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Cass., sez. trib., 9 novembre 2015, n. 22800 (testo)

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CICALA Mario – rel. Presidente –

Dott. DI BLASI Antonino – Consigliere –

Dott. CHINDEMI Domenico – Consigliere –

Dott. ZOSO Liana Maria Teresa – Consigliere –

Dott. BRUSCHETTA Ernestino Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso 16543/2014 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

Q.G.;

– intimato –

avverso la sentenza n. 115/2013 della COMM.TRIB.REG. di VENEZIA, depositata il 13/12/2013;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 21/10/2015 dal Presidente e Relatore Dott. MARIO CICALA;

uditi per il ricorrente gli Avvocati DE BONIS e DE BELLIS che hanno chiesto l’accoglimento in subordine rimessione alle SS.UU.;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SORRENTINO Federico, che ha concluso per il rigetto del ricorso.


Svolgimento del processo


L’Agenzia delle Entrate ricorre per cassazione deducendo due motivi avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale del Veneto- Mestre del 13/12/2013 n. 115/29/13 che accoglieva l’appello del sig. Q.G. e dichiarava la nullità di avvisi di accertamento dei redditi emessi nei di lui confronti.

La Commissione riteneva che tali avvisi fossero nulli in quanto emessi senza una adeguato preventivo contraddittorio e sottoscritti da funzionario non legittimato.

Il contribuente non si è costituito in giudizio. La Avvocatura di Stato ha depositato memoria.


Motivi della decisione


Appare opportuno esaminare, in primo luogo, il secondo motivo di ricorso, relativo alla legittimazione del funzionario che ha sottoscritto gli atti impositivi, su delega del capo dell’ufficio. E dal momento che la sentenza impugnata ha affrontato un articolato complesso di problemi, che formano oggetto del ricorso erariale, il Collegio ritiene opportuno esaminare funditus la questione pronunciandosi ex art. 363 c.p.c., su tutti i profili, ancorchè – come risulterà in prosieguo – nel caso di specie il motivo di ricorso debba essere rigettato per considerazioni specifiche.

Materia del contendere è la interpretazione ed applicazione del disposto del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, comma 1, (applicabile anche agli accertamenti IVA in quanto il D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 56, nel rinviare alla disciplina sulle imposte dei redditi, richiama implicitamente il citato art. 42) ed in particolare la individuazione di chi siano gli “impiegati della carriera direttiva” cui il capo dell’ufficio può delegare la sottoscrizione dell’avviso di accertamento. E la mancata osservanza di quanto prescritto dall’art. 42, comma 1, determina – come espressamente afferma la legge e costantemente dichiarato da questa Corte – la nullità dell’avviso di accertamento; ciò in quanto gli avvisi di accertamento costituiscono la più complessa espressione de potere impositivo, ed incidono con particolare profondità nella realtà economica e sociale, discostandosi da e contestando le affermazioni del contribuente. Le qualità professionali di chi emana l’atto costituiscono quindi una essenziale garanzia per il contribuente (si veda da ultimo la articolata motivazione di Cass. 5 settembre 2014, n. 18758).

Nell’applicazione dell’art, 42 occorre tener presente che la delega ivi prevista è altra cosa rispetto alla attribuzione di funzioni dirigenziali attraverso le procedure regolate prima dall’art. 24 del Regolamento e poi dal D.L. 2 marzo 2012, n. 16, art. 8, comma 24, convertito con modificazioni dalla L. 26 aprile 2012, n. 44, (disposizioni entrambe cancellate dalla Corte Costituzionale con la sentenza 37/2015 e dal Consiglio di Stato con la sentenza 4641/2015).

Ciò in quanto l’art. 42 prevede la delega amministrativa per singoli atti, mentre le norme caducate prevedevano il conferimento, attraverso contratti, di uno “status” con rilevanti riflessi anche economici; persino ove l’attribuzione delle funzioni superiori risultasse nulla (cfr. D.Lgs. n. 165 del 2001, art. 52, comma 5).

