabile organizzazione italiana di una Banca USA, Stato legato all’Italia da una convenzione contro le doppie imposizioni di contenuto corrispondente, su punto, a quelle stipulate con il Regno Unito ed i Paesi Bassi) ha stabilito che:
“ai fini della determinazione del reddito della stabile organizzazione imputabile ad una filiale italiana di banca estera, sottocapitalizzata o priva di capitale di rischio, la deducibilità dei componenti negativi postula la necessaria adozione di correttivi anche mediante richiamo al par. 18.3. del Commentario Ocse contro le doppie imposizioni, il quale, pur non avendo valore normativo, costituisce una raccomandazione diretta ai Paesi aderenti”.
Segnatamente, è stato ritenuto legittimo l’accertamento basato sulla imputazione alla stabile organizzazione di un fondo di dotazione fittizio, rilevante ai fini della determinazione del quantum delle perdite dei crediti deducibili, per effetto della loro imputazione pro-quota, rispettivamente, alla filiale italiana ed alla casa madre straniera.
Ha osservato Cass. 6242/20, in esame, che: “il regime giuridico appena individuato trova piena applicazione anche in tema di “svalutazione dei crediti”. Queste ultime, infatti, costituiscono indiscutibilmente “componenti negativi” del reddito d’impresa che, ai fini impositivi, incidono sulla rilevanza delle perdite sui crediti successivamente registrate, rappresentando – la svalutazione dei crediti – la (temporanea) anticipazione in termini reddituali (il che giustifica la loro appostazione nel conto economico ai sensi dell’art. 2425 c.c., comma 1, lett. B), n. 10, lett. d) e lett. D), n. 19, lett. b)), del decremento di ricchezza manifestato (definitivamente) dalle “perdite sui crediti” le quali, per effetto della loro correlazione con le svalutazioni dei medesimi diritti, sono deducibili, nel computo del reddito di impresa, al netto della parte che eccede l’ammontare delle svalutazioni e degli eventuali accantonamenti dedotti nei presenti esercizi (…)”.
L’indirizzo che è andato così delineandosi muove dai seguenti passaggi fondamentali; - le Convenzioni in materia, tutte rispondenti al Modello OCSE, stabiliscono un principio di distinta ed indipendente soggettività fiscale ed uno standard di autonomia funzionale della stabile organizzazione rispetto alla casa madre (così, in particolare, la Conv. Italia-Paesi Bassi qui applicabile, art. 7, secondo cui: “1. Gli utili di un’impresa di uno degli Stati sono imponibili soltanto in detto Stato, a meno che l’impresa non svolga la sua attività nell’altro Stato per mezzo di una stabile organizzazione ivi situata.
Se l’impresa svolge in tal modo la sua attività, gli utili dell’impresa sono imponibili nell’altro Stato ma soltanto nella misura in cui detti utili sono attribuibili alla stabile organizzazione. 2 Fatte salve le disposizioni del paragrafo 3, quando un’impresa di uno degli Stati svolge la sua attività nell’altro Stato per mezzo di una stabile organizzazione ivi situata, in ciascuno Stato vanno attribuiti a detta stabile organizzazione gli utili che si ritiene sarebbero stati da essa conseguiti se si fosse trattato di un’impresa distinta svolgente attività identiche o analoghe in condizioni identiche o analoghe ed in piena indipendenza dall’impresa di cui essa costituisce una stabile organizzazione (…))”, principio proprio anche dell’ordinamento interno ex art. 23, comma 1, lett. e) TUIR; - secondo il p. 18.3 del Commentario OCSE all’art. 7 del Modello di convenzione contro le doppie imposizioni, la stabile organizzazione deve essere dotata “di una struttura patrimoniale appropriata sia per l’impresa, sia per le funzioni che esercita. Per tali ragioni il divieto di dedurre le spese connesse ai finanziamenti interni, ossia quelli che costituiscono mera attribuzione di risorse proprie della casa madre, dovrebbe continuare ad applicarsi in via generale”; è inoltre estensibile alle stabili organizzazioni il principio della piena e libera concorrenza (arm’s lenght), con la conseguenza che il prevedere per le stabili organizzazioni un regime tributario di favore (cioè disomogeneo rispetto a quello previsto per le analoghe imprese residenti) può produrre effetti distorsivi in materia, tanto più rilevanti e sensibili qualora si tratti di stabili organizzazioni di imprese UE;
- nel caso di succursale bancaria sottocapitalizzata perchè priva di capitale di rischio, l’attuazione dei suddetti parametri di indipendenza, omogeneità ed autonomia funzionale impone all’amministrazione finanziaria l’imputazione alla stabile organizzazione di un fondo di dotazione figurativo così da operare, nel rapporto di indebitamento, un discrimine tra quota-parte di svalutazione dei crediti deducibile dalla stabile organizzazione perchè a questa ascrivibile, e quota-parte di svalutazione non deducibile dalla stabile organizzazione, perchè invece riferibile alla casa madre (secondo i criteri generali di cui all’art. 109 e art. 110, comma 7 TUIR nella formulazione applicabile ratione temporis);
- anche se la norma non è applicabile alla fattispecie in esame, questi principi segnavano la linea evolutiva dell’ordinamento nazionale, tanto da essere stati oggi anche formalmente recepiti dall’art. 152 TUIR (Reddito di società ed enti commerciali non residenti derivante da attività svolte nel territorio dello Stato mediante stabile organizzazione), il cui comma 2 stabilisce che: “Ai fini del comma 1, la stabile organizzazione si considera entità separata e indipendente, svolgente le medesime o analoghe attivita, in condizioni identiche o similari, tenendo conto delle funzioni svolte, dei rischi assunti e dei beni utilizzati. Il fondo di dotazione alla stessa riferibile è determinato in piena conformità ai criteri definiti in sede OCSE, tenendo conto delle funzioni svolte, dei rischi assunti e dei beni utilizzati”.
p. 5.4 Orbene, si tratta di criteri che la commissione tributaria regionale ha per più versi violato, e che l’agenzia delle entrate ha persuasivamente censurato.
