201806.06
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Cass., sez. trib., 6 giugno 2018, n. 14579 (testo)

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LOCATELLI Giuseppe – Presidente –

Dott. CRUCITTI Roberta – Consigliere –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – rel. Consigliere –

Dott. VENEGONI Andrea – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 19347/2012 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

DELAVILLE SRL, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA GIAN GIACOMO PORRO 8 STUDIO GCP-STUDIO LEGALE E TRIBUTARIO, presso lo studio dell’avvocato FRANCESCO FALCITELLI, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato PAOLO BERRUTI con procura speciale del Not. Dr. D.C. in MILANO rep. n. (OMISSIS);

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 300/2012 della COMM.TRIB.REG. di ROMA, depositata il 09/05/2012;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 28/03/2018 dal Consigliere Dott. FRANCESCO FEDERICI;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. VISONA Stefano, che ha concluso per l’inammissibilità del 1 motivo di ricorso e l’accoglimento del 2 e 3;

udito per il ricorrente l’Avvocato FIANDACA che ha chiesto l’accoglimento;

udito per il controricorrente l’Avvocato FALCINELLI che ha chiesto il rigetto.

Svolgimento del processo

L’Agenzia delle Entrate con tre motivi proponeva ricorso avverso la sentenza n. 300/14/12, depositata il 9.05.2012 dalla Commissione Tributaria Regionale del Lazio;

riferiva che a seguito di verifica eseguita da militari della GdF presso la sede legale della Delaville s.r.l., l’Amministrazione notificava alla società l’avviso di accertamento n. (OMISSIS), con il quale era rettificato in aumento di Euro 1.150.379,00 il reddito di impresa relativo all’anno 2004, importo corrispondente ai costi di produzione di servizi resi da una società appartenente al medesimo gruppo di imprese, con sede all’estero, perchè ritenuti indeducibili.

La società, che al contrario sosteneva l’inerenza dei costi e le erronee valutazioni dell’Ufficio, impugnava l’atto impositivo dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Roma, che con sentenza depositata il 12.05.2011 accoglieva il ricorso. L’Agenzia appellava la sentenza dinanzi alla Commissione Tributaria Regionale, che con la sentenza ora oggetto di ricorso ne respingeva però le doglianze.

L’Agenzia ha censurato la sentenza:

con il primo motivo per violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 10 e 11, nonchè dell’art. 75 c.p.c., comma 3, e art. 83 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), rilevando la nullità della sentenza per difetto di legittimazione processuale della società e vizio della procura alle liti conferita nel ricorso introduttivo dinanzi al giudice di primo grado;

con il secondo motivo per violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, del D.P.R. n. 633 del 1973, artt. 17, 21 e 23, degli artt. 2697, 2727 e 2729 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per l’erronea applicazione della disciplina in merito alla inerenza dei costi ed alla fatturazione delle operazioni;

con il terzo motivo per insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in merito alla idoneità della documentazione a provare l’effettività e l’inerenza dei costi.

In conclusione ha chiesto la cassazione della sentenza.

Si costituiva la società, che preliminarmente eccepiva l’inammissibilità del ricorso per violazione del principio di autosufficienza; l’inammissibilità del secondo e terzo motivo perchè con essi l’Agenzia chiedeva un riesame nel merito della controversia; l’illegittimità del ricorso per la formazione del giudicato esterno nel giudizio avente le medesime parti ed il medesimo oggetto, relativo all’anno d’imposta 2003, definitosi con sentenza depositata dalla Commissione Tributaria Regionale del Lazio il 30 giugno 2011, mai impugnata dalla Amministrazione. Nel merito contestava i motivi di ricorso di cui ne chiedeva il rigetto.

All’udienza del 28 marzo 2018, dopo la discussione, il PG e le parti hanno concluso e la causa è stata riservata per la decisione.

