202205.09
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Cass., sez. trib., 9 maggio 2022, n. 14493 (testo)

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. CATALDI Michele – rel. Consigliere –

Dott. DE ROSA Maria Luisa – Consigliere –

Dott. DI MARZIO Paolo – Consigliere –

Dott. CRIVELLI Alberto – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso iscritto al n. 25430/2014 R.G. proposto da:

Fi.Bi. S.r.l., in persona del legale rappresentante; Nuova Beton S.r.l., in persona del legale rappresentante; e B.L., tutti rappresentati e difesi, per procura speciale, dall’avv. Italo Doglio e dall’avv. Michele Doglio, ed elettivamente domiciliati in Roma, via Luciani n. 1, presso lo studio dell’avv. Daniele Manca Bitti;

  • ricorrenti –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, con domicilio legale in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato;

  • controricorrente –

Avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Sardegna n. 108/05/14, depositata il 13 marzo 2014.

Udita la relazione svolta nella pubblica udienza dell’8 aprile 2022 D.L. 28 ottobre 2020, n. 137, ex art. 23, comma 8-bis, convertito dalla L. 18 dicembre 2020, n. 176, dal Consigliere Michele Cataldi.

Dato atto che il Sostituto Procuratore Generale Dott. Tommaso Basile ha concluso chiedendo di rigettare il ricorso.

Svolgimento del processo

  1. L’Agenzia delle entrate emise due distinti avvisi d’accertamento, con i quali rettificò la dichiarazione della Fi.Bi. s.r.l. per gli anni d’imposta 2005 e 2006, accertando, ai fini Ires, Irap ed Iva:

per l’anno 2005, minori componenti negativi per Euro 728.529,09 (minusvalenze indeducibili) e un’indebita detrazione Iva di Euro 45.000,00;

per l’anno d’imposta 2006, minori componenti negativi per Euro 68.758,00 (ammortamenti indeducibili) e l’illegittima detrazione Iva di Euro 104.000,00.

I recuperi si basarono sui seguenti rilievi.

1.1. Quanto all’anno d’imposta 2005, relativamente alle minusvalenze da compravendita di titoli, l’Ufficio rilevò che la s.r.l. aveva incluso nel conto economico la voce “dividendi su titoli”, derivante dalla maturazione di dividendi su titoli quotati, oggetto di operazioni di compravendita e classificati nell’attivo circolante, ed aveva inserito nel rigo RF 58 della dichiarazione, tra le variazioni, l’importo di Euro 1.008.724,00, al fine di esentare da tassazione il 95% del dividendo percepito, ai sensi del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 89, comma 2. Nello stesso anno la società aveva ceduto i medesimi titoli, dai quali aveva tratto il dividendo esentato al 95%, realizzando minusvalenze interamente deducibili, in quanto non rientranti nel regime della partecipation exemption (c.d. p.e.x.).

A detta dell’Amministrazione, il vantaggio fiscale ottenuto dalla società nell’anno 2005, per effetto di tali cessioni, che sarebbero state compiute in assenza di valide ragioni economiche, doveva ritenersi indeducibile, in quanto derivante da un abuso del diritto e pertanto inopponibile al Fisco.

L’operazione disconosciuta era così articolata, secondo quanto accertò l’Amministrazione:

acquisizione di una partecipazione in una società che presenti utili pregressi da distribuire;

percezione di tali utili, esentati da tassazione al 95%;

deduzione di una minusvalenza, realizzata tramite la successiva cessione della partecipazione, a un corrispettivo inferiore rispetto al prezzo di acquisto, giustificato dalla già avvenuta distribuzione dei dividendi. La minusvalenza era deducibile perchè relativa a partecipazioni non p.e.x., D.P.R. n. 917 del 1986, ex art. 87 in quanto non classificate nella categoria delle immobilizzazioni finanziarie, ma nell’attivo circolante, nel primo bilancio chiuso durante il periodo di possesso; e/o in quanto cedute prima del compiersi del periodo minimo di possesso;

l’attività di trading su titoli azionari era stata posta in essere dalla società solo a seguito della riforma della tassazione dei dividendi di cui al D.Lgs. 12 dicembre 2003, n. 344, mentre negli esercizi successi al 2005 la stessa attività era stata abbandonata, in quanto non era stata ritenuta conveniente alla luce della nuova normativa fiscale introdotta dal D.L. 30 settembre 2005, n. 203, art. 5-quinquies, comma 1, convertito, con modificazioni, dalla L. 2 dicembre 2005, n. 248, che ha inserito nel D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, i commi 3-bis, 3-ter e 3-quater, che escludono la deducibilità delle minusvalenze, realizzate sulla cessione di partecipazioni non sottoposte al regime p.e.x., sino alla concorrenza della quota non imponibile dei dividendi percepiti nei trentasei mesi precedenti il realizzo, sempre che si tratti di azioni che siano state anche acquisite nei trentasei mesi precedenti il realizzo.

Così dispone infatti del D.P.R. n. 917, l’art. 109, ai commi 3-bis, 3-ter e 3-quater, all’esito di tale novella:

“3-bis. Le minusvalenze realizzate ai sensi dell’art. 101 sulle azioni, quote e strumenti finanziari similari alle azioni che non possiedono i requisiti di cui all’art. 87 non rilevano fino a concorrenza dell’importo non imponibile dei dividendi, ovvero dei loro acconti, percepiti nei trentasei mesi precedenti il realizzo. Tale disposizione si applica anche alle differenze negative tra i ricavi dei beni di cui all’art. 85, comma 1, lett. c) e d), e i relativi costi.

3-ter. Le disposizioni del comma 3-bis si applicano con riferimento alle azioni, quote e strumenti finanziari similari alle azioni acquisite nei trentasei mesi precedenti il realizzo, sempre che soddisfino i requisiti per l’esenzione di cui all’art. 87, comma 1, lett. c) e d).

3-quater. Resta ferma l’applicazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37-bis anche con riferimento ai differenziali negativi di natura finanziaria derivanti da operazioni iniziate nel periodo d’imposta o in quello precedente sulle azioni, quote e strumenti finanziari similari alle azioni di cui al comma 3-bis”.

1.2. Quanto all’anno d’imposta 2005, relativamente all’illegittima detrazione dell’Iva, l’Ufficio rilevò che la contribuente Fi.Bi. s.r.l. e la Nuova Beton s.r.l., facenti entrambe capo alla persona di B.L. (unico socio della Fi.Bi. s.r.l. e socio al 40% della Nuova Beton s.r.l., il cui 60% apparteneva alla stessa Fi.Bi. s.r.l., con il conseguente effettivo controllo totale da parte del B.) avevano stipulato in pari data due contratti per la realizzazione, su aree edificabili della Nuova beton s.r.l., di dodici unità abitative.

L’affare, secondo l’Ufficio, mascherava operazioni parzialmente inesistenti, attesa l’identità dell’oggetto dei due contratti, speculare e sovrapponibile: la Nuova Beton s.r.l., proprietaria delle aree edificabili, con un contratto di appalto aveva affidato alla Fi.Bi. s.r.l. la costruzione degli immobili e la direzione dei lavori, per un valore totale di Euro 800.000,00; con un secondo contratto, stipulato nella stessa data, la stessa Fi.Bi. s.r.l. aveva appaltato a sua volta alla Nuova Beton s.r.l., per il corrispettivo di Euro 750.000,00, la sola costruzione degli immobili.

L’ufficio ha ritenuto che le fatturazioni sottese a tali operazioni fossero da ritenersi parzialmente oggettivamente inesistenti, salva l’unica prestazione effettivamente resa dalla Fi. Bi. s.r.l. alla Nuova Beton s.r.l., ovvero la mera direzione dei lavori, il cui corrispettivo andava quantificato nel valore differenziale dei due contratti, pari a Euro 50.000,00.

Pertanto, l’Amministrazione ha recuperato l’Iva indebitamente detratta dalla Fi. Bi. s.r.l. sulla base della fattura n. (OMISSIS) del 31 agosto 2005 della Nuova Beton s.r.l., ritenendo che tale fatturazione fosse relativa a operazioni oggettivamente inesistenti.