In primo luogo non è esatto affermare, con i giudici territoriali, che “l’assetto convenzionale desumibile dai trattati e dal commentario Ocse non esprime alcuna possibilità di contrastare la deducibilità delle perdite su crediti conseguite dalle stabili organizzazioni bancarie”, dal momento che, nel caso in cui la stabile organizzazione sia sottocapitalizzata ed effettui ciò non di meno finanziamenti alla clientela rapportabili non al suo livello di capitalizzazione e di rischio ma alle risorse direttamente riferibili alla casa-madre, è proprio il diritto convenzionale contro le doppie imposizioni – che non ha efficacia direttamente impositiva, quanto distributiva della potestà di imposizione tra gli Stati stipulanti – a consentire che lo Stato di residenza adotti i correttivi necessari al fine di raggiungere gli obiettivi pratici di autonoma soggettività fiscale ed omogenea tassazione delle stabili organizzazioni. Va pure considerato che le convenzioni contro le doppie imposizioni (per loro natura prevalenti sul diritto interno: v. anche il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 75) sono, a tutti gli effetti, dei trattati internazionali, in modo che sono ad esse applicabili i criteri interpretativi generali di cui alla Convenzione di Vienna sul diritto dei Trattati del 23 maggio 1969, ratificata con L. n. 112 del 1974. Esse devono quindi essere interpretate (art. 31 Conv.) con effetto conservativo e secondo buona fede; in base al senso comune dei termini nel contesto del trattato (comprensivo degli allegati); secondo il loro oggetto ed il loro scopo pratico.
In secondo luogo, non è esatto affermare che “il richiamo operato dall’ufficio al rapporto Ocse è da considerare un’illegittima applicazione retroattiva del rapporto in quanto divenuto definitivo in sede Ocse nel 2008 e quindi, comunque, inesistente all’epoca dei fatti (2003) se non quale progetto di regolamentazione”. Ciò perchè il rapporto (Commentario) Ocse non era stato dedotto dall’Agenzia quale fonte normativa direttamente cogente, bensì come contributo ricognitivo ed interpretativo (dunque potenzialmente valevole anche per il passato) delle Convenzioni internazionali contro le doppie imposizioni ispirate al Modello Ocse. Sul punto, ferma la non vincolatività delle raccomandazioni contenute nel Commentario Ocse e la loro natura di soft law, se ne è più volte affermata da questa Corte l’idoneità a fungere da strumento di indirizzo ed ausilio nell’interpretazione dell’esatto contenuto e delle finalità delle convenzioni internazionali basate sul relativo Modello (oltre a Cass. 6242/20 già considerata, Cass. nn. 23984/16, 25374/08 ed altre).
In terzo luogo non è esatto affermare che “la normativa sulla concentrazione dei rischi a cui i verificatori hanno fatto riferimento (accordo (OMISSIS)) per il calcolo del fondo di dotazione della stabile organizzazione bancaria, prevede uno specifico meccanismo di esonero per le stabili organizzazioni bancarie extracomunitarie”, dal momento che non era qui in discussione la diretta assoggettabilità, ovvero l’esclusione, della stabile organizzazione italiana della banca olandese alla disciplina sostanziale di vigilanza, quanto l’individuazione del regime fiscale ad essa applicabile in conformità alla Convenzione; regime fiscale che presupponeva invece la legittimità dell’attribuzione ad essa di una congrua patrimonializzazione in via meramente figurativa, proprio perchè rilevante ai fini non della vigilanza sostanziale ma della riconoscibilità fiscale delle passività.
Neppure può trovare accoglimento l’argomento sostenuto dalla controricorrente secondo cui, in tema di svalutazione o perdite su crediti ed a differenza di quanto accade per gli interessi passivi sulle somme messe a disposizione dalla casa madre – la integrale deducibilità della passività da parte della stabile organizzazione si imporrebbe per il solo fatto generatore costituito dall’insolvenza del cliente finanziato, risultando per contro del tutto ininfluente la provenienza – propria, infragruppo o al limite esterna – della provvista. Si tratta infatti di argomento che contrasta con la giurisprudenza in materia la quale, come detto, non opera la distinzione tra oneri di svalutazione/perdita su crediti ed oneri per interessi passivi; e ciò in considerazione del fatto che tanto nell’un caso quanto nell’altro si tratta di rimediare ad effetti di tipo distorsivo nella disciplina fiscale applicabile alla stabile organizzazione sottocapitalizzata in forza dei su richiamati standards convenzionali di indipendenza ed autonomia funzionale, in comparazione non già con la casa madre ma con le imprese residenti di analoga natura. In modo tale che, in assenza di questi ultimi caratteri convenzionalmente imposti, è proprio la stessa diretta ed obiettiva incidenza di quell’insolvenza sulla stabile organizzazione a dover essere posta in discussione sul piano dell’omogeneità del trattamento fiscale.
p. 5.5 Ne segue, in definitiva, la cassazione della sentenza impugnata, con rinvio alla commissione tributaria regionale della Lombardia che, in diversa composizione, riesaminerà la fattispecie alla luce dei principi qui indicati. Il giudice di rinvio provvederà anche sulle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
La Corte;
accoglie il ricorso;
cassa la sentenza impugnata e rinvia, anche per le spese, alla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia in diversa composizione.