Motivi della decisione

Esaminando le questioni preliminari proposte, non trova accoglimento l’eccepita inammissibilità del ricorso introdotto dalla Agenzia per difetto di autosufficienza. L’atto infatti, in rapporto alle doglianze sollevate, la prima attinente ad un vizio di legge processuale, la seconda ad un vizio di legge sostanziale, la terza ad un vizio motivazionale, contiene la documentazione sufficiente a superare il vaglio di ammissibilità, non riscontrandosi passaggi della difesa che rinviino a documentazione non riprodotta, nè potendosi affermare che la documentazione menzionata e trascritta impedisca all’organo giudicante l’esame della stessa per le parti di essa utili a valutare le argomentazioni difensive.

Non trova accoglimento neppure la seconda eccezione per come formulata, facendosi questione di corretta o erronea applicazione dei principi giuridici enucleabili dalle norme invocate con il secondo motivo e questione di carenza motivazionale sotto i profili della insufficienza e della contraddittorietà della motivazione con il terzo motivo, entrambi astrattamente ammissibili.

Neppure fondata è l’eccezione di giudicato esterno invocata con riferimento alla sentenza n. 319/38/2011 depositata il 30 giugno 2011 dalla Commissione Tributaria Regionale del Lazio, che la Agenzia ha inteso non impugnare. A tal fine è sufficiente evidenziare che, pur relativa ad una controversia insorta tra le medesime parti, per i medesimi tributi e con medesime questioni giuridiche, essa afferisce ad un diverso anno d’imposta, il 2003, per la deduzione di costi distinti, perchè distinte erano le fatture e le prestazioni offerte, sicchè del tutto estranei sono i presupposti di fatto e distinta è l’identità del rapporto tributario per i due anni d’imposta. Costituisce infatti principio reiterato quello secondo cui, in materia tributaria, l’effetto vincolante del giudicato esterno in relazione alle imposte periodiche deve essere riconosciuto nei casi in cui vengano in esame fatti che, per legge, hanno efficacia permanente o pluriennale, producendo effetti per un arco di tempo che comprende più periodi di imposta, o nei quali l’accertamento concerne la qualificazione di un rapporto ad esecuzione prolungata (cfr. Cass., sent. n. 21395 del 2017). D’altronde, persino quando si tratti di imposte periodiche come l’ICI, si è affermato che la sentenza che abbia deciso con efficacia di giudicato relativamente ad alcune annualità fa stato anche per annualità diverse solo in relazione a quei fatti che appaiano elementi costitutivi della fattispecie a carattere tendenzialmente permanente ma non con riferimento ad elementi variabili (cfr. Cass., sent. n. 1300 del 2018). Nel caso che ci occupa, trattandosi di costi relativi a prestazioni di servizi che possono mutare per qualità, modalità e quantità di anno in anno, la fattispecie esula dalla possibilità di riconoscere l’efficacia espansiva del giudicato formatosi in una controversia relativa ad una diversa annualità.

Esaminando ora il merito, è inammissibile il primo motivo di ricorso, con il quale l’Agenzia sostiene la nullità della sentenza perchè nell’atto originario introduttivo del contenzioso la procura al difensore sarebbe stata conferita da persona in quel momento carente di potere rappresentativo della società. A tal fine è sufficiente rammentare che l’eventuale nullità della procura al difensore non determina l’inesistenza dell’atto di citazione, con la conseguenza da un canto che quest’ultimo è idoneo ad introdurre il processo e ad attivare il potere-dovere del giudice di decidere, dall’altro, che l’atto conclusivo del processo, ossia la sentenza, è nullo per carenza di un presupposto processuale per la valida costituzione del processo, ma non inesistente, ed è perciò suscettibile di passaggio in giudicato in caso di mancata, tempestiva impugnazione. Pertanto, qualora la nullità non sia stata fatta valere in appello, essa non può essere dedotta per la prima volta nel giudizio di legittimità, a causa dell’intervenuta preclusione derivante dal principio di cui all’art. 161 c.p.c., secondo il quale tutti i motivi di nullità della sentenza si convertono in motivi di impugnazione (Cass., sent. n. 20348 del 2010; n. 4020 del 2006). D’altronde si è anche affermato che con l’impugnazione della sentenza d’appello non può essere messa in discussione l’ammissibilità della costituzione nel procedimento di secondo grado, sotto il profilo del difetto di ritualità e validità della procura conferita dalla parte appellante, ove la questione non sia stata tempestivamente sollevata nello stesso secondo grado di giudizio, nel quale il giudice non abbia ritenuto d’ufficio di dovere richiedere alla parte la dimostrazione dell’effettività e della legittimità dei relativi poteri rappresentativi (Cass., sent. n. 12461 del 2017; in una prospettiva diversa ma ugualmente significativa cfr. anche Cass., sent. n. 2443 del 2016). In conclusione il motivo non può essere esaminato.