1.3. Quanto all’anno d’imposta 2006, relativamente all’Ires ed all’Irap, l’Amministrazione accertò che in data 31 gennaio 2006 la Fi.Bi. s.r.l. aveva acquistato dall’unico socio, B.L., due unità immobiliari, al prezzo di Euro 3.000.000,00, ritenuto dall’Ufficio abnorme, considerando i valori dell’Osservatorio del Mercato Immobiliare (o.m.i.) della Camera di Commercio e dell’Agenzia del Territorio ed i chiarimenti forniti dalla contribuente acquirente, secondo cui il prezzo rifletteva il particolare pregio dei beni.

L’Agenzia ritenne quindi che l’abnormità del prezzo, manifestamente antieconomico, rivelasse che in realtà la s.r.l. aveva distribuito utili al socio B., mascherandoli da corrispettivi di cessione dell’immobile, così consentendo allo stesso socio di evitare la tassazione dei dividendi ed alla società di dedurre maggiori ammortamenti relativi agli immobili, pagando pertanto minori imposte.

1.4. Quanto all’anno d’imposta 2006, relativamente all’Iva, l’Amministrazione accertò poi l’illegittima detrazione di fatture relative ad operazioni oggettivamente inesistenti, sempre in relazione ai due contratti intercorsi tra Fi.Bi. s.r.l. e Nuova Bton s.r.l., di cui al punto 1.2 che precede.

  1. L’Agenzia delle entrate emise inoltre un avviso di accertamento a carico di B.L., per l’anno d’imposta 2006, accertando, ai fini Irpef, redditi di capitale non dichiarati, che derivavano dall’accertamento emesso nei confronti della Fi.Bi. s.r.l., per lo stesso anno d’imposta, di cui al punto 1.3. che precede, II sulla base della presunzione di distribuzione di utili occulti relativi alle società a ristretta base sociale.

Il B., socio unico della s.r.l. acquirente gli immobili in questione, nonchè venditore in proprio di questi ultimi, secondo l’Ufficio aveva ricevuto la distribuzione di utili occulti, mascherati dal corrispettivo abnorme ricevuto per la vendita dei predetti beni, con il vantaggio di non subire la tassazione dei dividendi mascherati.

  1. L’Agenzia delle entrate emise inoltre due avvisi di accertamento a carico della Nuova Beton s.r.l.:

a) per l’anno d’imposta 2005, ai fini Ires e Irap, per un maggior valore delle rimanenze di Euro 9.837,00; ai fini Iva per l’illegittima detrazione di Euro 45.000,00, relativa ad operazioni parzialmente inesistenti;

b) per l’anno d’imposta 2006, ai fini Iva un’illegittima detrazione di Euro 97.500,00, in quanto relativa ad operazioni parzialmente inesistenti.

Per quanto qui in contestazione, ovvero relativamente all’illegittima detrazione dell’Iva contestata per i due anni d’imposta, gli accertamenti trovavano corrispondenza nella parziale inesistenza oggettiva delle prestazioni di cui ai due contratti con la Fi.Bi s.r.l. di cui ai punti 1.2 ed 1.4 che precedono.

L’Ufficio ritenne quindi che le operazioni fatturate dalla Fi.Bi s.r.l. alla Nuova Beton s.r.l. fossero parzialmente inesistenti e, conseguentemente, ha accertato che l’unica prestazione effettivamente resa dalla prima alla seconda fosse riconducibile alla direzione dei lavori, per un valore di Euro 50.000,00, pari alla differenza di importo dei due contratti.

Pertanto, l’accertamento negò alla Nuova Beton s.r.l. la detrazione dell’Iva di cui alle predette fatture.

4.Ognuno dei contribuenti destinatari degli accertamenti propose distinto ricorso che l’adita Commissione tributaria provinciale di Cagliari, dopo averli riuniti, rigettò.

  1. Proposto dai contribuenti soccombenti in primo grado appello congiunto, la Commissione tributaria regionale della Sardegna lo ha rigettato con la sentenza di cui all’epigrafe, avverso cui Fi.Bi. s.r.l., Nuova Beton s.r.l. e B.L. hanno proposto un unitario ricorso per Cassazione, affidato a sette motivi.

L’Amministrazione si è costituita con controricorso.

Motivi della decisione
1.Con il primo motivo (denominato nel ricorso A)1.) la ricorrente Fi.Bi s.r.l., con riferimento all’avviso di accertamento con il quale l’Ufficio ha recuperato a tassazione le minusvalenze dedotte per il periodo di imposta 2005, deduce “Cassazione della sentenza impugnata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, per violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36 e art. 112 c.p.c. in relazione al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis: la sentenza impugnata ha omesso di pronunciarsi sul motivo di illegittimità dell’avviso di accertamento per assenza di “specifica motivazione a pena di nullità” in relazione “alle giustificazioni fornite dal contribuente””.

Assume in sintesi la contribuente che “la sentenza della CTR quivi impugnata ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 viola e realizza una falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36 e art. 112 c.p.c. in relazione al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis perchè ha omesso di pronunciarsi sulla richiesta di riforma della sentenza della CTP quanto al motivo di illegittimità dell’avviso di accertamento n. (OMISSIS) notificato a FiBi per violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis non avendo l’Ufficio, dopo aver formulato una richiesta di chiarimenti alla Ricorrente e ricevuto apposita memoria giustificativa, motivato specificamente l’avviso di accertamento con riferimento alle giustificazioni rappresentate dalla Ricorrente”.

Il motivo è infondato.

Infatti la sentenza impugnata, a pag. 4, nella parte propriamente motiva, dichiara espressamente infondate le censure mosse alla sentenza appellata “per quanto attiene ai motivi sopra sintetizzati ai punti da A1 ad A4”.

Nella precedente parte, relativa allo svolgimento del processo, alla pag. 3, elencando i motivi d’appello in questione, al punto A1), la stessa sentenza d’appello descrive la censura in questione, riferendosi preliminarmente ed espressamente al “difetto di motivazione in relazione ai chiarimenti forniti dalla società”.

Pertanto il motivo d’appello è stato oggetto di espresso rigetto da parte della CTR. Giova peraltro aggiungere che, in ogni caso, la conferma dell’atto impositivo per ragioni attinenti al merito della pretesa erariale, presupponendo necessariamente la validità formale dello stesso accertamento, e quindi l’esclusione della sua nullità per vizi della sua motivazione, avrebbe comunque comportato il rigetto, necessariamente implicito, della censura in questione. Infatti non ricorre il vizio di omessa pronuncia quando la decisione adottata comporti una statuizione implicita di rigetto della domanda o eccezione formulata dalla parte (ex multis Cass. 13/08/2018, n. 20718).

2.Con il secondo motivo (denominato nel ricorso A)2.) la ricorrente Fi.Bi s.r.l., con riferimento all’avviso di accertamento con il quale l’Ufficio ha recuperato a tassazione le minusvalenze dedotte per il periodo di imposta 2005, deduce ” Cassazione della sentenza impugnata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, per violazione e/o falsa applicazione dell’art. 109, comma 3 bis, TUIR in relazione al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis ed alla L. n. 212 del 2000, art. 10: la deduzione delle minusvalenze è (ratione temporis) pienamente legittima”.

Assume in sintesi la contribuente che “la sentenza della CTR quivi impugnata ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 viola e realizza una falsa applicazione dell’art. 109, comma 3 bis, TUIR in relazione al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis ed in relazione alla L. n. 212 del 2000, art. 10 (i) perchè ha ritenuto che la definizione di cui all’art. 109, comma 3 bis, TUIR (deduzione minusvalenze – detassazione parziale dividendi) possa qualificare come dividend washing le operazioni poste in essere nel periodo di imposta 2005 laddove, viceversa, tale disposizione, essendo stata introdotta a decorrere dal periodo di imposta 2006, non può trovare applicazione retroattiva, (ii) perchè, viceversa, le operazioni elusive di dividend washing, sottese al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis secondo giurisprudenza/dottrina/prassi ministeriale, erano quelle in cui sussisteva un arbitraggio fiscale con l’originario cedente (detassazione plusvalenza da parte del cedente; deduzione minusvalenze-detassazione parziale dividendi da parte del cessionario), (iii) perchè nella fattispecie non ricorrono per definizione le condizioni previste dalla giurisprudenza/dottrina/prassi ministeriale ratione temporis per qualificare come operazioni elusive di dividend washing il trading su titoli operato (incarico conferito ad intermediario finanziario istituzionale che ha acquistato-venduto i titoli, detenuti dal 1999, allo scoperto sul mercato regolamentato con altri intermediari finanziari istituzionali)”.

