Cass., sez. trib., 9 giugno 2023 (ord. interloc.), n. 16454 (testo)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –
Dott. LA ROCCA Giovanni – Consigliere –
Dott. CARADONNA Lunella – Consigliere –
Dott. HMELJAK Tania – Consigliere –
Dott. SAIJA Salvatore – rel. Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
ORDINANZA INTERLOCUTORIA
sul ricorso N. 5062/2020 R.G. proposto da:
AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del legale rappresentante pro tempore, domiciliata in Roma, Via Dei Portoghesi, n. 12, presso l’Avvocatura dello Stato, che la rappresenta e difende per legge;
- ricorrente –
contro
UNICAR Srl , in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in Roma, Via XX Settembre n. 1, presso lo studio dell’avv. Paolo Vitali, che la rappresenta e difende come da procura in calce al controricorso;
- controricorrente –
avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale del Lazio, sez. staccata di Latina, n. 3852/2019, depositata il 25.6.2019;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza “cameralizzata” del 29.9.2022 dal Consigliere relatore Dott. Salvatore Saija;
lette le conclusioni scritte rassegnate dal Sostituto Procuratore Generale Dott. Mucci Roberto, che ha chiesto l’accoglimento del ricorso.
Svolgimento del processo
che:
a seguito di verifica condotta dalla G.d.F. di Sora, culminata in un PVC del 21.4.2016, l’Agenzia delle Entrate notificò a Unicar Srl , per l’anno d’imposta (Omissis), un avviso di accertamento con cui si contestava la detrazione di IVA per l’acquisto di n. 12 autovetture usate, in quanto attinente ad operazioni soggettivamente inesistenti, stante l’interposizione fittizia della società “cartiera” Blue Eagle di Costa M. & C. Sas La società contribuente presentò istanza di accertamento con adesione, che venne però respinta; la stessa società propose quindi ricorso dinanzi alla C.T.P. di Frosinone, che lo rigettò con sentenza n. 959/2017. Avverso detta sentenza, la società propose appello, accolto dalla C.T.R. del Lazio, sez. st. di Latina, con sentenza del 25.6.2019, n. 3852/2019; nell’annullare, conseguentemente, l’avviso di accertamento impugnato, osservò il giudice d’appello che – ferma l’effettività oggettiva delle operazioni di acquisto – era irrilevante che, a monte, vi fossero aziende dalle quali i veicoli non erano transitati, o i cui rappresentanti erano noti alle forze dell’ordine o non avevano versato le imposte dovute, tanto più che dalle intercettazioni telefoniche non si evinceva alcun riferimento al legale rappresentante della Unicar, che non poteva comunque essere a conoscenza di quanto accadeva nella catena commerciale; ciò tanto più che il numero di veicoli in discorso (appena 12) era esiguo rispetto al totale commercializzato dalla società nel periodo considerato, e che l’acquisto degli stessi ad un prezzo vantaggioso rientrava nella normale politica aziendale; in definitiva, secondo il giudice d’appello, il comportamento della Unicar non dimostrava la sua consapevolezza di inserirsi in un meccanismo di frode.
Avverso detta sentenza l’Agenzia delle Entrate ricorre ora per cassazione, affidandosi a due motivi, cui resiste la società con controricorso. La causa, dapprima trattata dalla Sez. VI-T (dinanzi alla quale la controricorrente ha anche depositato memoria) è stata rimessa alla trattazione in pubblica udienza, dinanzi a questa Sezione, con ordinanza interlocutoria n. 13879/2022. Il P.G. ha rassegnato conclusioni scritte, chiedendo l’accoglimento del ricorso. Entrambe le parti hanno depositato ulteriore memoria.