Il secondo ed il terzo motivo vanno invece trattati unitariamente, perchè entrambi riferiti, sotto il profilo del vizio di legge e del vizio motivazionale, alla interpretazione resa dal giudice regionale in ordine alla inerenza dei costi sostenuti dalla società e come tali disconosciuti dall’Ufficio.

Il concetto di inerenza, secondo l’interpretazione tradizionale, trova allocazione nel D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, e in particolare è ricondotto al rapporto tra costo ed impresa. La giurisprudenza di legittimità è stata solita affermare che, con riguardo alla determinazione del reddito d’impresa, l’inerenza all’attività d’impresa delle singole spese e dei costi affrontati, indispensabile per ottenerne la deduzione D.P.R. n. 917 del 1986, ex art. 109 (già 75), va definita come una relazione tra due concetti – la spesa (o il costo) e l’impresa – sicchè il costo (o la spesa) assume rilevanza ai fini della qualificazione della base imponibile non tanto per la sua esplicita e diretta connessione ad una precisa componente di reddito, bensì in virtù della sua correlazione con un’attività potenzialmente idonea a produrre utili (cfr. Sez. 5, ord. n. 20049 del 2017; ord. n. 11241 del 2017; sent. n. 4041 del 2015). L’ampiezza dello spettro entro cui riconoscere un rapporto di inerenza è stato parimenti scrutinato dalla giurisprudenza, sensibile a non ridurre la relazione entro criteri meramente formali, ampliandone invece la portata mediante la valorizzazione del rapporto e delle ricadute concrete tra spesa e coerenza economica con l’attività di impresa. Così se per un verso si è negato che il rapporto trovi conforto nella mera contabilizzazione del costo (tra le tante, Sez. 5, sent. n. 21184 del 2014) e che al contrario sia necessario e incombente sul contribuente l’onere di allegazione della documentazione di supporto da cui ricavare l’importo, la ragione e la coerenza economica della spesa al fine della prova dell’inerenza (anche qui, tra le tante, anche recenti, Sez. 5, ord. n. 13300 del 2017; con specifico riferimento all’Iva cfr. Sez. 5, sent. n. 22130 del 2013), per altro verso è stato opportunamente e condivisibilmente avvertito come ai fini della deducibilità dei costi per la determinazione del reddito d’impresa non è sufficiente che l’attività svolta rientri tra quelle previste nello statuto sociale, circostanza che ha un valore meramente indiziario circa la sua inerenza all’effettivo esercizio dell’impresa, incombendo sul contribuente l’onere di dimostrare che un’operazione, anche apparentemente isolata e non diretta al mercato, sia inserita in una specifica attività imprenditoriale e destinata, almeno in prospettiva, a generare un lucro in proprio favore (Sez. 5, sent. n. 3746 del 2015). Il che introduce un criterio interpretativo non solo utilizzabile per negare inerenza a spese finalizzate esclusivamente al conseguimento di vantaggi fiscali (come per la fattispecie analizzata nella pronuncia da ultimo citata), ma anche, al contrario, per valorizzare spese che concretamente, in prospettive di ampia visione, si rivelino vantaggiose per il progetto imprenditoriale.