Le due problematiche interferirebbero ove si ritenesse che il delegato debba essere un “dirigente” vero e proprio ex art. 11 del Regolamento della Agenzia, cui verrebbero equiparati (per quanto attiene alla funzione) i soggetti individuati con le procedure del (cancellato) art. 24. Ma invece il Collegio ritiene, in continuità con la costante giurisprudenza di questa Corte, che l’espressione “impiegato della carriera direttiva” contenuta nel ben noto art. 42 dpr 600/1973, non equivale a “dirigente” ma richieda un quid minus. E perciò la tematica dei “dirigenti illegittimamente nominati”, non entra nell’oggetto del giudizio. In quanto a seguito delle evoluzioni normative e contrattuali succedutesi dal 1973 in poi, l'”impiegato della carriera direttiva” oggi corrisponde al “funzionario della terza area” (Cass. 21 gennaio 2015, n. 959).

Si tratta di un’evoluzione che ha avuto diverse tappe. La L. 11 luglio 1980, n. 312, recante il nuovo assetto retributivo – funzionale del personale civile e militare dello Stato, ha istituito le qualifiche funzionali. L’art. 4 della legge (concernente il primo inquadramento nelle suddette qualifiche) prevedeva che il personale della ex carriera direttiva transitasse nella 7 e nell’8 qualifica (la 8 venne istituita successivamente), e precisamente: “nella settima qualifica funzionale il personale (…) della carriera direttiva con le qualifiche di consigliere e di direttore di sezione o qualifiche equiparate; nell’ottava qualifica funzionale il personale della carriera direttiva con la qualifica di direttore aggiunto di divisione o qualifica equiparata e personale delle carriere direttive strutturate su una unica qualifica”.

Il passaggio successivo è intervenuto con il contratto collettivo nazionale di lavoro del comparto ministeri per il quadriennio 1998- 2001, il cui art. 13 (Aree di inquadramento) prevedeva che “il nuovo sistema di classificazione del personale, improntato a criteri di flessibilità correlati alle esigenze connesse ai nuovi modelli organizzativi, si basa sui seguenti elementi: a) Accorpamento delle attuali nove qualifiche funzionali in tre aree: (… ) Area C – comprendente i livelli dal 7 al 9 e il personale del ruolo ad esaurimento”. L’area era articolata nelle posizioni C1, C2 e C3, nella quale è rispettivamente confluito il personale della 7, 8 e 9 qualifica.

L’ultima tappa è costituita dal contratto del comparto agenzie fiscali per il quadriennio 2002-2005, il cui art. 17 (Classificazione) prevede che “Il sistema di classificazione del personale (…) è articolato in tre aree: (… ) Terza area: comprendente le ex posizioni C1, C2 e C3”. La terza area è suddivisa in sei fasce retributive (da F1 a F6): il personale in servizio è transitato nelle fasce secondo una tabella di corrispondenza allegata al contratto, in base alla posizione ricoperta nell’ordinamento di provenienza. Le aree corrispondono a livelli omogenei di competenze, conoscenze e capacità; ne consegue che tutte le mansioni di un’area sono considerate equivalenti e parimenti esigibili dal personale inquadrato nell’area stessa, a prescindere dalla sua posizione economica.

Alla luce della ricostruzione che precede, per le agenzie fiscali la vecchia carriera direttiva deve oggi essere individuata nella terza area, che ha assorbito la “vecchia” nona qualifica funzionale; ritenuta idonea a determinare la validità dell’atto in numerose sentenze di questa Corte, che hanno respinto la tesi dei contribuenti secondo cui il delegato dovrebbe essere un dirigente vero e proprio (cfr. Cass. 5 settembre 2014, n. 18758).