Motivi della decisione
che:
1.1 – con il primo motivo si denuncia violazione e/o falsa applicazione degli artt. 2697, 2727 e 2729 c.c., nonchè del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 19 e art. 21, comma 7, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver la C.T.R. affrontato le questioni con argomenti fuorvianti ed ultronei (quali quello per cui le operazioni, dal punto di vista oggettivo, fossero esistenti, oppure quello per cui dalle intercettazioni telefoniche non fosse emerso alcun ruolo, nella frode, del legale rappresentante della Unicar, posto che in nessun atto processuale si era fatto riferimento ad una simile attività d’indagine), ed ha deciso la controversia sulla base di prove inesistenti e non offerte dalle parti, anche giungendo ad invertire l’onere della prova, posto che l’Ufficio aveva dimostrato la natura di cartiera della Blue Eagle di Costa M. & C. Sas 1.2 – Con il secondo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 19 e art. 21, comma 7, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per non essersi la C.T.R. attenuta ai principi sanciti dalla giurisprudenza Eurounitaria e nazionale circa l’onere di diligenza esigibile dall’operatore accorto, omettendo di considerare che la Unicar non aveva affatto dimostrato di aver improntato la propria condotta, nella vicenda in questione, a tale parametro.
2.1 – Il ricorso è stato rimesso a questa Sezione dalla Sez. VI-T con l’ordinanza interlocutoria n. 13879/2022, non essendosi ravvisata l’evidenza decisoria circa l’eccezione di nullità (rectius, di inesistenza) del ricorso notificato dall’Agenzia delle Entrate, giacchè privo di sottoscrizione digitale da parte dell’avvocato dello Stato titolare del fascicolo.
La società contribuente, sul punto, ha infatti invocato il precedente di Cass. n. 3379/2019, attinente a ricorso analogico o cartaceo, così massimata: “Il ricorso per cassazione privo della sottoscrizione dell’avvocato deve considerarsi giuridicamente inesistente e, quindi, inammissibile, in applicazione del principio generale sancito dall’art. 161 c.p.c., comma 2, estensibile a tutti gli atti processuali” (Rv. 652381-01).
Il ricorso che qui occupa, invece, è nativo digitale, ossia è stato redatto e interamente confezionato in ambiente informatico, e così notificato dall’Agenzia alla società controricorrente, tuttavia privo di firma da parte dell’avvocato dello Stato il cui nominativo è speso in calce al ricorso stesso, quale patrono erariale. A dimostrazione dell’assunto, la società contribuente ha anche prodotto un CD, contenente la PEC di notificazione ricevuta, in formato.xml, ed in effetti risulta confermato che il ricorso che occupa è privo di firma digitale; d’altra parte, ciò è nella sostanza pacifico, tanto è vero che, nella memoria depositata dall’Agenzia delle Entrate il 23.9.2022, l’Avvocatura Generale dello Stato giunge ad asseverare “che il ricorso e la relata di notificazione di cui trattasi sono state redatte e notificate dall’assegnatario del fascicolo Avv. A.A.”. Il che, all’evidenza, può solo spiegarsi con la piena consapevolezza che la sottoscrizione non sia stata apposta nell’atto.
2.2.1 – Nè, del resto, appare condivisibile quanto ritenuto, in proposito, dal P.G., secondo il quale “Dagli atti trasmessi a quest’Ufficio (segnatamente, il dettaglio della spedizione del messaggio) risulta che gli allegati – relata e ricorso – sono in formato “pdf” spediti a mezzo p.e.c., sicchè, stante l’attestazione della sottoscrizione con firma digitale dall’Avvocato dello Stato ivi riportata, trova applicazione il principio di sufficienza di tale attestazione espresso da Sez. 3, 19/12/2016, n. 26102 e successive conformi”.
Stando a tale arresto (Rv. 642339-01), “Ai sensi della L. n. 53 del 1994, art. 3-bis, comma 3 e art. 6, comma 1, come modificata dal D.L. n. 179 del 2012, art. 16-quater introdotto dalla L. n. 228 del 2012, per la regolarità della notifica del ricorso per cassazione costituito dalla copia informatica dell’atto originariamente formato su supporto analogico, non è necessaria la sottoscrizione dell’atto con firma digitale, essendo sufficiente che la copia telematica sia attestata conforme all’originale, secondo le disposizioni vigenti “ratione temporis” (nella specie, D.Lgs. n. 82 del 2005, art. 22, comma 2). Qualora il deposito del ricorso per cassazione non sia fatto con modalità telematiche, ai sensi dell’art. 369 c.p.c., dell’avvenuta sua notificazione per via telematica va data prova mediante il deposito – in formato cartaceo, con attestazione di conformità ai documenti informatici da cui sono tratti – del messaggio di trasmissione a mezzo PEC, dei suoi allegati e delle ricevute di accettazione e di avvenuta consegna previste dal D.P.R. n. 68 del 2005, art. 6, comma 2″.