3.Con il terzo motivo (denominato nel ricorso A)3.) la ricorrente Fi.Bi s.r.l., sempre con riferimento all’avviso di accertamento con il quale l’Ufficio ha recuperato a tassazione le minusvalenze dedotte per il periodo di imposta 2005, deduce “Cassazione della sentenza impugnata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, per violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis in relazione agli artt. 87 e 101 TUIR (ratione temporis): la deduzione delle minusvalenze è (ratione temporis) pienamente legittima anche in presenza di dividendi parzialmente detassati”.

Assume in sintesi la contribuente che “la sentenza della CTR quivi impugnata ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 viola e realizza una falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis in relazione agli artt. 86-101 TUIR ratione temporis (i) perchè gli artt. 86-101 TUIR consentivano la piena deduzione delle minusvalenze anche se relative a titoli da cui erano derivati dividendi parzialmente detassati e non sussiste pertanto elusione nè abuso, (ii) perchè la deduzione delle minusvalenze (nel 2005) esprime un principio di simmetria fiscale con la tassazione delle plusvalenze sui medesimi titoli (maturate nel corso degli anni in cui tali titoli sono stati detenuti) e la detassazione parziale del dividendo evita la doppia imposizione economica e non sussiste pertanto un vantaggio fiscale tantomeno indebito, e (iii) perchè la cessione dei titoli nel 2005 è stata operata per evitare una perdita economica conseguente alla riduzione del loro valore ed a causa della cessazione dell’attività di trading nell’anno successivo e sussistono pertanto valide ragioni economiche”.

4.Con il quarto motivo (denominato nel ricorso A)4.) la ricorrente Fi.Bi s.r.l., sempre con riferimento all’avviso di accertamento con il quale l’Ufficio ha recuperato a tassazione le minusvalenze dedotte per il periodo di imposta 2005, deduce “Cassazione della sentenza impugnata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, per violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis: la Ricorrente deteneva i titoli nel portafoglio sin dal 1999 e, pertanto, il trading su titoli è stato operato con finalità di investimento e non con finalità elusive”.

Assume in sintesi la contribuente che ” la sentenza della CTR quivi impugnata ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 viola e realizza una falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis perchè ha ritenuto che il trading su titoli sarebbe stato operato con finalità elusiva nell’arco di pochi mesi laddove, viceversa, proprio la circostanza confermata dalla CTR che la Ricorrente deteneva i titoli nel portafoglio sin da anni prima (avendoli iscritti in bilancio sin dal 1999) dimostra che la Ricorrente aveva investito su quei titoli e che il trading su titoli era operato con finalità di investimento e non con finalità elusiva”.

4.1. Per la loro connessione, il secondo, il terzo ed il quarto motivo vanno trattati congiuntamente.

E’ innanzitutto infondata la censura (collocata all’interno del secondo motivo) che attribuisce alla CTR l’errore di aver applicato retroattivamente, ovvero ad operazioni di negoziazione di titoli avvenute nell’anno d’imposta 2005, il D.L. n. 203 del 2005, art. 5-quinquies, comma 1, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 248 del 2005, che ha inserito nel D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, i commi 3-bis, 3-ter e 3-quater, i quali, come dispone espressamente del D.L. n. 203 del 2005, stesso art. 5-quinquies, il comma 2 si applicano invece alle minusvalenze realizzate a decorrere dall’1 gennaio 2006.

Invero la CTR, che a pag. 5 ss. tratta espressamente della norma in questione, muove proprio dal presupposto che essa non si applichi alle minusvalenze relative a cessioni effettuate prima dell’1 gennaio 2006, tanto che si pone nella prospettiva della riconducibilità delle medesime operazioni ad altri parametri normativi e comunque a fattispecie generali e più ampie, affermando che “occorre ora verificare se, nel caso in esame si sia in presenza di una condotta che, tenuto conto del suo verificarsi in epoca antecedente all’entrata in vigore della norma antielusiva specifica prevista dall’art. 109 TUIR”, “integri un’ipotesi di elusione fiscale in virtù della clausola generale di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis o del più generale principio dell’abuso del diritto di matrice comunitaria/costituzionale sopra richiamato” (così la sentenza impugnata, pag. 11; cfr. altresì l’ultimo periodo di pag. 6, ed in particolare il punto 2) della nota 1, con riferimento esplicito all’applicabilità della clausola antielusiva generale di cui all’art. 37-bis alle minusvalenze derivanti da cessioni effettuate prima dell’1 gennaio 2006).

Tale impostazione risulta coerente del resto con il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, stesso nuovo comma 3-quater che contiene l’inciso “resta ferma l’applicazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37-bis”, confortando pertanto la tesi della CTR (e dell’Agenzia, come da circolare n. 21/E del 14 giugno 2006) secondo cui la clausola antielusiva generale di cui all’art. 37-bis può trovare applicazione, sempre che ovviamente ne ricorrano i presupposti, con riguardo ai casi in cui, pur non essendo applicabile la norma specifica sul dividend washing (come ne caso di minusvalenze relative a cessioni effettuate prima dell’1 gennaio 2006), la complessiva operazione, relativa alla cessione di partecipazioni “utili compresi”, sia comunque da considerarsi elusiva.

4.2. L’esistenza, nel nostro ordinamento, di un principio tendenziale desumibile dalle fonti comunitarie, dal concetto di abuso del diritto elaborato dalla giurisprudenza comunitaria (Cass. 21/10/2005, n. 20398; Cass. 14/11/2005, n. 22932) e dall’art. 53 Cost. (Cass., Sez. Un., 23/12/2008, n. 30057) – secondo cui non possono trarsi benefici da operazioni intraprese ed eseguite al solo scopo di procurarsi un risparmio fiscale, è stata affermata dalla giurisprudenza già con riferimento alla disciplina anteriore all’entrata in vigore del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 37-bis introdotto dal D.Lgs. 8 ottobre 1997, n. 358, art. 7.

Una volta codificato, il D.P.R. n. 600 del 1973, stesso art. 37-bis ora sostituito dalla L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 10-bis non contiene un’elencazione tassativa delle fattispecie abusive, ma costituisce una norma aperta, la quale trova applicazione, alla stregua del generale principio antielusivo rinvenibile nella Costituzione e nelle indicazioni della raccomandazione n. 2012/772/UE, in presenza di una o più costruzioni di puro artificio che, realizzate al fine di eludere l’imposizione, siano prive di sostanza commerciale ed economica, ma produttive di vantaggi fiscali (Cass. 02/02/2021, n. 2224).

Pertanto, per questa Corte (Cass. 02/02/2021, n. 2224, cit., in motivazione), in materia tributaria, il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo – rinvenibile negli stessi principi costituzionali che informano l’ordinamento tributario italiano oltre che nei principi comunitari (Cass., 19 febbraio 2014, n. 3938; Cass., 5155/2016) – che preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione normativa, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio d’imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, la cui ricorrenza deve essere provata dal contribuente (Cass., 5 dicembre 2019, n. 31772; Cass., 6 giugno 2019, n. 15321; Cass., 23 novembre 2018, n. 30404; Cass., 7 novembre 2012, n. 19234).

E’ allora infondata (salvo quanto però si dirà infra al punto 4.5.) la censura della ricorrente nella parte in cui, presupponendo una tipizzazione che non sussiste, assume che, prima della vigenza del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, nuovo comma 3-bis e nel vigore del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis la fattispecie elusiva in materia di minusvalenze derivanti dalla cessione di partecipazioni sarebbe stata necessariamente limitata alle ipotesi (di cui a Cass., Sez. Un., 23/12/2008, n. 30055 e n. 30056) di un arbitraggio più ampio, in cui le partecipazioni in questione provenissero da un dante causa che avesse, a sua volta, goduto del regime di detassazione delle plusvalenze. Infatti, proprio per la natura generale ed atipica della clausola di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis la ricorrenza degli elementi costitutivi di una fattispecie abusiva potrebbe in ipotesi ravvisarsi anche al di fuori di quelle contraddistinte dalla compartecipazione necessaria del cedente nel disegno elusivo.

