202209.05
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Cass., sez. trib., 5 settembre 2022 (ord.), n. 26018 (testo)

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SORRENTINO Federico – Presidente –

Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –

Dott. DE ROSA Maria Luisa – Consigliere –

Dott. FEDERICI Francesco – rel. Consigliere –

Dott. D’AQUINO Filippo – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 22175/2013 proposto da:

2o2 AGENZIA DELLE ENTRATE, cf (OMISSIS), in persona del Direttore p.t., elettivamente domiciliata in Roma, via dei Portoghesi n. 12, presso l’Avvocatura Generale dello Stato, che la rappresenta e difende ope legis;

Ricorrente CONTRO

P.M., cf. (OMISSIS), elettivamente domiciliato in Roma alla via Porta Pertusa n. 4, presso lo studio dell’avv. Ottorino Agati, rappresentato e difeso dall’avv. Antonino Attanasio;

Controricorrente Avverso la sentenza n. 103/35/2011 della Commissione tributaria regionale della Toscana, depositata il 22 novembre 2011;

udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio il 10 marzo 2022 dal Consigliere Dott. Francesco Federici,

Svolgimento del processo

Con l’atto impositivo erano stati rideterminati i ricavi relativi all’esercizio dell’attività di tassista in (OMISSIS), accertati nella misura di Euro 58.842,00 a fronte dei dichiarati Euro 18.869,00. Ne era derivata la contestazione di maggiori imposte, oltre interessi e sanzioni amministrative. L’accertamento era stato avviato perché, pur nella formale regolarità delle scritture contabili e nella coerenza del dichiarato con lo studio di settore applicato, i ricavi e i compensi erano stati ritenuti poco credibili. Si era pertanto proceduto ad un accertamento analitico-induttivo ai sensi del D.P.R. n.600 del 29 settembre 1973, art. 39, comma 1, lett. d), e del D.L. n. 331 del 30 agosto 1993, art. 62 sexies, comma 3, conv. in L. n. 427 del 29 ottobre 1993.

L’Agenzia delle entrate ha proposto ricorso avverso la sentenza n. 103/35/2011, depositata il 22.11.2011 dalla Commissione tributaria regionale della Toscana, che, riformando la pronuncia di primo grado, aveva accolto l’impugnazione dell’avviso di accertamento notificato a P.M. per l’anno d’imposta 2003.

Era seguito il contenzioso dinanzi alle commissioni tributarie toscane. In primo grado, con sentenza n. 76/19/2009, la Commissione provinciale aveva rigettato le doglianze del contribuente. La Commissione regionale invece, con la sentenza ora impugnata, aveva accolto integralmente il ricorso introduttivo del P.. Il giudice d’appello ha affermato la correttezza delle doglianze proposte in appello dal contribuente, ritenendo prive dei requisiti della gravità, precisione e concordanza le presunzioni su cui l’ufficio aveva ritenuto di fondare l’atto impositivo.

L’Agenzia delle entrate ha censurato la sentenza del giudice d’appello con due motivi, chiedendo la cassazione della decisione, cui ha resistito con controricorso il contribuente.

Nell’udienza camerale del 10 marzo 2022 la causa è stata trattata e decisa.

Motivi della decisione

Con il primo motivo l’Agenzia delle entrate si duole del vizio di motivazione, ritenuta insufficiente, contraddittoria e illogica, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5 Lamenta in particolare che il giudice d’appello non avrebbe ponderato tutti gli elementi, dettagliati ed esaustivi, contenuti nella motivazione dell’avviso di accertamento. Parimenti non avrebbe considerato quanto illustrato nelle difese articolate in sede d’appello.

Deve premettersi che, trattandosi di decisione pubblicata in epoca anteriore alla novella dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, introdotta dal D.L. n. 83 del 22 giugno 2012, art. 54, comma 1, lett. b), convertito con modificazioni in L. 7 agosto 2012, n. 134, ad esso trova applicazione la precedente formulazione della norma. In materia di vizio di motivazione questa Corte ha affermato che la sua deduzione non attribuisce al giudice di legittimità il potere di riesaminare il merito dell’intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, ma la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge. Ne consegue che il preteso vizio di motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della medesima, può legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato o insufficiente esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili di ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico giuridico posto a base della decisione (Cfr. Cass., 24 maggio 2018, n. 12967; 4 agosto 2017, n. 19547; 9 agosto 2007, n. 17477).