2.2.2 – Tuttavia, dalla attestazione di conformità del 29.1.2020, rilasciata dall’Avvocatura dello Stato ai sensi del combinato disposto della L. n. 53 del 1994, artt. 6 e 9 e del D.Lgs. n. 82 del 2005, art. 23 (Codice dell’Amministrazione Digitale – C.A.D.) in relazione alla notifica del ricorso e degli atti ad essa collegati, si evince che l’atto venne spedito nel suo originale informatico e che esso (stando a detta attestazione) sarebbe stato firmato digitalmente. Pertanto, il fatto che, dalle ricevute dei messaggi rilasciati dal sistema di gestione della PEC, risulti che gli allegati siano in formato “pdf” e non già in formato “p7m”, non è dirimente, perchè la questione potrebbe assumere rilievo solo ai fini di una eventuale verifica della esistenza della firma analogica sull’originale del ricorso. Il che, per quanto prima evidenziato, è da escludere nella specie, posto che è la stessa ricorrente a riconoscere che si è fuori da tale ipotesi, trattandosi appunto di ricorso nativo digitale. La giurisprudenza suindicata non è quindi pertinente.
2.2.3 – Considerazioni in tutto analoghe, infine, possono svolgersi riguardo alla ulteriore giurisprudenza invocata in memoria dall’Agenzia delle Entrate (Cass. n. 3805/2018, Rv. 647092-01, nonchè Cass., Sez. Un., n. 7665/2016, Rv. 63928501): non si tratta, nella specie, della mera invalidità del procedimento di notificazione, di cui è tradizionalmente ritenuta possibile la sanatoria in forza del principio del raggiungimento dello scopo, ex art. 156 c.p.c., comma 3, (come appunto affermato dalle citate pronunce; sul punto, si veda comunque, per tutte, Cass., Sez. Un., n. 23620/2018, Rv. 650466-02), bensì di un possibile deficit strutturale dell’atto processuale, posto che l’art. 365 c.p.c. stabilisce che “Il ricorso è diretto alla Corte e sottoscritto, a pena di inammissibilità, da un avvocato iscritto in apposito albo…”, ribadendo la regola dettata per determinati atti processuali (tra cui lo stesso ricorso), sul piano generale, dall’art. 125 c.p.c. Del resto, è stato anche ritenuto, condivisibilmente, che “la causa di inammissibilità non può essere trattata come una causa di nullità cui applicare il criterio del raggiungimento dello scopo” (così, Cass. n. 18623/2016; il principio è stato affermato, in verità, in relazione ai requisiti di contenuto-forma del ricorso, di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, ma è ben suscettibile di valenza generale).
2.3 – Ora, la pronuncia di legittimità su cui si fonda l’eccezione sollevata dalla controricorrente (ossia la citata Cass. n. 3379/2019, singolarmente emessa da questa Sezione su ricorso proposto dall’Avvocatura dello Stato nell’interesse della stessa Agenzia delle Entrate, benchè in modalità analogica) fa esplicito riferimento alla categoria della inesistenza dell’atto, richiamando il principio generale circa la sorte della sentenza priva di sottoscrizione da parte del giudice, ex art. 161 c.p.c., comma 2, in quanto estensibile a tutti gli atti processuali per i quali sia richiesta la sottoscrizione della parte (se abilitata a stare in giudizio in proprio) o del suo difensore (nella motivazione di detta pronuncia, vengono richiamati i precedenti arresti di Cass. n. 4078/1986, Rv. 446884-01, nonchè di Cass., Sez. Un., n. 11632/2003, Rv. 565474-01).