Sicchè, tale ultimo rilievo torna utile quando la stessa Corte, di recente, è sembrata che abbandonasse il tradizionale criterio del rapporto tra costo e requisiti di congruità e vantaggiosità dello stesso, prendendo le distanze dall’art. 109 Tuir – quale fondamento normativo del concetto di inerenza -. In particolare si è affermato che, in tema di imposte sui redditi delle società, il principio dell’inerenza dei costi deducibili si ricava dalla nozione di reddito d’impresa, e non dal D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, comma 5 (già art. 75), riguardante il diverso principio della correlazione tra costi deducibili e ricavi tassabili, ed esprime la necessità di riferire i costi sopportati all’esercizio dell’attività imprenditoriale, escludendo quelli che si collocano in una sfera estranea ad essa, senza che si debba compiere alcuna valutazione in termini di utilità, anche solo potenziale o indiretta, in quanto è configurabile come costo anche ciò che non reca alcun vantaggio economico e non assumendo rilevanza la congruità delle spese, perchè il giudizio sull’inerenza è di carattere qualitativo e non quantitativo (Sez. 5, ord. n. 450 del 2018). L’impostazione da ultimo riferita è ben meno lontana dalla tradizionale interpretazione. Infatti, quando si consideri che per un verso viene valorizzato il rapporto, caldeggiato da autorevole dottrina, tra spesa e sua riferibilità, immediata o mediata, alla produzione del reddito (con esclusione dunque di quelle spese afferenti la cd. dispogizione del reddito), e per altro verso si instaura il rapporto tra spesa e reddito di impresa, l’abbandono dei requisiti della vantaggiosità e congruità del costo non vuol significare che essi siano del tutto esclusi dal giudizio di valore cui resta comunque sottoposta la spesa al fine del riconoscimento della sua inerenza e dei presupposti per la sua deducibilità. Infatti, qualunque sia il concetto di impresa, anche nelle teorie più socialmente orientate a svilirne finalità di utile economico, e, per le società, lo scopo del conseguimento degli utili (ai fini del fisco elemento di manifestazione di ricchezza e dunque presupposto stesso della tassazione), non può certo negarsi l’esigenza di applicazione di buone regole di amministrazione dell’attività d’impresa, che contrasta con spese svantaggiose, incongrue e sproporzionate – ovviamente secondo un giudizio prognostico a monte, e non in rapporto all’esito, dovendosi altrimenti negare il rischio d’impresa -. Ebbene, è ipotizzabile con sufficiente certezza che spese incongrue o svantaggiose conducano alla mala gestione dell’impresa e da ultimo alla sua estinzione, sicchè i criteri, apparentemente estromessi, tornano ad assumere indirettamente rilevanza, come la stessa sentenza evidenzia nella parte conclusiva delle sue argomentazioni, affermando che “l’antieconomicità e l’incongruità della spesa sono indici rivelativi della mancanza di inerenza, pur non identificandosi con essa”.

Tenendo presenti le preliminari considerazioni sul concetto di inerenza, l’Amministrazione lamenta che nel giudizio di valore espresso dalla Commissione regionale, che ha riconosciuto la deducibilità dei costi portati nelle autofatture della Delaville s.r.l., vi sia una erronea applicazione della disciplina sulla inerenza dei costi e sulla fatturazione delle operazioni, con motivazione peraltro insufficiente e contraddittoria in ordine alla idoneità della documentazione a provare l’effettività e l’inerenza dei costi medesimi.

Deve chiarirsi che la fattispecie per cui è causa, come emerge dall’avviso di accertamento e dalle difese delle parti, è relativa al rapporto commerciale esistente tra la Delaville srl, società esercente attività alberghiera in Roma con una importante e prestigiosa struttura – facente parte di una altrettanto prestigiosa catena alberghiera allocata in vari Stati del mondo sotto la sigla IHC (Intercontinental Hotels Group) -, e la società Intercontinental Hotels Group Plc con sede in Londra, preposta alla gestione di una serie di servizi comuni per tutte le sedi turistico – alberghiere del gruppo. In altri termini una società che sostiene costi di regia per tutte le società del gruppo.