Per le medesime ragioni è quindi infondata altresì la pretesa della ricorrente di rivendicare un preteso affidamento sulla legittimità delle operazioni in questione, nel senso di escluderne a priori la natura in concreto eventualmente elusiva, tanto più ove l’affidamento si voglia fondato, nel 2005, su pronunce di legittimità sopravvenute solo nel 2008 e su documenti di prassi non strettamente pertinenti la fattispecie in esame, posto che la circolare n. 87/E del 2002 recepiva orientamenti giurisprudenziali già superati, nell’anno d’imposta in questione, dalla citata giurisprudenza in tema di rilevanza nell’ordinamento di un generale principio antielusivo (Cass. 21/10/2005, n. 20398, cit.; Cass. 14/11/2005, n. 22932, cit.) e la risoluzione n. 146/E del 2002 riguardava specificamente l’ipotesi della svalutazione di partecipazioni ai sensi dell’art. 61, comma 3, t.u.i.r..

4.3. E’ quindi necessario verificare se la fattispecie sub iudice possa integrare in concreto, come assunto dalla CTR e contestato dalla ricorrente, un abuso del diritto ai sensi della clausola, generale ed atipica nel senso già chiarito, di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis.

In materia questa Corte (Cass. 16/03/2016, n. 5155, in motivazione) ha già avuto modo di precisare che integra gli estremi del comportamento abusivo quell’operazione economica che – tenuto conto sia della volontà delle parti implicate, sia del contesto fattuale e giuridico – ponga quale elemento predominante e assorbente della transazione lo scopo di ottenere vantaggi fiscali, con la conseguenza che il divieto di comportamenti abusivi non vale se quelle operazioni possano spiegarsi altrimenti che con il mero conseguimento di risparmi d’imposta (Cass. 10/12/2014, n. 25972, in motivazione, punto.9.1). La prova sia del disegno elusivo sia delle modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi negoziali classici, considerati come irragionevoli in una normale logica di mercato (Cass. 21/01/2009, n. 1465) e perseguiti solo per pervenire a quel risultato fiscale, incombe sull’Amministrazione finanziaria, mentre grava sul contribuente l’onere di allegare l’esistenza di ragioni economiche alternative o concorrenti che giustifichino operazioni in quel modo strutturate.

Inoltre non è configurabile l’abuso del diritto se non sia stato provato dall’ufficio il vantaggio fiscale che sarebbe derivato al contribuente accertato dalla manipolazione degli schemi contrattuali classici (Cass. 22/09/2010, n. 20029). Pertanto, “il carattere abusivo, sotto il profilo fiscale, di una determinata operazione, nel fondarsi normativamente sul difetto di valide ragioni economiche e sul conseguimento di un indebito vantaggio fiscale (Cass., sez. un., 30055/08 e 30057/08; v. C. giust. UE nei casi 3M Italia, Halifax, Part Service), presuppone quanto meno l’esistenza di un adeguato strumento giuridico che, pur se alternativo a quello scelto dai contraenti, sia comunque funzionale al raggiungimento dell’obiettivo economico perseguito (Cass. 21390/12, p.3.2) e si deve indagare se vi sia reale fungibilità con le soluzioni eventualmente prospettate dal fisco (Cass. 4604/14)” (Cass. n. 5155/2016, cit., in motivazione).

La stessa Commissione Europea, nell’ottica di perseguire la pianificazione fiscale aggressiva, ha diramato agli Stati membri la raccomandazione 2012/772/UE di intervenire quando sia realizzata “una costruzione di puro artificio o una serie artificiosa di costruzioni che sia stata posta in essere essenzialmente allo scopo di eludere l’imposizione e che comporti un vantaggio fiscale”, chiarendo che “una costruzione o una serie di costruzioni è artificiosa se manca di sostanza commerciale”, ovvero di “sostanza economica”, e “consiste nell’eludere l’imposizione quando, a prescindere da eventuali intenzioni personali, contrasta con l’Obiettivo, lo spirito e la finalità delle disposizioni fiscali”, mentre “una data finalità deve essere considerata fondamentale se qualsiasi altra finalità che è o potrebbe essere attribuita alla costruzione o alla serie di costruzioni sembri per lo più irrilevante alla luce di tutte le circostanze del caso” (cfr. Cass. n. 5155/2016, cit.; Cass. 14/01/2015, n. 438 e n. 439, tutte in motivazione).

Il legislatore nazionale, con la L. 11 marzo 2014, n. 23, art. 5 ha raccolto la citata raccomandazione dell’UE, delegando al Governo l’attuazione della revisione delle vigenti disposizioni antielusive, al fine di unificarle al principio generale del divieto dell’abuso del diritto, ed i relativi principi sono stati quindi attuati con la L. 27 dicembre 2000, n. 212, art. 10-bis (c.d. Statuto del contribuente), introdotto dal D.Lgs. 5 agosto 2015, n. 128, art. 1 modificato dal D.Lgs. 24 settembre 2015, n. 156.

Lo stesso D.Lgs. n. 128 del 2015, all’art. 1, comma 2, ha abrogato del D.P.R. n. 600 del 1973, l’art. 37-bis prevedendo che le disposizioni che lo richiamano si intendono riferite alla L. 27 luglio 2000, n. 212, art. 10-bis in quanto compatibili.

Le predette disposizioni della L. n. 212 del 2000, art. 10-bis sebbene non applicabili, ratione temporis, al caso di specie, in ragione della pregressa notifica dell’atto impositivo de quo (D.Lgs. n. 128 del 2015, art. 1, comma 5), sono tuttavia significative dell’affinamento dei principi comunitari e nazionali in materia e “rilevano in chiave interpretativa nel definire una linea evolutiva già indiscutibilmente tracciata nell’ordinamento tributario dalla giurisprudenza e dalle fonti nazionali e comunitarie (per un recente disamina v. Cass. pen. 40272/15)” (Cass., n. 5155/2016, cit., in motivazione).

In tale contesto evolutivo, si colloca la giurisprudenza, in materia, di questa Corte, che ha già avuto occasione di chiarire che, in materia tributaria, la scelta di un’operazione fiscalmente più vantaggiosa non è sufficiente ad integrare una condotta elusiva, laddove sia lo stesso ordinamento tributario a prevedere tale facoltà, a condizione che non si traduca in uso distorto dello strumento negoziale o in un comportamento anomalo rispetto alle ordinarie logiche d’impresa, posto in essere per realizzare non la causa concreta del negozio, ma esclusivamente o essenzialmente il beneficio fiscale (Cass. 26/08/2015, n. 17175).

Nello stesso senso, si è altresì ritenuto (Cass. 14/01/2015, n. 405) che in materia tributaria, l’opzione del soggetto passivo per l’operazione negoziale fiscalmente meno gravosa non è sufficiente ad integrare una condotta elusiva, essendo necessario che il conseguimento di un “indebito” vantaggio fiscale, contrario allo scopo delle norme tributarie, costituisca la causa concreta della fattispecie negoziale.

E’ stato quindi escluso che la mera astratta configurabilità di un vantaggio fiscale sia sufficiente ad integrare la fattispecie abusiva, poichè è richiesta la concomitante condizione di inesistenza di ragioni economiche diverse dal semplice risparmio di imposta e l’accertamento della effettiva volontà dei contraenti di conseguire un indebito vantaggio fiscale (Cass. 05/12/2014, n. 25758).

E’ stato quindi ritenuto necessario, per l’inopponibilità al fisco dell’operazione, che essa abbia quale suo elemento predominante ed assorbente lo scopo di eludere il fisco, ossia che non abbia una giustificazione economica apprezzabile differente dall’intento di conseguire un risparmio di imposta (Cass. 16/01/2019, n. 869).