La norma in esame assume così una propria autonoma valenza senza che occorra far ricorso al regolamento di Amministrazione dell’Agenzia delle Entrate ex Delibera del Comitato Direttivo del 30 novembre 2000, n. 4; secondo cui gli avvisi di accertamento debbono essere “emessi dalla direzione provinciale e sono sottoscritti dal rispettivo direttore o, su delega di questi, dal direttore dell’ufficio preposto all’attività accertatrice ovvero da altri dirigenti o funzionari a seconda della rilevanza e complessità degli atti” (art. 5, comma 6, Reg. di Amm. n. 4). Del resto, il regolamento non potrebbe derogare alla legge che non parla genericamente di “funzionari”, ma di “impiegati della carriera direttiva”.

La autonoma valenza riconosciuta all’art. 42 tante volte citato, si inquadra – del resto – nella costante affermazione della giurisprudenza di questa Corte secondo cui, in materia tributaria non trova applicazione il principio secondo cui l’atto emanato con violazione della legge è di regola invalido (sub specie nullità o annullabilità poco importa); principio scolpito invece nell’art. 21 octies, introdotto nella L. n. 241 del 1990, dalla L. 11 febbraio 2005, n. 15, art. 14, comma 1 (unitamente all’intero capo 4 bis dal titolo “efficacia ed invalidità del provvedimento amministrativo, revoca e recesso”), applicabile agli atti amministrativi “comuni”. E perciò la nullità di cui qui si discute è rigidamente circoscritta nei limiti tracciati dall’art. 42, senza che assuma rilievo l’eventuale illegittimità del conferimento al capo dell’ufficio delegante della qualità di dirigente (anche temporaneo), avvenuta sulla base di una norma regolamentare illegittima o di una norma di legge dichiarata incostituzionale.

Ciò premesso occorre ribadire che, ove il contribuente contesti nel suo ricorso introduttivo (così come evidenziato nella sentenza impugnata) il possesso da parte del delegato (o del delegante) dei requisiti indicati dall’art. 42, spetta alla Amministrazione fornire la prova della non sussistenza del vizio dell’atto. Ciò sia in base al principio di leale collaborazione che grava sulle parti processuali (e segnalatamente sulla parte pubblica), sia in base al principio della “vicinanza della prova” in quanto si discute di circostanze che coinvolgono direttamente la Amministrazione, che detiene la relativa documentazione, di difficile accesso per il contribuente (Cass. 5 settembre 2014, n. 18758; Cass. 10 luglio 2013, n. 17044; Cass. giugno 2013, n. 14942). E dunque non è consentito al giudice tributario attivare d’ufficio poteri istruttori.

Questa considerazione determina il rigetto del motivo di ricorso in quanto la sentenza di merito accerta che l’Ufficio non ha dato “alcun riscontro della qualità rivestita dal funzionario delegato”.

Si enunciano i seguenti principi di diritto:

In base al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, l’avviso di accertamento è nullo se non reca la sottoscrizione del capo dell’ufficio o di altro impiegato della carriera direttiva da lui delegato.

A seguito della evoluzione legislativa ed ordinamentale sono oggi “impiegati della carriera direttiva” ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 42, i “funzionari della terza area” di cui al contratto del comparto agenzie fiscali per il quadriennio 2002-2005 (art. 17).

E – in base al principio della tassatività delle cause di nullità degli atti tributali – non occorre, ai meri fini della validità dell’atto, che i funzionari deleganti e delegati possiedano la qualifica di dirigente, ancorchè essa sia eventualmente richiesta da altre disposizioni.

Ove il contribuente contesti – anche in forma generica – la legittimazione del funzionario che ha sottoscritto l’avviso di accertamento ad emanare l’atto (D.P.R. n. 600 del 1972, art. 42), è onere della Amministrazione che ha immediato e facile accesso ai propri dati fornire la prova del possesso dei requisiti soggettivi indicati dalla legge, sia del delegante che del delegato, nonchè della esistenza della delega in capo al delegato.

Il primo motivo risulta così assorbito.

Non vi è luogo a provvedere per le spese.


P.Q.M.


La Corte rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Quinta Civile, il 21 ottobre 2015.

Depositato in Cancelleria il 9 novembre 2015