Nel caso ora all’attenzione della Corte il giudice toscano ha scrutinato le ragioni poste a fondamento dell’atto impositivo (chilometri percorsi nell’anno ricavati dalla scheda carburante; percorrenza di una corsa media desunta da presunti studi statistici, costo relativo ad una corsa media rilevato dal tariffario comunale, ecc.). Ne ha ponderato la rilevanza, evidenziando che la redditività presunta del servizio prestato fosse frutto di semplici calcoli matematici, con una diminuzione (arbitraria) della percentuale di chilometri annualmente percorsi per uso privato dall’autovettura e conseguente aumento (arbitrario) dei chilometri percorsi in occasione del servizio taxi offerto; ha evidenziato che anche la percorrenza di una corsa media era frutto di una mera presunzione. Ha rilevato che la difesa del contribuente aveva di contro dimostrato che non esisteva uno studio dell’ufficio statistico del Comune di (OMISSIS) sulle percorrenze medie di ogni corsa e sul costo medio; che pertanto non esisteva neppure una tariffa media. Ha illustrato i limiti del ragionamento presuntivo condotto dall’Agenzia delle entrate (ad esempio le percorrenze a vuoto nelle corse a chiamata); ha concluso che le presunzioni su cui l’accertamento era stato fondato fossero prive del carattere della gravità, precisione e concordanza, ancora più evidente per la la coerenza delle dichiarazioni fiscali del tassista con gli studi di settore. Ha pertanto accolto integralmente le ragioni del contribuente.

Dalla lettura della sentenza emerge la sufficienza, logicità e coerenza del ragionamento del giudice d’appello. Mancano dunque i presupposti stessi della critica rivolta alla pronuncia sotto il profilo del vizio motivazionale. In realtà la ricorrente pretende una rivalutazione nel merito degli elementi su cui sarebbe fondato l’atto impositivo. Ma tale valutazione, che si concretizza in un accertamento in fatto, è riservato esclusivamente al giudice di merito, mentre è inibito in sede di legittimità.

Il motivo è pertanto inammissibile.

Con il secondo motivo, in subordine, l’Agenzia delle entrate denuncia la violazione e falsa applicazione degli D.Lgs. n.546 del 31 dicembre 1992, artt. 2 e 35, comma 3, nonchè degli artt. 277 c.p.c. e del D.P.R. n.60 29 settembre 1973, art. 39, comma 1, lett. d), in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 per omessa decisione. Lamenta che il giudice, anche non volendo condividere le risultanze probatorie allegate dall’ufficio, avrebbe potuto rideterminare la percorrenza effettiva ed il conseguente maggior reddito del contribuente, limitandosi a ridimensionare il recupero ad imponibile così come accertato dall’ufficio.

Il motivo è inammissibile perchè del tutto eccentrico rispetto alla trama motivazionale della pronuncia impugnata, che ha evidenziato le gravi carenze probatorie della prova presuntiva allegata dall’Amministrazione finanziaria, sino a negarle i requisiti minimi richiesti dall’art. 2729 c.c., per assenza di gravità, precisione e concordanza degli elementi raccolti dall’ufficio.

Il ricorso va dunque dichiarato inammissibile.

Alla soccombenza della ricorrente segue la sua condanna alla rifusione delle spese processuali sostenute dal controricorrente, che si liquidano nella misura specificata in dispositivo. Rilevato che risulta soccombente una parte ammessa alla prenotazione a debito del contributo unificato per essere amministrazione pubblica difesa dall’Avvocatura Generale dello Stato, non si applica l’art. 13 comma 1- quater, D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115.

P.Q.M.

Dichiara il ricorso inammissibile. Condanna l’Agenzia delle entrate alla rifusione delle spese processuali in favore del controricorrente, che liquida nella misura di Euro 5.000,00 per competenze, Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali, nella misura forfettaria del 15%, e accessori come per legge.

Così deciso in Roma, il 10 marzo 2022.

Depositato in Cancelleria il 5 settembre 2022