Inoltre, è stato ritenuto che costituisce condotta abusiva l’operazione economica che abbia quale suo elemento predominante ed assorbente lo scopo di eludere il fisco, sicchè il divieto di siffatte operazioni non opera qualora esse possano spiegarsi altrimenti che con il mero intento di conseguire un risparmio di imposta, fermo restando che incombe, sull’Amministrazione finanziaria la prova sia del disegno elusivo che delle modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi negoziali classici, considerati come irragionevoli in una normale logica di mercato e perseguiti solo per pervenire a quel risultato fiscale (Cass. 26/02/2014, n. 4603. Nello stesso senso Cass. 16/01/2019, nn. 868 ed 869). Inoltre, successivamente, il quadro dell’abuso di diritto e dell’elusione fiscale è stato sinteticamente composto con l’affermazione che: “In materia tributaria, il divieto di abuso del diritto si traduce in un principio generale antielusivo, che preclude al contribuente il conseguimento di vantaggi fiscali ottenuti mediante l’uso distorto, pur se non contrastante con alcuna specifica disposizione normativa, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio d’imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili che giustifichino l’operazione, la cui ricorrenza deve essere provata dal contribuente” (Cass. 23/11/2018, n. 30404; conforme Cass. 08/03/2019, n. 6836).

Tanto premesso, incombeva quindi sull’amministrazione finanziaria l’onere di spiegare, anche nell’atto impositivo, e dimostrare che il complesso delle forme giuridiche impiegate avesse carattere anomalo o inadeguato rispetto all’operazione economica intrapresa, in considerazione delle modalità di manipolazione e di alterazione degli schemi negoziali, considerati come irragionevoli in una normale logica di mercato e perseguiti solo per pervenire ad un determinato risultato fiscale; mentre era onere del contribuente provare la compresenza di un concomitante contenuto economico dell’operazione, non marginale, diverso dal mero risparmio fiscale, che giustificasse le operazioni in tal modo strutturate (cfr. Cass. 22/06/2021, n. 17743).

Come questa Corte ha già rilevato, l’applicazione di tale principio deve essere guidata da una particolare cautela, “essendo necessario trovare una giusta linea di confine tra pianificazione fiscale eccessivamente aggressiva e libertà di scelta delle forme giuridiche, soprattutto quando si tratta di attività d’impresa”, anche in considerazione ” dei principi di libertà d’impresa e di iniziativa economica (art. 42 Cost.)” e del ” principio di proporzionalità (sentenza della Corte di Giustizia 17 luglio 1997 in causa C – 28/ 95, A. Leur Bloem)”, non potendo il sindacato dell’Amministrazione spingersi sino ad imporre una misura di ristrutturazione diversa tra quelle giuridicamente possibili, solo perchè tale misura avrebbe comportato un maggior carico fiscale (Cass. 21/01/2011, n. 1372) Infatti, “Come più volte ribadito dalla giurisprudenza comunitaria e di legittimità la opzione del soggetto passivo per la operazione negoziale che risulti fiscalmente meno gravosa non costituisce ex se condotta “contraria” allo scopo della disciplina normativa tributaria, laddove sia lo stesso ordinamento tributario a prevedere tale facoltà di scelta (cfr. Corte di Giustizia, sentenza Halifax, punto 73, cit., la 6 direttiva in materia di IVA consente all’imprenditore la scelta tra operazioni esenti ed operazioni soggette ad imposta e pertanto non impone a tale soggetto “di scegliere quella che implica un maggior pagamento IVA. Al contrario…Al soggetto passivo ha diritto di scegliere la forma di conduzione degli affari che gli permette di limitare la sua contribuzione fiscale”; conf. Corte di Giustizia, sentenza Part Service s.r.l., cit.., punto 47. La legittimità dell’opzione fiscale più favorevole da parte del soggetto contribuente trova conferma anche nella giurisprudenza di questa Corte: Corte cass. 5 sez. 29.9.2006 n. 21221; id. 5 sez. 12.5.2011 n. 10383, secondo cui non può mai integrare abuso del diritto la scelta dell’imprenditore di istallare stabilimenti industriali – costituendosi in forma societaria – nei territori del Mezzogiorno, così da fruire delle previste agevolazioni fiscali, atteso che “i detti risparmi fiscali….rappresentano la contropartita fissata dallo stesso legislatore ad incentivazione di tale costituzione e non una finalità antigiuridica”). Esercitata tale facoltà di scelta l’operatore rimane soggetto al regime fiscale previsto in relazione ai presupposti impositivi od agevolativi considerati dalla norma tributaria che regola la operazione compiuta, non essendo invece consentito all’operatore economico conseguire i benefici fiscali, attribuiti in relazione alla effettuazione di una determinata operazione giuridico-economica, utilizzando strumenti negoziali diversi per i quali l’ordinamento tributario prevede un regime fiscale differente, anche se – in ipotesi – in entrambi i casi le operazioni realizzate pervengano allo stesso risultato economico finale(…)” (Cass. 26/08/2015, n. 17175, cit.).

4.4. L’operazione ritenuta dall’Amministrazione abusiva e da vagliare alla stregua dei criteri esposti nel punto che precede ha le seguenti caratteristiche. Il D.P.R. n. 917 del 1986, art. 89, comma 2, prevede che i dividendi percepiti da soggetti Ires siano esclusi, dal reddito dell’esercizio in cui sono percepiti, per il 95% del loro ammontare.

Tale esclusione dal reddito, a differenza dell’esenzione delle plusvalenze, non è condizionata ad alcun requisito e quindi si applica alla generalità delle partecipazioni, anche a quelle che non possiedono i requisiti p.e.x..

Il combinato disposto della disciplina dei dividendi e delle plusvalenze può prestarsi alla seguente vicenda:

  1. una società di capitali acquista una partecipazione in altra società di capitali con significativi utili pregressi accantonati a riserva, riconoscendo nel prezzo di acquisto anche il valore di detti utili;
  2. la società acquisita effettua poi una consistente distribuzione di dividendi, il cui incasso da parte della nuova società socia è tassato solo nei limiti del 5% D.P.R. n. 917 del 1986, ex art. 89, comma 2;
  3. la partecipazione nella società acquisita, svuotata del proprio valore tramite la distribuzione di dividendi, viene ceduta con realizzo di minusvalenze o differenze negative deducibili D.P.R. n. 917 del 1986, ex art. 89, comma 2.

Le minusvalenze derivano da un prezzo di vendita inferiore rispetto al costo di acquisto delle partecipazioni, in ragione della diminuzione patrimoniale intervenuta nella società partecipata per effetto della distribuzione dei dividendi che sono stati tassati solo per il 5% del loro ammontare.

In tal caso si sarebbe verificato in capo alla società socia un vantaggio fiscale, in quanto questa avrebbe ottenuto un utile escluso per il 95% e una minusvalenza che invece sarebbe stata interamente deducibile, sebbene essa fosse imputabile proprio dalla distribuzione dell’utile non tassato.

Nella fattispecie in concreto sub iudice, come emerge dalla motivazione della sentenza impugnata, l’acquisto e la successiva cessione delle partecipazioni, effettuati tramite intermediario finanziario sul mercato regolamentato, e la stessa classificazione delle partecipazioni acquistate nell’attivo circolante della contribuente, non sono considerate fittizie, anomale o inadeguate rispetto all’operazione economica di trading intrapresa, ed i relativi schemi negoziali non sono tacciati di manipolazione e di alterazione. La contribuente, nella sostanza, ha effettivamente acquisito le partecipazioni e le ha realmente possedute, fin quando non le ha, altrettanto effettivamente, alienate.

Non vi è quindi la contestazione che il passaggio dei titoli in questione nel patrimonio della contribuente sia avvenuto solo formalmente, deviando la funzionale negoziale tipica e concreta dei negozi con i quale sono stati acquistati e poi trasferiti. Tanto meno si deduce che si verta in un’ipotesi di “dividend washing”, che richiede una doppia cessione delle partecipazioni sociali, con la restituzione dei titoli al precedente cedente, mentre nel caso di specie le azioni sono state acquistate e poi vendute effettivamente dalla contribuente, che non si sostiene ne abbia acquisito e poi definitivamente perso la disponibilità (cfr. Cass., 06/11/2020, n. 24839, in motivazione).

