Cass., sez. trib., 21 marzo 2018 (ord.), n. 7011 (testo)
Rilevato che
La G. s.r.l. propose ricorso avverso un avviso d’accertamento con cui, attraverso una rettifica induttiva del reddito, fu revocata un’agevolazione fiscale di cui alla L. n. 383/2001 e disconosciuta l’Iva detratta nel quadro VF del relativo modello.
Si costituì l’Agenzia delle entrate, resistendo al ricorso; nelle more, fu dichiarato il fallimento della società ricorrente.
La Ctp accolse il ricorso.
L’appello fu respinto dalla Ctr, rilevando che, in adesione alla motivazione della Ctp, l’omessa rilevanza attribuita alla documentazione contabile consegnata dalla curatela fallimentare implicasse la rinuncia alla pretesa impositiva, in quanto l’accertamento induttivo non poteva prescindere dalle registrazioni contabili.
L’Agenzia ha proposto ricorso per cassazione, formulando quattro motivi; la società ha depositato memoria.
La curatela fallimentare della società ha depositato controricorso, eccependo l’infondatezza dei motivi.
Considerato che
Con il primo motivo, l’Agenzia delle Entrate ha denunziato violazione e falsa applicazione degli artt. 20, 2° c., e 21 del d.lgs. n. 546/92 (art. 360,1°c. n.4, c.p.c.) avendo la Ctr commesso un error in procedendo non dichiarando inammissibile il ricorso di primo grado per tardività, nonostante che detto ricorso (spedito il 14 novembre 2006) fosse pervenuto alla destinataria il 16 novembre 2016, a fronte di un avviso notificato il giorno 8 agosto 2006.
Con il secondo motivo, è stata denunziata violazione degli artt. 112 c.p.c., 18 e 40 del d.lgs. n. 546/92 (art. 360,1°c., n.4, c.p.c.), avendo la Ctp esaminato anche la nuova questione relativa al credito Iva, introdotta successivamente al ricorso di primo grado dalla subentrata curatela fallimentare, ed avendo annullato anche la non impugnata revoca dell’agevolazione di cui alla legge n. 383/2001.
Con il terzo motivo, è stata denunziata violazione e falsa applicazione degli artt. 25 della I. n. 28/99, 2°c., lett. d)bis, e 40, 1°c., del d.p.r. n. 600/73, nonché degli artt. 68 del d.p.r. n. 287/92, art. 2quater del d.l. n. 564/94, D.M. n. 37/97, artt. 19 e 55 del d.p.r. n. 633/72, in relazione all’art. 2697 c.c., in quanto la Ctr non ha considerato che il rifiuto dell’ufficio di esaminare i documenti tardivamente prodotti dal contribuente, nel corso del giudizio di primo grado, non potesse comportare la rinuncia alla pretesa impositiva, poiché quest’ultima si era definitivamente consolidata dopo la presentazione del ricorso sprovvisto dei documenti invano richiesti precedentemente; in ogni caso, è stato dedotto che la rinuncia alla pretesa fiscale avrebbe richiesto un apposito procedimento in tema di autotutela. Si è poi dedotto che l’accertamento induttivo delle imposte dirette era giustificato dalla mancata esibizione dei documenti richiesti dall’ufficio tributario e dalla preclusione ad una loro successiva produzione in giudizio.
Parimenti, la ricorrente ha dedotto l’erroneità della parte della sentenza che ha ritenuto illegittimo il disconoscimento dell’Iva, pur in mancanza della tempestiva allegazione in giudizio delle fatture passive.
Con il quarto motivo è stato dedotto il vizio di motivazione in ordine alle questioni di cui al terzo motivo.
Il primo motivo è infondato, in conformità del consolidato orientamento della Corte secondo cui nel processo tributario, la spedizione del ricorso o dell’atto d’appello a mezzo posta in busta chiusa, pur se priva di qualsiasi indicazione relativa all’atto in esso racchiuso, anziché in plico senza busta come previsto dall’art. 20 del d.lgs. n. 546 del 1992, costituisce una mera irregolarità se, come nella specie, il contenuto della busta e la riferibilità alla parte non siano contestati, essendo, altrimenti, onere del ricorrente o dell’appellante dare la prova dell’infondatezza della contestazione formulata (Cass., n. 19864/16).
Inoltre, la decadenza è esclusa se il ricorso sia stato spedito (come nella specie) nei termini di legge, anche se ricevuto dal destinatario oltre tale termine.
Il secondo motivo è inammissibile per carenza dell’autosufficienza, in quanto con esso si sarebbe dovuta censurare la sentenza per asserita indebita estensione della pronuncia sia al credito Iva, sia all’annullamento della revoca dell’agevolazione, laddove non si riportano i passi degli atti identificativi dell’originario thema decidendum.
Il terzo motivo e infondato.
