Cass., sez. trib., 23 dicembre 2015, n. 25902 (testo)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PICCININNI Carlo – Presidente –
Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –
Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –
Dott. MARULLI Marco – rel. Consigliere –
Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 5731/2010 proposto da:
AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
V.S.;
– intimato –
avverso la sentenza n. 31/2009 della COMM.TRIB.REG. di NAPOLI, depositata il 02/02/2009;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 24/11/2015 dal Consigliere Dott. MARCO MARULLI;
udito per il ricorrente l’Avvocato PALATIELLO che si riporta al ricorso;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SORRENTINO Federico, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
1. Con sentenza depositata il 2.2.2009 la CTR Campania, respingendo il gravame dell’ufficio, ha confermato la decisione con cui in primo grado era stata dichiarata l’illegittimità dell’avviso di accertamento notificato a V.S. in ragione dello scostamento registrato tra i ricavi dichiarati dal medesimo per l’anno 2002 e quelli determinati in applicazione degli studi di settore.
La CTR ha respinto l’appello erariale avendo l’amministrazione adottato l’atto impugnato senza tener conto delle “motivazioni riportate nel contraddittorio”, sebbene quelli indicati dalla parte fossero “motivi facilmente verificabili dall’ufficio” come la vicinanza ai supermercati, l’inagibilità delle strade che portano all’esercizio da lui gestito, la chiusura dello stesso per riduzione del giro d’affari. Di più ha osservato il giudice territoriale, lo scostamento riscontrato nella specie pari al 6,4% tra ricavi dichiarati e ricavi accertati “non può considerarsi uno scostamento tale da non potersi ritenere nè congruo nè coerente”, come del resto si ricava dalla comparazione con l’accertamento reddituale regolato dal D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, che legittima la ripresa dei maggiori redditi accertati se lo scostamento è superiore al 25% e se l’incongruità consta per due o più periodi di imposta.
L’Agenzia delle Entrate ha ora chiesto la cassazione di detta sentenza sulla base di un solo motivo.
Non ha svolto attività difensiva la parte.
Motivi della decisione
2.1. Con l’unico motivo del proprio ricorso l’Agenzia delle Entrate si duole ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, dell’errore consumato dalla sentenza in ricorso nell’applicazione del D.L. n. 331 del 1993, art. 62 sexies, poichè, diversamente da quanto affermato dal decidente di appello, “nella fattispecie in esame al fisco basta applicare lo studio di settore”, sicchè “la pretesa risulta legittima perchè lo dispone la norma”, a nulla rilevando in contrario che “le argomentazioni svolte in ordine al quantum dello scostamento rilevato” e “le motivazioni addotte dal contribuente, che non sono tali da incidere in modo totale sugli elementi presi a base dell’accertamento”.
2.2. Il motivo è doppiamente infondato.
2.3. Lo è intanto con riguardo al principio affermato dalle SS.UU. di questa Corte che, sul filo della più generale premessa secondo cui “la procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è ex lege determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli “standards” in sè considerati – meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività – ma nasce solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento, con il contribuente”, ha definitivamente chiarito che, ferma la facoltà del contribuente sia nella fase amministrativa che in quella contenziosa, di allegare e provare, senza limitazioni di mezzi e di contenuto, la sussistenza di circostanze di fatto tali da allontanare la sua attività dal modello normale al quale i parametri fanno riferimento, sì da giustificare un reddito inferiore a quello che sarebbe stato normale secondo la procedura di accertamento tributario standardizzato, “la motivazione dell’atto di accertamento non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell’applicabilità in concreto dello standard prescelto e con le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente”.
Onde, non essendovi prova nella specie che l’accertamento in disamina sia stato anche debitamente motivato tenendo conto delle allegazioni in senso opposto operate in sede contraddittorio dalla parte – anzi essendovi prova del contrario, come con incensurato apprezzamento di fatto ha constatato il giudice d’appello riferendo che l’ufficio non ha voluto prendere in considerazione le motivazioni riportate nel contraddittorio, “quali vicinanze di supermercati”, “inagibilità delle strade per lavori”, “chiusura successiva dell’attività per riduzione del giro d’affari” – non giova all’ufficio assumere l’efficacia presuntiva propria degli studi di settore a fondamento della pretesa, poichè la pretesa si suffraga solo a seguito del positivo confronto con la parte e con la motivata confutazione delle ragioni da essa fatte valere in sede di contradditorio.
2.4. Ma l’accertamento è infondato anche per un secondo motivo, avendo questa Corte affermato che l’Amministrazione finanziaria non è legittimata a procedere all’accertamento induttivo, al di fuori delle ipotesi tipiche previste dal D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, lett. d), e del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 54, allorchè si verifichi un mero scostamento non significativo tra i ricavi, i compensi e i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dagli studi di settore di cui al D.L. 30 agosto 1993, n. 331, art. 62 bis, conv. con modif. dalla L. 29 ottobre 1993, n. 427, ma solo quando venga ravvisata una grave incongruenza secondo la previsione del successivo art. 62 sexies” (20414/14).
Come invero riconosciuto nell’occasione – ove si è ritenuto che non fosse rappresentativo di una “grave incongruenza” uno scostamento tra ricavi dichiarati e ricavi determinati in base agli studi di settore nella misura del 7% – analogamente si deve credere che non costituisca fonte di una “grave incongruenza” uno scostamento come quello qui rilevato pari al 6,4% e dunque, in difetto di questo presupposto, la decisione impugnata è conseguentemente immune da censure. 3. Il ricorso va dunque respinto.
Nulla per le spese in difetto di costituzione dell’intimato.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione Respinge il ricorso.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Quinta Civile, il 24 novembre 2015.
Depositato in Cancelleria il 23 dicembre 2015