La sentenza impugnata sostiene che “alla luce della documentazione in atti deve ritenersi, come del resto ha affermato la Commissione di primo grado, con motivazione congrua e dopo un attento esame della normativa sopra richiamata, che nel caso di specie non è ravvisabile la violazione del D.P.R. n. 917 del 1986, art. 109, poichè l’inerenza dei costi sostenuti dalla società per l’attività svolta è sufficientemente dimostrata dalla dizione “contratto di commercializzazione” contenuta nelle autofatture emesse in lingua italiana dalla società contribuente, che appare chiaramente riferita ai costi inerenti all’attività svolta dalla società ed effettivamente sostenuti per i servizi (marketing, pubblicità, promozione, sviluppo e comunicazione diretti al posizionamento sul mercato) e come tali quindi deducibili. Allo stesso modo e per le stesse ragioni non può ritenersi sussistente la presunta violazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 21, (fatturazione delle operazioni) ai fini IVA, soprattutto se si prendono in considerazione le autofatture emesse in lingua italiana dalla società contribuente. A voler diversamente argomentare si finirebbe per accreditare una applicazione meramente formale della normativa, che mal si concilia con la situazione sostanziale, dalla quale emerge che la società contribuente ha contabilizzato e dedotto i relativi costi dei servizi, dimostrando la effettività e l’inerenza delle prestazioni, mediante la produzione documentale in atti”.

Dunque la sentenza, sia pur sinteticamente, ha esaminato la pronuncia di primo grado, riconoscendo la congruità della stessa, reputando la sufficienza del riferimento nelle autofatturazioni al “contratto di commercializzazione” intervenuto tra la società, straniera, e la contribuente, per la fruizione di servizi vari prestati dalla prima, anche questi dettagliatamente riportati in motivazione, quali marketing, pubblicità, promozione, sviluppo e comunicazione “diretti al posizionamento sul mercato”. Ha inoltre riconosciuto la regolarità delle autofatturazioni formate in lingua italiana, riconducendo a queste la descrizione delle operazioni e non, al contrario di quanto emerso nell’avviso di accertamento, alle fatture scritte in lingua inglese. Ha criticato la posizione della Amministrazione, orientata, secondo la sentenza, ad una applicazione meramente formale della normativa, inconciliabile con la situazione sostanziale emergente dalla produzione documentale in atti.

A fronte di tale argomentazione, che mostra una valutazione, come già detto, sintetica ma ponderata ed esaustiva della documentazione disponibile, nonchè una adesione critica e consapevole alle motivazioni del giudice provinciale, e come tale perfettamente legittima anche ove voglia ritenersi che la motivazione sia stata formulata per relationem (così sostiene l’Amministrazione, con ciò però confondendo questa tipologia di motivazione con quella, qui presente, adesiva ma ad un tempo autonoma rispetto alla pronuncia impugnata), l’Ufficio ha ritenuto di evidenziare i limiti e la sostanziale erronea applicazione delle norme relative al concetto di inerenza, sotto il profilo del concetto e sotto l’aspetto della prova.

Sennonchè, premesso che nel caso che ci occupa non è stata messa in discussione la congruità o la vantaggiosità delle spese, insistendosi invece sulla genericità descrittiva dei documenti fiscali riportanti quelle spese, l’Amministrazione non si avvede che l’avviso di accertamento, riprodotto nel ricorso nelle parti che qui interessano, è motivato sulla insufficienza dei dati emergenti dalle fatture in lingua inglese, ma non fa alcun riferimento alle autofatture. La difesa cerca ora di recuperare criticamente anche queste ultime; sennonchè, a parte la assenza di ogni riscontro del loro preventivo esame in sede di accertamento e poi di riferimento nel giudizio di primo grado, in esse è incontestabilmente presente sia il riferimento al “contratto di commercializzazione”, che poi era l’accordo generale intercorrente tra la contribuente e la società di servizi straniera erogatrice di quei servizi (pacificamente riconosciuto nelle difese anche dalla Amministrazione come quello risalente al 1983), ed i servizi erogati. Questi sono riconducibili a quanto contenuto nell’oggetto del contratto di commercializzazione. Comunque la stessa tipologia di attività economica, quella turistico alberghiera, la ovvia necessità di raccordo tra alberghi di lusso appartenenti alla medesima catena imprenditoriale, il genere stesso di servizi – marketing, pubblicità, sviluppo del mercato, ecc… – perfettamente sintonizzati con l’attività economica svolta, e ciò sia che della nozione di inerenza voglia privilegiarsi la tradizionale colleganza ai criteri della vantaggiosità e congruità della spesa, sia che si voglia valorizzare il giudizio qualitativo collegabile al reddito di impresa di più recente elezione, sono tutti elementi che la sentenza ha tenuto ben presente prima di concludere per il riconoscimento della sussistenza della inerenza dei costi, secondo un criterio non meramente formale ma sostanziale.