Il vantaggio fiscale ascritto alla contribuente, con riferimento tanto ai dividendi distribuiti dalla società partecipata, quanto alla deducibilità delle plusvalenze, non può, di per sè solo, qualificarsi come indebito, atteso che deriva dalla disciplina legale (rispettivamente il D.P.R. n. 917 del 1986, artt. 89 ed 87) relativa a componenti reddituali non manipolati, la cui effettività giuridica ed economica non è messa in dubbio. E (come successivamente esplicitato anche dalla L. n. 212 del 2000, art. 10-bis, comma 4) il risparmio d’imposta è legittimo, se non realizzato in contrasto con le finalità delle norme fiscali o con i principi dell’ordinamento tributario.

La scelta dell’imprenditore di cedere le partecipazioni in questione, dopo averle effettivamente acquistate, e più in generale la scelta di iniziare e cessare l’attività di trading, costituiscono esercizio di libertà d’iniziativa economica e negoziale che non può essere, di per sè solo, sindacato dall’Amministrazione.

In particolare, la peculiarità del caso di specie neppure consente la prospettazione (che infatti non vi è stata) di mezzi alternativi (più diretti, logici e conformi a criteri di economicità) attraverso i quali raggiungere il medesimo risultato di dismettere i relativi investimenti. Nè, ovviamente, è ipotizzabile che la negazione della legittimità economica della scelta di cedere gli strumenti di partecipazione in questione, che nel caso di specie integra il fulcro della condotta elusiva contestata, possa avere come alternativa l’imposizione della necessaria prosecuzione dell’investimento.

4.5. L’elemento sintomatico della condotta abusiva è ravvisato, nella sostanza, dalla CTR nella “stretta concatenazione temporale fra le operazioni di acquisto e di rivendita”, in quanto “l’intera complessiva operazione di acquisto rivendita realizzata nel 2005 sia situabile “a cavallo” della percezione dei dividendi”, per cui “la distanza temporale fra la data di acquisto dei titoli, la percezione dei dividendi e la loro successiva rivendita, nella totalità dei casi avviene nell’arco di pochi mesi”.

Ferma restando l’insindacabilità in questa sede degli accertamenti in fatto operati dalla CTR, deve tuttavia rilevarsi che sul punto, come sostanzialmente censura la ricorrente, la sentenza impugnata erra innanzitutto in ordine al parametro normativo da applicare.

E’ invero errata, nella motivazione della sentenza impugnata (pag. 12), la delimitazione dell'” arco di pochi mesi” con riferimento al parametro normativo dei “dividendi, ovvero dei loro acconti, percepiti nei trentasei mesi precedenti il realizzo” delle minusvalenze, di cui al D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 3-bis definito “vigente normativa in materia di dividend washing”.

Si tratta, infatti, di una disposizione la cui applicabilità, ratione temporis, al caso di specie è stata esclusa, nella medesima motivazione, dalla stessa CTR, cosicchè il canone dei trentasei mesi non può costituire un parametro normativo indefettibile anche con riferimento a fattispecie pregresse, di pretesa natura elusiva e rilevanti in ipotesi ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis.

Inoltre, il contemporaneo riferimento della CTR ai “parametri applicativi del più generale principio dell’abuso del diritto”, appare anche contraddittorio, quando da un lato (evidentemente sul presupposto implicito della rilevanza comunque del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 3-ter) delimita un “periodo sospetto” coincidente con un range temporale che comprende nei trentasei mesi lo stesso acquisto delle partecipazioni (e non più solo la percezione dei relativi dividendi) poi cedute; dall’altro pare però considerare irrilevante la data di prima iscrizione dei titoli nel bilancio societario, che, quanto meno, non può essere logicamente antecedente al loro acquisto.

In realtà, a fronte della già ritenuta assenza degli elementi che possano configurare la fattispecie elusiva rilevante ai sensi al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis l’elemento (suggestivo, ma neppure lineare) della tempistica della cessione delle azioni, rispetto alla distribuzione dei dividendi, non può essere sufficiente, nel caso di specie, a denotare la natura abusiva della condotta in esame.

Invero, la motivazione resa dalla CTR, nel suo complesso (e con particolare riferimento all’aspetto cronologico), pur premettendo correttamente l’irretroattività e l’inapplicabilità al caso di specie del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, commi 3-bis, 3-ter e 3-quater, di fatto finisce per trasferirne la disciplina all’interno di quella, invece applicabile ratione temporis, di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37-bis.

Tale interpretazione non è però condivisibile.

Certamente la novella introdotta dal D.L. n. 203 del 2005, art. 5-quinquies, comma 1, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 248 del 2005, ha una ratio antielusiva, come risulta dalla relativa relazione illustrativa, peraltro anche trascritta in parte nella stessa sentenza impugnata. Tuttavia, una volta codificata, la relativa fattispecie astratta opera automaticamente, nel senso che, ove ne ricorrano tutti gli elementi costitutivi oggettivi, la minusvalenza non rileva fino a concorrenza dell’importo non imponibile dei dividendi percepiti nel predeterminato contesto temporale, sussistano o meno anche tutte le condizioni che (in base ai principi generali ed all’evoluzione giurisprudenziale già richiamati) rendono un risparmio d’imposta, altrimenti legittimo, abusivo ed inopponibile al fisco. Nella sostanza, quindi, l’effetto della novella in questione è stato quello di incidere direttamente sul possibile vantaggio fiscale in esame, restringendolo. Il fatto che lo stesso risultato fiscale favorevole sia stato successivamente limitato non rende tuttavia necessariamente abusivo il suo conseguimento in precedenza, se tale effetto, per le ragioni già esposte, non è stato raggiunto con una condotta che abbia le caratteristiche dell’abuso D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 37-bis.

Il secondo, il terzo ed il quarto motivo di ricorso vanno quindi accolti e la sentenza impugnata va cassata in parte qua, con conseguente accoglimento del ricorso introduttivo della contribuente, anch’esso in parte qua.

5.Con il quinto motivo (denominato nel ricorso B)1.) i ricorrenti Fi.Bi s.r.l. e B. censurano la sentenza impugnata con riferimento alla conferma dei rilievi con cui l’Ufficio ha accertato che l’abnorme corrispettivo, pagato dalla prima al secondo per l’acquisto di due unità immobiliari, celasse in realtà la distribuzione di utili occulti al socio e consentisse alla società di società di dedurre maggiori ammortamenti relativi agli immobili acquistati.

Denunciano i ricorrenti la “Cassazione della sentenza impugnata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, per violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39 e L. n. 88 del 2009, art. 24 in relazione all’art. 2697 c.c., L. n. 212 del 2000, art. 7, art. 115 c.p.c.: la sentenza impugnata ha erroneamente ritenuto che il valore OMI e l’esistenza di rapporti partecipativi rappresenterebbero presunzioni gravi precise e concordanti”.

Concludono, in sintesi, che “la sentenza della CTR quivi impugnata ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 viola e realizza una falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39 e L. n. 88 del 2009, art. 24 in relazione all’art. 2697 c.c., L. n. 212 del 2000, art. 7, art. 115 c.p.c. perchè ha ritenuto che sussisterebbero presunzioni gravi, precise e concordanti circa la sopravalutazione degli immobili sarebbe sopravalutato laddove, viceversa, tale presunzioni non sussistono perchè il valore OMI non è rilevante ai fini delle II.DD., non è rilevante allo stesso modo l’esistenza di rapporti partecipativi tra cedente ed acquirente ed infine perchè i Ricorrenti hanno dimostrato l’esistenza di valide ragioni (all. 5 in CTR) che la sentenza impugnata ha disatteso senza alcun riferimento nè spiegazione”.

Il motivo è infondato.