La ricorrente ha lamentato che la Ctr aveva rilevato che la resistente Agenzia aveva omesso di esaminare la documentazione contabile presentata in primo grado (tardivamente) dal curatore fallimentare del contribuente fallito, e che da ciò ne aveva erroneamente dedotto l’intervento di una rinuncia alla pretesa impositiva; la ricorrente Agenzia ha invece ribadito che i documenti acclusi dopo l’introduzione del giudizio non erano esaminabili in favore del contribuente, essendo ormai consolidato l’accertamento emesso.
Al riguardo, va preliminarmente esaminata la questione del rifiuto del contribuente di esibire la documentazione contabile richiestagli dall’ufficio, di cui all’art. 52 del d.p.r. n. 633/72.
Le Sezioni Unite hanno, anzitutto, chiarito che la fattispecie astratta descritta dalla norma prevede “quale sua componente oggettiva”, in luogo di tre comportamenti materiali del contribuente intrinsecamente ed ontologicamente distinti tra loro (il rifiuto di esibire i documenti richiesti, la dichiarazione di non possederli, la loro sottrazione all’ispezione), un solo comportamento, il rifiuto di esibizione, del quale la dichiarazione di non possedere e la sottrazione sono soltanto “forme sintomatiche per legge”. Si è quindi escluso che, nell’ipotesi di “dichiarazione di non possedere”, l’elemento oggettivo della fattispecie sia costituito dal solo mancato possesso del documento, dovendosi fare richiamo alla disposizione di cui al successivo comma 10, nella quale si ricollega l’effetto preclusivo, non già al mancato possesso del documento (cagionato, in modo determinante o concorrente, dalla colpa del contribuente), in sé e per sé considerato, sebbene “alla circostanza che il contribuente non ha dimostrato attraverso la prescritta attestazione e la successiva produzione del documento la veridicità della sua dichiarazione di non poter esibire il documento perché posseduto da un terzo”, concretizzandosi la fattispecie “in una situazione obiettiva che, stante la mancata dimostrazione della veridicità della dichiarazione attraverso le prescritte modalità, si risolve, per presunzione di legge, in un rifiuto di esibizione”. Non è sufficiente la colpa per fare scattare la preclusione, operando la stessa anche ove la dichiarazione di non possedere riguardi documenti “la cui tenuta e conservazione non sono obbligatorie”, o che del tutto legittimamente possono essere tenuti in luoghi diversi da quelli indicati nelle dichiarazioni, con la conseguenza che, rispetto a questi documenti, la fattispecie non può che essere dolosa e che parimenti deve concludersi, per i documenti contabili la cui tenuta sia obbligatoria, in quanto “nessun dato testuale legittima una differenziazione del regime dell’elemento psicologico a seconda della tipologia del documenti”.
In conclusione, la Corte, stante la natura dolosa dell’ipotesi del “rifiuto dell’esibizione” e di quella di “sottrazione della documentazione” – “di modo che, ai fini della sua perfezione e dell’applicabilità della sanzione esige, oltre che la coscienza e la volontà del rifiuto, l’intenzione del contribuente di impedire che l’accertatore proceda, in sede e nel corso dell’accesso, all’ispezione del documento” – e ribadita “l’immedesimazione essenziale tra le ipotesi del rifiuto di esibizione e della dichiarazione non veritiera di non possedere (nel senso, appunto, che questa dichiarazione altro non è che, per presunzione di legge, un diniego di esibizione)”, ha affermato che anche questa particolare ipotesi di rifiuto è necessariamente “dolosa”, occorrendo la sua non corrispondenza al vero e che sia diretta ad impedire l’ispezione del documento, accertabile con qualsiasi mezzo di prova, anche di natura meramente indiziaria.
Pertanto, non integrano i presupposti applicativi della preclusione “le dichiarazioni (il cui contenuto corrisponda al vero) dell’indisponibilità del documento, non solo se l’indisponibilità sia ascrivibile a forza maggiore o a caso fortuito (ad esempio, documentazione rubata, smarrita o temporaneamente dispersa per calamità naturali e poi rinvenuta, sequestrata e poi rimessa nella disponibilità del contribuente), ma anche se imputabile a colpa, quale, ad esempio, la negligenza e l’imperizia nella custodia e conservazione”.
Per vero, in virtù di questo dato è indubbio, per un verso, che la preclusione non è intrinsecamente collegata al dovere di diligente conservazione della documentazione.
Né, d’altronde, potrebbe essere diversamente sol che si consideri che, come risulta dal necessario collegamento dei precetti, l’effetto preclusivo si estende anche a registri, documenti e scritture “la cui tenuta e conservazione non sono obbligatorie”, e che, correlativamente, non devono essere tenuti nel luogo indicato nelle dichiarazioni di cui all’art. 35 del d.p.r. n.633/72. Pertanto, quanto meno in relazione a questi documenti, al contribuente non si può fare carico del loro mancato possesso, quand’anche volontario; inoltre, e conseguentemente, sempre in relazione a questi documenti, la fattispecie oggettiva non può che essere costituita dalla non veridicità della dichiarazione di non possesso e dal sostanziale rifiuto della loro esibizione (SU, n. 45/2000).