D’altronde, anche sul piano dell’onere della prova, è pur vero che di ciò è onerato il contribuente ai sensi dell’art. 2697 c.c., e che non è sufficiente che la spesa sia stata dall’imprenditore riconosciuta e contabilizzata, atteso che essa può essere correttamente inserita nella contabilità aziendale solo se esiste una documentazione di supporto, dalla quale possa ricavarsi oltre che l’importo la ragione della stessa e la sua coerenza economica, altrimenti risultando legittima la negazione della sua deducibilità, quale costo estraneo ai ricavi o all’oggetto dell’impresa (Cass., Sez. 6-5, ord. n. 11241 del 2017; Sez. 5, ord. n. 13300 cit.; sent. n. 10269 del 2017; sent. n. 9818 del 2016, sent. n. 6650 del 2006); ma la sentenza impugnata mostra di aver riconosciuto che l’onere probatorio era stato assolto dal contribuente ed ha tenuto conto della suddetta documentazione, avendo aderito alla pronuncia di primo grado, che a sua volta, come riportato nello stesso ricorso dell’Ufficio, attestava della produzione in atti di “accordi di fornitura, documentazione campagne di promozione sul brand, documentazione attestante connessione della Delaville a diversi sistemi di prenotazione su scala globale, estratti di conto corrente bancario su cui sono stati eseguiti i bonifici di pagamento delle fatture”.

Per le medesime osservazioni deve riconoscersi l’infondatezza del denunciato vizio motivazionale.

In materia di vizio di motivazione la Corte ha affermato che la sua deduzione non attribuisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, ma la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge. Ne consegue che il preteso vizio di motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della medesima, può legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili di ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico – giuridico posto a base della decisione (Cfr. Cass., Sez. 5, ord. n. 19547/2017; sent. n. 17477/2007).

Ebbene, nel caso che ci occupa il ragionamento del giudice regionale è ben ponderato, mostra di conoscere la documentazione allegata dalla società a sostegno delle proprie ragioni, è consapevole del rapporto esistente tra le società tra cui sono intercosi i servizi e i costi, è cosciente del rapporto di inerenza tra essi e l’attività economica svolta e della nozione stessa di inerenza. La sinteticità della motivazione non ne inficia la logica, la sequenzialità ordinata delle affermazioni, il rigore sul piano della rappresentazione de(dati emergenti. Peraltro non vi è l’obbligo, in capo al giudice, di rispondere a tutte le questioni poste dalla parte, quando la motivazione risulti comunque già ben sorretta dagli elementi presi in esame.

Le diverse prospettazioni cui aspira l’Agenzia sono volte ad una diversa ricostruzione dei fatti che implicherebbe però un riesame del tutto inammissibile, perchè riservato al giudice di merito ed inibito al giudice di legittimità.

in conclusione il ricorso va rigettato e all’esito del giudizio deve seguire la soccombenza della ricorrente nelle spese di causa, nella misura specificata in dispositivo.

P.Q.M.

rigetta il ricorso; condanna l’Agenzia a rifondere alla società controricorrente le spese di causa, che si liquidano in Euro 9.500,00 oltre spese nella misura forfettaria del 15% ed accessori come per legge.

Così deciso in Roma, il 28 marzo 2018.

Depositato in Cancelleria il 6 giugno 2018