Si tratta, peraltro, di orientamento del tutto consolidato e costantemente affermato: così, si veda, in particolare, Cass. n. 1275/2011, Rv. 616037-01, secondo cui “Poichè l’art. 125 c.p.c. prescrive che l’originale e le copie degli atti ivi indicati devono essere sottoscritti dalla parte che sta in giudizio personalmente oppure dal procuratore, il difetto di sottoscrizione (quando non desumibile da altri elementi, quali la sottoscrizione per autentica della firma della procura in calce o a margine dello stesso) è causa di inesistenza dell’atto (nella specie, di appello), atteso che la sottoscrizione è elemento indispensabile per la formazione dello stesso” (conf. Cass. n. 2691/1994, Rv. 485827-01; Cass. n. 6111/1999, Rv. 527657-01; Cass. n. 4116/2001, Rv. 545014-01). In buona sostanza, quand’anche l’atto processuale non sia ritualmente sottoscritto, come di regola, nella sua parte finale, occorre comunque che la sottoscrizione sia almeno apposta in altra parte dell’atto (come la firma per autentica della procura ad litem), onde attribuire all’estensore la sua paternità, che è il fine ultimo dell’adempimento richiesto.
Non mancano, per vero, precedenti di segno contrario (si veda, in particolare, Cass. n. 9490/2007, Rv. 597541-01, che ha ritenuto non inesistente, bensì nullo, un ricorso in opposizione agli atti esecutivi ex art. 617 c.p.c., privo di firma autografa del difensore dell’opponente, in quanto questi aveva comunque compiuto atti quali il deposito della nota di iscrizione a ruolo, la richiesta di copie del ricorso con il provvedimento di sospensione, la richiesta di notificazione del ricorso e la partecipazione alle udienze davanti al giudice dell’esecuzione in presenza dell’opponente), ma si tratta di impostazione assolutamente isolata, non idonea a determinare, sul punto, vero e proprio contrasto di giurisprudenza.
2.4.1 – Ciò posto, la specifica questione dell’atto introduttivo del giudizio (anche d’impugnazione) nativo informatico, ma privo di sottoscrizione digitale, nel panorama della giurisprudenza di legittimità, è stata finora affrontata – se non si erra – con due sole pronunce.
Con la prima (Cass. n. 14338/2017, Rv. 633628-01), si è statuito che “L’atto introduttivo del giudizio redatto in formato elettronico e privo di firma digitale è nullo, poichè detta firma è equiparata dal D.Lgs. n. 82 del 2005 alla sottoscrizione autografa, che costituisce, ai sensi dell’art. 125 c.p.c., requisito di validità dell’atto introduttivo (anche del processo di impugnazione) in formato analogico”. Con detta decisione, questa Corte – nel dichiarare inammissibile il ricorso per cassazione proposto dalla parte già appellante, che aveva a suo tempo notificato l’atto di gravame privo di sottoscrizione digitale – ha precisato (in motivazione) che il requisito in parola attiene alla formazione dell’atto stesso, nonchè alla sua riconducibilità a chi lo ha formato (nella specie, necessariamente al difensore munito di procura); pertanto, s’è ritenuto che, in quel caso, il ricorrente non avesse colto la ratio decidendi della sentenza impugnata, giacchè l’inammissibilità dell’appello derivava già da siffatta carenza strutturale, esplicitamente considerata da questa Corte non suscettibile di sanatoria (tanto da aver contestualmente disposto la correzione ex art. 384 c.p.c., u.c.), essendo a tal punto irrilevanti le doglianze mosse col ricorso e fondate sulla pretesa regolarità e completezza della notifica effettuata via PEC, il che – nella prospettiva del ricorrente – avrebbe comunque consentito di superare ogni questione.
In buona sostanza, il citato arresto si muove senz’altro nell’egida dell’orientamento tradizionale prima riportato circa il difetto di sottoscrizione dell’atto analogico, tanto da richiamare per tutte (in motivazione) la già citata Cass. n. 1275/2011, e da ritenere inconferente il principio affermato da Cass. n. 26102/2016, anch’essa già citata (e richiamata nella requisitoria del P.G., come s’è visto), in quanto attinente “non già alla sottoscrizione dell’originale del ricorso per cassazione, ma alla notificazione della copia informatica dell’atto originariamente formato su supporto analogico”.
