202006.09
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Cass., sez. trib., 9 giugno 2020, n. 10952 (testo)

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOCATELLI Giuseppe – Presidente –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. CONDELLO Pasqualina Anna Piera – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – rel. Consigliere –

Dott. D’ORAZIO Luigi – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

ricorso 11512-2013 proposto da:

IMPRESA GEI SRL, in persona del legale rappresentante pro tempore, con domicilio eletto in ROMA PIAZZA CAVOUR presso la cancelleria della CORTE DI CASSAZICNE, rappresentata e difesa degli Avvocati MARIA CARIDDI e VINCENZO BASTA, giusta procura in calce;

  • ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;

  • controricorrente –

avverso la sentenza n 131/2012 della COMM. TRIB. REG. di MILANO, depositata il 26/10/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 15/05/2019 dal Consigliere Dott. FRANCESCO FEDERICI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. STANISLAO DE MATTEIS che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

La Impresa GEI s.r.l. ha proposto ricorso avverso la sentenza n. 131/49/2012, depositata il 26.10.2012 dalla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, con la quale era confermata la sentenza di primo grado di rigetto del ricorso contro l’avviso di accertamento relativo all’anno d’imposta 2004, fondato sul rilevato scostamento dallo studio di settore applicabile al caso di specie.

Ha rappresentato in particolare che l’Amministrazione aveva applicato il cluster relativo all’attività di costruzione, rideterminando induttivamente i ricavi della contribuente ed accertando maggiori imposte a titolo di Irpef, Irap ed Iva.

Il ricorso avverso l’atto impositivo era stato rigettato dalla Commissione Tributaria Provinciale di Bergamo con sentenza n. 189/08/2011. L’appello proposto dalla società era rigettato dalla Commissione Tributaria Regionale lombarda con la decisione ora al vaglio della Corte. Con essa, in sintesi, si riteneva che dal contraddittorio ritualmente instaurato tra Agenzia e contribuente non fossero emersi elementi significativi, atti a giustificare lo scostamento dal reddito medio di settore.

La società censura con due motivi la sentenza:

con il primo per violazione e falsa applicazione del D.L. n. 331 del 1993, art. 62 sexies, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per aver erroneamente valutato la correttezza degli esiti dell’accertamento induttivo, fondato solo sulle risultanze evincibili dallo scostamento reddituale tra il dichiarato e lo studio di settore, senza neppure spiegare l’applicazione del cluster n. 32 all’impresa sottoposta a controllo;

con il secondo per violazione dell’art. 112 c.p.c. e della L. n. 212 del 2000, art. 7, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4, per non aver allegato i documenti pur richiamati nell’atto impositivo;

Ha chiesto dunque la cassazione della sentenza, con decisione nel merito.

Si è costituita l’Agenzia, che ha contestato i motivi di ricorso, di cui ha chiesto il rigetto.

Motivi della decisione

Il primo motivo è infondato. Con esso la contribuente sostiene che la decisione del giudice d’appello sarebbe fondata sul solo riscontro dello scostamento tra redditi dichiarati e quanto emergente dall’applicazione dello studio di settore, senza tener conto delle ragioni emerse nel contraddittorio instaurato tra le parti nella fase endoprocedimentale dell’accertamento.

Va premesso che ormai consolidata giurisprudenza di legittimità afferma che la procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è ex lege determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli “standards” in sè considerati -meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività- ma nasce solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente con il contribuente, pena la nullità dell’accertamento. In tale sede quest’ultimo ha l’onere di provare, senza limitazione alcuna di mezzi e di contenuto, la sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui possono essere applicati gli “standards” o la specifica realtà dell’attività economica nel periodo di tempo in esame, mentre la motivazione dell’atto di accertamento non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell’applicabilità in concreto dello “standard” prescelto e con le ragioni per le quali non sono state ritenute attendibili le allegazioni del contribuente. L’esito del contraddittorio non condiziona peraltro l’impugnabilità dell’accertamento, potendo il giudice tributario liberamente valutare tanto l’applicabilità degli “standards” al caso concreto, il cui onere probatorio grava sull’ente impositore, quanto la controprova offerta dal contribuente (Cass., Sez. U., sent. n. 26635 del 2009; più di recente, 13908/2018; 9484/2017; 21754/2017; 14091/2017). A maggior chiarimento delle conseguenze derivanti dalla ripartizione dell’onere probatorio, si è anche affermato che ogni qual volta il contraddittorio sia stato regolarmente attivato e il contribuente abbia omesso di parteciparvi, oppure, anche partecipando, non abbia allegato alcunchè per spiegare lo scostamento, l’Ufficio non è più tenuto ad offrire alcuna ulteriore dimostrazione della pretesa esercitata in ragione del semplice disallineamento del reddito dichiarato rispetto ai menzionati parametri (cfr. sent. 21754/2017 cit.; da ultimo anche ord. n. 27617/2018). In questo caso infatti la rilevazione dello scostamento, a fronte dell’assenza di elementi con cui il contribuente ne spieghi la sussistenza, assume la dignità di indizio grave e preciso, idoneo, pur se unico, a supportare la dimostrazione del fatto ancora sconosciuto, ai sensi dell’art. 2729 c.c..