Sulla questione, questa Corte ha più volte affermato che in tema di accertamento dei redditi d’impresa, in seguito alla modifica del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39 ad opera della L. n. 88 del 2009, art. 24, comma 5, che, con effetto retroattivo, stante la sua finalità di adeguamento al diritto dell’Unione Europea, ha eliminato la presunzione legale relativa (introdotta dal D.L. 4 luglio 2006, n. 223, art. 35, comma 3, convertito, con modifiche, dalla L. 4 agosto 2006, n. 248) di corrispondenza del corrispettivo della cessione di beni immobili al valore normale degli stessi (così ripristinando il precedente quadro normativo in base al quale, in generale, l’esistenza di attività non dichiarate può essere desunta anche sulla base di presunzioni semplici, purchè queste siano gravi, precise e concordanti), l’accertamento di un maggior reddito derivante dalla predetta cessione di beni immobili non può essere fondato soltanto sulla sussistenza di uno scostamento tra il corrispettivo dichiarato nell’atto di compravendita ed il valore normale del bene quale risulta dalle quotazioni OMI, ma richiede la sussistenza di ulteriori elementi indiziari gravi, precisi e concordanti (cfr., ex plurimis, Cass. 12/04/2017, n. 9474; Cass. 21/12/2016, n. 26487; Cass. 18/11/2016, n. 23485; Cass. 12/11/2014, n. 24054; Cass. 11/05/2018, n. 11439, in materia d’imposta di registro; Cass. 25/1/2019, n. 2155; Cass. 19/09/2019, n. 23379, in materia d’imposta sul valore aggiunto); “sicchè la prova dell’esistenza di attività non dichiarate, derivanti da cessioni di immobili, può essere desunta anche sulla base di presunzioni semplici, purchè gravi, precise e concordanti (Cass. 20429/2014; 9474/2017; 11439/2018), secondo ordinari criteri di accertamento analitico/induttivo (39 TUIR), laddove vi sia stata verifica fiscale (art. 54, comma 2, decreto IVA)” (Cass. 04/04/2019, n. 9453, in motivazione).

Pertanto, “In tema di accertamento induttivo, il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 3, come modificati dalla L. n. 88 del 2009, art. 24 hanno effetto retroattivo, in considerazione della finalità della citata L. n. 88 di adeguare l’ordinamento interno a quello comunitario, sicchè, venuta meno “ex tunc” la presunzione legale relativa di corrispondenza del corrispettivo effettivo al valore normale del bene, introdotta nei menzionati dal D.L. n. 223 del 2006, artt. 39 e 54 conv., con modif., dalla L. n. 248 del 2006, la prova dell’esistenza di attività non dichiarate può essere desunta anche sulla base di presunzioni semplici, purchè gravi, precise e concordanti. (ex plurimis Cass. 18/11/2016, n. 23485 del 18/11/2016, cit.; cfr. altresì Cass. 09/06/2017, n. 14388).

Gli elementi assunti a fonte di presunzione, peraltro, non devono essere necessariamente plurimi, potendosi il convincimento del giudice fondare anche su di un elemento unico, purchè preciso e grave, la cui valutazione non è sindacabile in sede di legittimità se adeguatamente motivata” (Cass. 30/10/2018, n. 27552, in motivazione).

Nel caso di specie, la CTR ha fatto riferimento, oltre che ai valori o.m.i., alle caratteristiche dei beni alienati ed alla circostanza che, nella sostanza, i centri d’interesse intervenuti nella contrattazione, ovvero la s.r.l. ed il socio unico della stessa, coincidessero.

Le pretese peculiari caratteristiche di pregio degli immobili sono state contestate ab origine dallo stesso atto impositivo, fondato proprio sull’abnormità del corrispettivo rispetto ai beni alienati, e sono state comunque ritenute non provate dalla CTR. La quale non ha, come pretenderebbero i ricorrenti, trasferito ai contribuenti l’onere della prova dell’incongruenza del prezzo concordato, ma, preso atto della prova indiziaria offerta dall’Amministrazione tramite il riferimento ai valori o.m.i. ed alla sostanziale coincidenza (sotto il profilo degli interessi) delle parti contrattuali, ha ritenuto che non fossero stati provati dagli interessati fatti dedotti a discarico.

Si tratta quindi di valutazioni di merito del giudice a quo, non sindacabili in questa sede di legittimità (cfr. ex plurimis Cass. 23/10/2018, n. 26769, a proposito della pretesa violazione dell’art. 2697 c.c.; Cass. 13/02/2020, n. 3541 e Cass. 17/01/2019, n. 1234, sui limiti di consumabilità del ragionamento inferenziale).

6.Con il sesto motivo (denominato nel ricorso 13)2.) i ricorrenti Fi.Bi s.r.l. e B. censurano la sentenza impugnata con riferimento ai medesimi rilievi di cui al motivo che precede e denunciano la “sentenza impugnata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, per violazione e/o falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 36 e art. 112 c.p.c. in relazione all’art. 163 TUIR: la sentenza impugnata ha omesso di pronunciarsi sulla violazione del divieto di doppia imposizione”.

Concludono, in sintesi, che “La sentenza impugnata deve, inoltre, essere riformata quanto al rilievo sub B perchè la CTR ha omesso di pronunciarsi sulla dedotta illegittimità degli avvisi di accertamento per violazione del divieto di doppia imposizione in relazione all’art. 163 TUIR: l’Ufficio, infatti, ha recuperato a tassazione l’asserita sovra valutazione degli immobili nei confronti di FiBi, sub specie indeducibilità dei relativi ammortamenti, sia nei confronti del sig. B., sub specie presunzione di distribuzione di utile, così, evidentemente, duplicando la medesima pretesa (in capo a soggetti diversi) e violando il divieto di doppia imposizione. La CTP e la CTR hanno del tutto omesso di pronunciarsi”.

Il motivo è infondato.

Infatti, a pag. 15 della sentenza, la CTR ha espressamente motivato circa la rilevanza della sopravvalutazione degli immobili compravenduti sia, ai fini Ires ed Irap, con il recupero a tassazione dell’ammortamento eccedente, nei confronti della s.r.l.; sia, ai fini Irpef, per il reddito di partecipazione del socio B.. Tale precisazione, unita all’integrale conferma della sentenza appellata, e quindi anche degli avvisi d’accertamento contenenti i rilievi in questione, comporta pertanto una pronuncia di rigetto anche del motivo de quo, quanto meno necessariamente implicita nell’esito di merito del giudizio, non ricorrendo il vizio di omessa pronuncia quando la decisione adottata comporti una statuizione implicita di rigetto della domanda o eccezione formulata dalla parte (Cass. 13/08/2018, n. 20718; conforme, ex plurimis, Cass. 29/01/2021, n. 2151).

Peraltro, il motivo rispetto al quale si denuncia la pretesa omessa pronuncia è anche infondato, in quanto, in tema di imposte sui redditi, la doppia imposizione si verifica soltanto nell’ipotesi di due avvisi di accertamento che assoggettino a tassazione il medesimo presupposto, non quando l’imposta venga chiesta in pagamento a fronte di due diversi titoli a due soggetti diversi (Cass. 30/10/2018, n. 27625).

7.Con il settimo motivo (denominato nel ricorso c)1.) le ricorrenti Fi.Bi s.r.l. e Nuova Beton s.r.l. B. censurano la sentenza impugnata con riferimento al rilievo secondo cui è parzialmente indetraibile l’Iva di cui alle prestazioni oggetto dei contratti di appalto e subappalto tra loro intervenuti.

Denunciano le ricorrenti “la sentenza impugnata, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., n. 3, per violazione e/o falsa applicazione D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 19 e 56 in relazione all’art. 2697 c.c., L. n. 212 del 2000, art. 7, art. 115 c.p.c.: i contratti di appalto e subappalto sottoscritti hanno oggetto, contenuto e prestazioni diverse”.

Assumono, in sintesi, che “la sentenza della CTR quivi impugnata ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 viola e realizza una falsa applicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 19 e 56 in relazione all’art. 2697 c.c., L. n. 212 del 2000, art. 7, art. 115 c.p.c. perchè ha escluso il diritto di detrazione ritenendo che sussista una parziale coincidenza dei contratti laddove, viceversa, (i) le prestazioni dedotte nel contratto di appalto (costruzione di un complesso edilizio di 12 villette “chiavi in mano”) non coincidono evidentemente con le prestazioni dedotte nel contratto di subappalto (sola esecuzione materiale dei lavori di costruzione), (ii) la documentazione prodotta e disattesa dalla CTR (senza spiegazione alcuna) dimostra la diversità ed effettività delle prestazioni sottese ai due contratti e (iii) ove fosse stata appaltata la sola direzione lavori (come asserito dalla CTR) il risultato economico e fiscale sarebbe stato identico”.