2.4.2 – Senonchè, la successiva Cass., Sez. Un., n. 22438/2018, Rv. 65046203, ha affermato che “In tema di giudizio per cassazione, in caso di ricorso predisposto in originale in forma di documento informatico e notificato in via telematica, l’atto nativo digitale notificato deve essere ritualmente sottoscritto con firma digitale, potendo la mancata sottoscrizione determinare la nullità dell’atto stesso, fatta salva la possibilità di ascriverne comunque la paternità certa, in applicazione del principio del raggiungimento dello scopo”.
Ora, la sentenza indicata – adottata in linea generale ai sensi dell’art. 363 c.p.c., comma 3, in relazione al tema della improcedibilità ex art. 369 c.p.c., comma 1, del ricorso nativo informatico firmato digitalmente, ma depositato in copia cartacea priva di attestazione di conformità – si sofferma, tra l’altro, in motivazione (par. 20), sul problema della assenza della stessa firma digitale del ricorso per cassazione: detta questione era necessario affrontare proprio per escludere la stessa possibilità astratta di distinguere tra originale informatico sottoscritto digitalmente (rimasta in possesso del ricorrente) e copia informatica notificata all’intimato, ma priva di firma digitale; sul punto, le Sezioni Unite affermano, claris verbis, che in tal caso “si tratterebbe, in realtà, di due atti nativi digitali diversi e non dello stesso unico atto sottoscritto con firma digitale”, e si aggiunge, ancor più significativamente (ai fini che qui interessano) che “ove si accedesse all’interpretazione che ammette la notificazione di un ricorso in originale informatico privo di firma digitale verrebbe, addirittura, a mancare un originale sottoscritto, giacchè a tanto non potrebbe sopperire l’attestazione di conformità della copia analogica del ricorso depositata in luogo dell’originale digitale; attestazione che postula, per l’appunto, che l’originale digitale sia stato, a sua volta, ritualmente sottoscritto” (si noti che, nel caso qui in esame, l’Agenzia ricorrente propugna proprio questa ultima tesi, appunto disattesa dalle Sezioni Unite).
Posto, dunque, che l’atto processuale nativo informatico, notificato alla controparte, è esso stesso l’originale, e non ne è una mera copia, il punto è che, stando alla massima sopra riportata (Rv. 650462-03), le Sezioni Unite ascrivono esplicitamente il difetto di sottoscrizione digitale dell’atto alla sua mera nullità (così come la stessa Cass. n. 14338/2017, già citata), affermando però che il vizio sia suscettibile di sanatoria per raggiungimento dello scopo, ove sia possibile attribuirne la paternità certa. Nel ritenere ciò, il Massimo Consesso sembra discostarsi non solo dall’unico precedente sull’atto introduttivo nativo digitale, poc’anzi citato, ma anche dalla stessa precedente giurisprudenza sul difetto di firma dell’atto processuale analogico o cartaceo, che pressochè univocamente volge verso la categoria dell’inesistenza dell’atto stesso, di per sè non suscettibile di sanatoria.
2.4.3 – Al riguardo, è ben vero che, rispetto a pronunce precedentemente rese da questa Corte (sia a Sezione semplice, che a Sezioni Unite), non sia tecnicamente configurabile alcun contrasto di giurisprudenza sul punto, per effetto della stessa Cass., Sez. Un., n. 22438/2018, posto che il Massimo Consesso di questa Corte è deputato, per legge, a segnare la corretta interpretazione delle norme di diritto, nell’ambito della funzione di nomofilachia, sicchè in linea di principio l’arresto da ultimo citato dovrebbe tendenzialmente costituire il punto di partenza per la soluzione della questione che qui occupa, e peraltro con la vincolatività dello stare decisis per questo stesso Collegio, derivante dal disposto dell’art. 374 c.p.c., comma 3.