Così perimetrato l’alveo applicativo sulle regole di accertamento riconducibili agli studi di settore, la censura che la società muove alla decisone è priva di fondamento. Al contrario della doglianza, secondo cui il giudice regionale ha validato l’atto impositivo sulla sola base dello scostamento del reddito del contribuente dagli studi di settore, la sentenza ha prima sottolineato il rispetto del contraddittorio, e poi, in merito alle spiegazioni rese dalla contribuente, ha evidenziato che “la ricorrente non ha in alcun modo fornito spiegazioni riguardo allo scostamento, limitandosi ad esporre la tipologia dell’attività svolta, con l’allegazione di una pubblicazione esplicativa. Infine, lo standard prescelto, in mancanza di un diverso standard, che il ricorrente non ha precisato, si manifesta adeguato all’attività svolta. Come dedotto dall’Ufficio lo studio di settore (OMISSIS) applicato al caso che ci occupa, in vigore dal periodo d’imposta 2002, costituisce l’evoluzione dello studio (OMISSIS), riuscendo a fornire in maniera adeguata la posizione del ricorrente.”.

La motivazione, sia pur sintetica, coglie nel segno. Tutta la difesa della società – e ciò trova conferma anche nei contenuti del ricorso introduttivo del presente giudizio – è sostanzialmente riconducibile ad una critica ai cluster applicato dalla Amministrazione (n. 32, relativo alle “grandi imprese”). Sennonchè la contribuente con tale difesa non ha allegato alcun elemento a spiegazione dello scostamento tra il dichiarato ed il reddito dello studio di settore individuato dall’Ufficio; inoltre, proprio tenendo conto della descrizione della tipologia di lavori eseguiti nel settore delle costruzioni, le ragioni addotte a contestazione del cluster applicato si rivelano non solo generiche, ma oltremodo contraddittorie con la pretesa di escludere l’attività esercitata dallo studio di settore applicato. Ne consegue che nè può affermarsi che l’Amministrazione abbia emesso un atto di accertamento viziato per non aver tenuto conto delle difese della contribuente, nè che il giudice d’appello abbia errato nella applicazione delle regole normative a presidio dell’accertamento induttivo previsto dall’art. 62 sexies cit..

Non può neppure affermarsi che la sentenza sia viziata per aver violato i principi sull’accertamento induttivo per mancanza di uno scostamento significativo tra il reddito dichiarato e quello desumibile dal cluster applicato per lo studio di settore (scostamento del 4,89%).

A prescindere dalla applicabilità al caso di specie del presupposto della “grave incongruenza”, trattandosi di accertamento successivo all’1.01.2007 (in merito alla applicabilità del presupposto previsto dal D.L. n. 331 del 1993, art. 62 sexies, comma 3, pur dopo la modifica apportata alla L. n. 146 del 1998, art. 10, comma 1, dalla L. n. 296 del 2006, art. 1, comma 23, cfr. già Sez. U, sent. n. 26635/2009, sino alla recente Cass., n. 8854/2019), a monte vi è che il criterio della cd. grave incongruenza non va solo ancorato ad un dato numerico riconducibile alla percentuale di scostamento (7, 8, 10% ?), ma ad una valutazione più complessa, che non può ignorare, a giudizio di questo Collegio, il risultato in sè dello scostamento, dovendo altrimenti ritenersi che a fronte di imprese molto grandi, la cui singola unità percentuale di scostamento può equivalere a milioni di Euro rispetto ai complessivi ricavi sociali, anche differenze di tale portata dovrebbero considerarsi prive del requisito della grave incongruenza. E nel caso di specie lo scostamento tra quanto dichiarato dalla contribuente e il risultato di riferimento dello studio di settore era pacificamente pari ad oltre 200.000,00 Euro, come peraltro è stato rilevato dalla sentenza del giudice regionale.

Infine il riferimento, nelle difese della contribuente, alla successiva introduzione del par. 3 ter al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 2 (scostamento del 15%) non può assumere rilievo, perchè quella novella, a prescindere dai tempi della sua introduzione, riguarda l’ipotesi di omissioni nelle dichiarazioni e l’applicabilità di presunzioni supersemplici.

In conclusione il primo motivo va rigettato.

E’ infondato anche il secondo motivo, con il quale la società, dolendosi della mancata allegazione dei documenti pur menzionati nell’atto impositivo, denuncia un error iuris in iudicando ed un error iuris in procedendo per non essere stata affrontata la questione dalla Commissione regionale.

A parte che il motivo sfiora l’inammissibilità per la commistione dei vizi denunciati (ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, nn. 3 e 4) senza che nell’esposizione della censura siano tenute distinte le suddette critiche, esso è inammissibile perchè in sede d’appello la questione fu accennata solo nell’alveo del vizio di insufficienza della motivazione della sentenza di primo grado, che la commissione regionale rigettò. Trattasi in ogni caso di una censura del tutto infondata, perchè la contribuente sosterrebbe un vizio dell’atto impositivo per l’omessa allegazione della documentazione relativa al metodo di calcolo dei ricavi secondo lo studio di settore. E’ evidente tuttavia che si tratti di documentazione pubblica (ad es. il decreto ministeriale relativo allo studio di settore), che non doveva essere allegata all’avviso di accertamento e che era in ogni caso di agevole acquisibilità.

In conclusione i motivi vanno rigettati.

Al rigetto del ricorso segue la soccombenza del contribuente nelle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano nella misura specificata in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente alla rifusione in favore della Agenzia delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in Euro 6.000,00 per competenze, oltre spese prenotate a debito. Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, nella misura pari a quello previsto per il ricorso, a norma del medesimo art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 15 maggio 2019.

Depositato in Cancelleria il 9 giugno 2020