La portata della norma preclusiva è stata ulteriormente chiarita nelle pronunce di questa Corte n. 16536 del 14/07/2010 e n. 1344 del 25/01/2010, sempre in linea con l’orientamento espresso dalle Sezioni Unite nella sopra citata pronuncia.
Con la prima sentenza si è dato rilievo alla natura eccezionale della disposizione, “che non può essere applicata oltre i casi ed i tempi da essa considerati e deve essere interpretata, in coerenza ed alla luce dei principi affermati dagli artt. 24 e 53 Cost., in modo da non comprimere il diritto alla difesa e di obbligare il contribuente alla effettuazione di pagamenti non dovuti e, quindi, nel senso che, per essere sanzionato con la perdita della facoltà di produrre i libri e le altre scritture, il contribuente stesso deve aver tenuto un comportamento diretto a sottrarsi alla prova e, dunque, capace di far fondatamente dubitare della genuinità di documenti che affiorino soltanto in seguito nel corso di giudizio”. Nella citata ordinanza n. 1344, è stato poi ribadito che la norma “trova applicazione soltanto in presenza di una specifica richiesta o ricerca da parte dell’Amministrazione e di un rifiuto o di un occultamento da parte del contribuente, non essendo sufficiente che quest’ultimo non abbia esibito ai verbalizzanti i documenti successivamente prodotti in sede giudiziaria”, con la conseguenza che parte ricorrente avrebbe dovuto, nella specie, allegare che vi era stata una specifica richiesta dell’amministrazione in ordine alla documentazione de qua e che “il contribuente ne aveva rifiutato l’esibizione dichiarando di non possederla o comunque sottraendola al controllo, con uno specifico comportamento volto a sottrarsi alla prova”.
In ultimo, giova rammentare che il divieto di utilizzazione dei documenti non prodotti va letto alla luce del principio di collaborazione e buona fede (in senso oggettivo), espressamente enunciato nell’art. 10 dello Statuto del Contribuente, 1.212/2000, gravante su entrambe le parti, nel corso del procedimento amministrativo: se, da un lato, come già sopra esposto, l’Amministrazione procedente deve formulare una richiesta di informazioni e documenti specifica ed adeguata al caso concreto, dall’altro lato, il contribuente deve assumere un comportamento collaborativo e trasparente, anch’esso rispettoso dei canoni di correttezza e diligenza (Cass., n. 8539/14, SU, n. 45 del 25.2.2000).
Per quanto esposto, la documentazione prodotta dal curatore avrebbe dovuto essere esaminata dall’ufficio in quanto non è emerso che il contribuente rifiutò espressamente una specifica richiesta di esibizione con un’apposita dichiarazione o che si sottrasse alla prova (circostanze neppure allegate dall’Agenzia delle entrate).
Sul punto, va del resto sottolineato anche il consolidato orientamento per cui, in tema di accertamento tributario, l’omessa esibizione da parte del contribuente dei documenti in sede amministrativa determina l’inutilizzabilità della successiva produzione in sede contenziosa, prevista dall’art. 32 del d.p.r. n. 600 del 1973, solo in presenza del peculiare presupposto, la cui prova incombe sull’Amministrazione, costituito dall’invito specifico e puntuale all’esibizione, accompagnato dall’avvertimento circa le conseguenze della sua mancata ottemperanza (Cass., ord. n. 27069/16).
Nel caso concreto, non è emerso che l’ufficio formulò tale invito specifico, risultando, invece, dalla sentenza impugnata che la Ctp dispose con ordinanza la produzione dei documenti a carico del curatore il quale vi ottemperò regolarmente.
Pertanto, non avendo l’ufficio contestato i documenti allegati dal curatore, l’avviso d’accertamento va ritenuto legittimo nella sua interezza (e dunque anche nella parte relativa alla detrazione Iva).
Infine, il quarto motivo è parimenti infondato, in quanto la Ctr ha motivato adeguatamente in ordine alla questione oggetto del motivo precedente, illustrando sufficientemente i motivi della ritenuta rinuncia alla pretesa impositiva, intesa per “rinuncia” la mancata contestazione, nel merito, dell’adeguatezza delle giustificazioni documentate dalla contribuente società.
Le spese seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il secondo motivo del ricorso e rigetta gli altri, condannando la parte ricorrente al pagamento, in favore della parte controricorrente, delle spese di giudizio che liquida nella somma di euro 5.500,00, oltre la maggiorazione del 15%, quale rimborso forfetario delle spese generali, ed accessori di legge.