Tuttavia, occorre anche considerare che:
a) anzitutto, il principio in discorso è a ben vedere estrapolato dal contesto della motivazione – di cui costituisce ovviamente uno snodo logico-giuridico, e non un mero obiter dictum -, benchè non sia specificamente riepilogato nell’ambito di quelli elencati nel par. 27 della stessa sentenza, come resi ai sensi dell’art. 363 c.p.c., comma 3;
b) in secondo luogo, le Sezioni Unite riportano il vizio in parola alla categoria della nullità, per quanto l’art. 365 c.p.c. preveda il requisito della sottoscrizione del ricorso come dettato ai fini dell’ammissibilità dell’atto, tanto che la giurisprudenza – sia precedente, sia successiva al citato arresto del 2018 – riconduce il vizio stesso ad un deficit strutturale dell’atto medesimo, e dunque alla sua inesistenza;
c) ancora, per effetto di detta qualificazione di nullità, la sentenza richiama il principio del raggiungimento dello scopo, ipotizzando il ricorso alla sanatoria del vizio, ove sia possibile attribuire la paternità certa dell’atto;
d) infine, la pronuncia non si sofferma esplicitamente sulla necessità che una tale opzione debba pur sempre ricollegarsi ad una sottoscrizione comunque apposta sull’atto, anche se ad altri fini (si veda, sul punto, la giurisprudenza riassunta supra, par. 2.3), lasciando aperta – in difetto di approfondimento sul punto, evidentemente in quel caso non necessario – la possibilità di ipotizzare che una simile indagine possa anche condursi in forza di altri elementi, esterni all’atto processuale.
2.5.1 – I dubbi che, sul piano dell’ermeneutica dell’art. 365 c.p.c., pone l’eccezione sollevata dalla controricorrente, poi, risultano vieppiù amplificati per effetto delle ulteriori considerazioni che seguono.
Invero, diverse disposizioni normative esprimono il c.d. principio di non discriminazione del documento informatico, rispetto a quello analogico o tradizionale. Così, in particolare, l’art. 23, comma 2 C.A.D., stabilisce che “Le copie e gli estratti su supporto analogico del documento informatico, conformi alle vigenti regole tecniche, hanno la stessa efficacia probatoria dell’originale se la loro conformità non è espressamente disconosciuta”; analogamente, l’art. 20 stesso C.A.D., prevede al comma 1-bis che il documento informatico cui sia apposta una firma digitale soddisfa il requisito della forma scritta e ha l’efficacia prevista dall’art. 2702 c.c. per le scritture private. Con specifico riferimento al tema qui in rilievo, poi, deve anche richiamarsi l’art. 25, parr. 1 e 2, del Regolamento (UE) n. 910/2014 del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 23.7.2014 (c.d. Regolamento eIDAS – electronic IDentification Authentication and Signature), secondo cui “1. A una firma elettronica non possono essere negati gli effetti giuridici e l’ammissibilità come prova in procedimenti giudiziali per il solo motivo della sua forma elettronica o perchè non soddisfa i requisiti per firme elettroniche qualificate” e “2. Una firma elettronica qualificata ha effetti giuridici equivalenti a quelli di una firma autografa”.
2.5.2 – Ora, se è del tutto comprensibile che, nell’ottica della sempre maggiore digitalizzazione del processo (di recente realizzata anche per il giudizio di legittimità), l’ordinamento – con disposizioni come quelle che precedono – si sforzi di condurre e segnare un percorso di piena equiparazione tra il documento digitale e quello che, tradizionalmente, ha costituito il substrato delle relative categorie concettuali espresse anche in ambito processuale, ossia il documento analogico, ciò non può certo implicare una sorta di “discriminazione al contrario”. Si vuole cioè dire che il documento informatico – al di là delle sue intrinseche ed intuitive peculiarità “fisiche” – non può di per sè avere un “peso” superiore rispetto alla corrispondente categoria di riferimento, in ambiente analogico.