Il motivo è inammissibile.

Infatti, le censure, proposte in termini di violazione di legge, attingono in realtà il merito della decisione, contrapponendo alla valutazione in fatto del giudice di merito, in particolare in ordine all’effettivo oggetto dei contratti tra le parti ed alla conseguente parziale inesistenza oggettiva delle relative prestazioni, la diversa ricostruzione della fattispecie concreta sostenuta dalle contribuenti.

Tuttavia è inammissibile il ricorso per cassazione che, sotto l’apparente deduzione del vizio di violazione o falsa applicazione di legge, di mancanza assoluta di motivazione e di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio miri, in realtà, ad una rivalutazione dei fatti storici operata dal giudice di merito (Cass., Sez. Un., 27/12/2019, n. 34476).

Inoltre, “In tema di ricorso per cassazione, la violazione dell’art. 2697 c.c. si configura soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella su cui esso avrebbe dovuto gravare secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni mentre, per dedurre la violazione dell’art. 115 c.p.c., occorre denunziare che il giudice, contraddicendo espressamente o implicitamente la regola posta da tale disposizione, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli, non anche che il medesimo, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dall’art. 116 c.p.c.” (Cass. Sez. 6 – 3, Ordinanza n. 26769 del 23/10/2018).

Nè comunque, nel caso di specie, vi è stata inversione dell’onere della prova. Infatti, in ordine alla distribuzione dell’onere della prova nella materia controversa, secondo consolidato orientamento di questa Corte (recentemente ribadito anche da Cass., Sez. 5-, 16/06/2020, n. 11624, dalla cui motivazione sono tratte le argomentazioni che seguono) “ai fini della identificazione del soggetto onerato della prova, nella ipotesi di contestazione formulata dall’Ufficio in ordine alla inesistenza, o parziale inesistenza, delle operazioni commerciali fatturate, la giurisprudenza di legittimità ha reiteratamente affermato in tema di iva (ma i principi valgono per tutte le imposte accertabili mediante la contestazione della veridicità delle fatturazioni) che qualora l’Amministrazione finanziaria contesti al contribuente l’indebita detrazione di fatture, in quanto relative ad operazioni inesistenti, spetta all’Ufficio fornire la prova che l’operazione commerciale, oggetto della fattura, non è mai stata posta in essere, indicando gli elementi anche indiziari sui quali si fonda la contestazione, mentre è onere del contribuente dimostrare la fonte legittima della detrazione o del costo altrimenti indeducibile, non essendo sufficiente, a tal fine, la regolarità formale delle scritture o le evidenze contabili dei pagamenti, in quanto si tratta di dati e circostanze facilmente falsificabili” (Cass., sent. n. 19352 del 2018; n. 29002 del 2017; n. 428 del 2015; n. 17977 del 2013).

In particolare, questa Corte, nelle ipotesi, come quella di specie, di operazioni oggettivamente inesistenti, ha affermato che “ove la fattura costituisce in tutto o in parte mera espressione cartolare di operazioni commerciali mai poste in essere da alcuno, l’amministrazione ha l’onere di fornire elementi probatori, anche in forma indiziaria e presuntiva (Cass. nn. 21953/07, 9784/10, 9108/12, 15741/12, 23560/12; 27718/13, 20059/2014, 26486/14, 9363/15; nello stesso senso C. Giust. 6 luglio 2006, C-439/04; 21 febbraio 2006, C-255/02; 21 giugno 2012, C-80/11; 6 dicembre 2012, C-285/11; 31 novembre 2013, C-642/11), del fatto che l’operazione fatturata non è stata effettuata, dopo di che spetta al contribuente l’onere di dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate; tale prova, tuttavia, non può consistere nella esibizione della fattura o nella dimostrazione della regolarità formale delle scritture contabili o dei mezzi di pagamento, poichè questi sono facilmente falsificabili e vengono normalmente utilizzati proprio allo scopo di far apparire reale un’operazione fittizia (Cass. nn. 28572 del 2017; 5406 del 2016, 28683 del 2015, 428 del 2015, 12802 del 2011, 15228 del 2001); e comunque, una volta accertata l’assenza dell’operazione, è escluso che possa configurarsi la buona fede del cessionario o committente (rilevante invece nella diversa ipotesi di operazioni soggettivamente inesistenti), il quale ovviamente sa bene se ed in quale misura ha effettivamente ricevuto il bene o la prestazione per la quale ha versato il prezzo o corrispettivo” (Cass. n. 18118 del 2016, in motivazione; Cass. n. 16473 del 2018).

Ed è stato ribadito che “Ai fini del diritto alla deduzione di costi inerenti ex art. 109 TUIR e della detrazione di Iva D.P.R. n. 633 del 1972, ex art. 19 è necessaria la regolare tenuta delle scritture contabili e delle fatture che, ai fini dell’Iva, sono idonee a rappresentare il costo dell’impresa e che devono contenere oggetto e corrispettivo di ogni operazione commerciale, sicchè, in caso di operazioni ritenute dall’Amministrazione inesistenti, spetta a quest’ultima l’onere di dimostrare, attraverso la prova logica (o indiretta) o storica (o diretta) e anche con indizi integranti presunzione semplice, la fittizietà dell’operazione e non al contribuente la sua effettività, essendo questi chiamato a fornire la prova contraria soltanto quando sia assolto l’onere probatorio gravante sulla prima” (Cass. Sez. 5 -, Ordinanza n. 28246 del 11/12/2020). Nel caso di specie, la CTR si è adeguata a tali principi in tema di distribuzione dell’onere della prova, in quanto ha ritenuto che l’Amministrazione avesse fornito la prova della parziale inesistenza oggettiva delle operazioni oggetto della fatturazione incrociata e duplicata tra le due società, sulla base del contenuto sostanzialmente speculare dei due contratti e della relazione economico-sostanziale tra i due enti, che ha ritenuto fossero, nel caso di specie, espressione di un unico centro d’interessi effettivo, facente capo al B., unico socio della Fi.Bi. e socio al 60% della Nuova Beton, per il restante 40% partecipata dalla medesima Fi.Bi..

Peraltro, quanto all’interpretazione dei due contratti in questione, posto che l’accertamento della volontà delle parti in relazione al contenuto di un negozio giuridico si traduce in una indagine di fatto affidata al giudice di merito, il ricorrente per cassazione, al fine di far valere la violazione dei canoni legali di interpretazione contrattuale di cui agli artt. 1362 e ss. c.c., non solo deve fare esplicito riferimento alle regole legali di interpretazione, mediante specifica indicazione delle norme asseritamente violate ed ai principi in esse contenuti, ma è tenuto, altresì, a precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai canoni legali assunti come violati o se lo stesso li abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti non potendo, invece, la censura risolversi nella mera contrapposizione dell’interpretazione del ricorrente e quella accolta nella sentenza impugnata (Cass. 09/04/2021, n. 9461, ex plurimis). Il mezzo in questione non soddisfa tali requisiti di ammissibilità.

Anche sotto tale aspetto, pertanto, il motivo è inammissibile.

  1. Le spese del giudizio di legittimità e di merito tra Fi.Bi. s.r.l. ed Agenzia delle entrate si compensano per la reciproca soccombenza.
  2. Le spese tra gli altri ricorrenti e la controricorrente seguono la soccombenza.

P.Q.M.
Accoglie il secondo, il terzo ed il quarto motivo di ricorso della Fi.Bi. s.r.l. e rigetta i restanti;

cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e, decidendo nel merito, accoglie, nei limiti di cui in motivazione, il ricorso introduttivo della Fi.Bi. s.r.l., compensando le spese del giudizio di merito e di legittimità tra quest’ultima e la controricorrente;

condanna B.L. e la Nuova Beton s.r.l., in solido tra loro, al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 6.000,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito;

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti B.L. e Nuova Beton s.r.l., dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio, il 8 aprile 2022.

Depositato in Cancelleria il 9 maggio 2022