Il che, rapportato al tema che occupa, significa che un atto processuale, sol perchè informatico, non può di per sè supplire al deficit strutturale da cui esso sia eventualmente affetto, rispetto ai requisiti di forma richiesti dalla norma, salvo che detti requisiti siano direttamente evincibili dal suo corredo informativo: non è affatto casuale che la stessa Cass., Sez. Un., n. 22438/2018, affermi perentoriamente, in motivazione, che “l’originale del ricorso nativo digitale – in quanto atto processuale – è unico e per essere valido, alla luce di quanto dispone la legge processuale (che è fonte condizionante, anche in via interpretativa, la portata stessa della disciplina recata dalle disposizioni regolamentari e tecniche sul p.c.t.), deve essere sottoscritto con firma (ovviamente) digitale; l’atto così formato e sottoscritto è, quindi, l’atto che l’avvocato provvede a notificare, a mezzo p.e.c., all’indirizzo p.e.c., risultante da pubblici registri, della controparte”.
In siffatte condizioni, la ricerca aliunde della paternità certa del ricorso, mancante della firma digitale, appare dunque ancor più problematica, essendo ben difficile che essa possa desumersi, di per sè, dai dati identificativi informatici del documento stesso (cioè, dalle sue “proprietà”), o anche (e al di là di quanto prima evidenziato circa l’utilizzabilità di elementi esterni all’atto processuale) dall’utilizzo di una casella PEC inequivocabilmente riferibile all’avvocato che avrebbe apparentemente redatto il ricorso: il che, specie con riferimento a tale ultimo aspetto, vale sia nel caso di un avvocato del libero foro, sia nel caso della stessa Avvocatura dello Stato, non potendo comunque escludersi un accesso alla medesima casella PEC del mittente da parte di soggetto diverso dal suo titolare (e, per di più, privo della necessaria qualifica), a prescindere dal fatto che si tratti di soggetto autorizzato o meno.
Del resto, è solo l’utilizzo del dispositivo di firma elettronica qualificata o digitale a determinare la presunzione (relativa) di riconducibilità della stessa al suo titolare, ex art. 20, comma 1-ter C.A.D., non anche l’uso della casella PEC del mittente, per quanto ovviamente personale.
2.5.3 – Si aggiunga infine che, sotto diverso ma concorrente profilo, con specifico riferimento all’Avvocatura dello Stato, è ben vero che la difesa da essa assunta ha carattere impersonale e che i suoi rappresentanti sono dunque pienamente fungibili nel compimento degli atti processuali nell’ambito di un medesimo giudizio, sicchè “l’atto introduttivo di questo è valido anche se la sottoscrizione è apposta da avvocato diverso da quello che materialmente ha redatto l’atto, unica condizione richiesta essendo la spendita della qualità professionale abilitante alla difesa” (Cass. n. 4950/2012; Cass. n. 13627/2018). Tuttavia, pur in tale ipotesi, pare imprescindibile che l’atto processuale debba essere comunque riferibile con certezza ad avvocato dello Stato perfettamente identificabile (anche se diverso dal suo materiale estensore, come s’è visto), perchè il patrocinio assunto dall’Avvocatura – sotto il profilo del rispetto delle forme processuali – solo esclude la necessità del rilascio della procura speciale ex art. 365 c.p.c. (si vedano le pronunce poc’anzi citate), non certo l’assunzione di paternità circa il contenuto dell’atto, riconducibile evidentemente alla sottoscrizione.
Il principio affermato da Cass., Sez. Un. 22438/2018, anche in relazione al profilo appena indicato, merita dunque di essere almeno opportunamente contestualizzato, posto che neppure vi sarebbe possibilità di ricorrere – ai fini dell’attribuzione della paternità certa dell’atto – alla firma per autentica in calce alla procura speciale, non essendo essa necessaria nell’ipotesi in cui la parte sia abilitata ad avvalersi dell’Avvocatura dello Stato, come nella specie.
2.6 – Così stando le cose, trattandosi comunque di questione di massima di particolare importanza, la Corte reputa dunque opportuno trasmettere gli atti al Primo Presidente, affinchè valuti se investire le Sezioni Unite, su quanto prima prospettato.
P.Q.M.
la Corte trasmette gli atti al Primo Presidente per l’eventuale assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite.
Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Corte di cassazione il giorno 29.9.2022 e a seguito di riconvocazione telematica, il 29 marzo 2023.
Depositato in Cancelleria il 9 giugno 2023