Cass., sez. trib., 17 luglio 2014, n. 16338 (testo)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CIRILLO Ettore – Presidente –
Dott. VALITUTTI Antonio – Consigliere –
Dott. OLIVIERI Stefano – rel. Consigliere –
Dott. PERRINO Angelina Maria – Consigliere –
Dott. CONTI Roberto Giovanni – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 24362/2008 proposto da:
AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende ope legis;
– ricorrente –
contro
SESTITO SERVICE INTERNATIONAL SRL IN LIQUIDAZIONE in persona del Liquidatore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA MONTE ZEBIO 32, presso lo studio dell’avvocato DI TULLIO Claudio, che lo rappresenta e difende giusta delega in calce;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 102/2007 della COMM. TRIB. REG. di ROMA, depositata il 09/07/2007;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 16/12/2013 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVIERI;
udito per il ricorrente l’Avvocato D’ASCIA che ha chiesto l’accoglimento;
udito il P.M., in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. ZENO Immacolata, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.
Svolgimento del processo
Con sentenza 9.7.2007 la Commissione tributaria della regione Lazio rigettava l’appello principale proposto da Sestito Service International s.r.l. in liquidazione e l’appello incidentale proposto dall’Ufficio Roma (OMISSIS) della Agenzia delle Entrate, rilevando per quanto interessa il presente giudizio, che correttamente il Giudice di prime cure aveva annullato parzialmente l’avviso di rettifica della dichiarazione IVA per l’anno 1997 atteso che: a) quanto alla contestata inesistenza delle operazioni aventi ad oggetto servizi di noli e facchinaggio fatturate alla società contribuente da Capitolina s.c.a r.l. e da Nuova Capitolina s.c.a r.l. l’Ufficio non aveva fornito idonea prova della fittizietà, non essendo sufficiente il mero indizio del pagamento eseguito per contanti; b) quanto alla detrazione d’imposta applicata sui consumi di carburante per autotrazione, la mancata apposizione nella scheda-carburanti della sottoscrizione del titolare dell’impianto di distribuzione, costitutiva una mera irregolarità che in presenza delle altre regolari indicazioni (tra cui il timbro dell’impianto) non precludevano alla società di fruire della agevolazione.
La sentenza di appello è stata impugnata per cassazione dalla Agenzia delle Entrate con ricorso affidato a tre motivi al quale ha resistito la società contribuente depositando controricorso
Motivi della decisione
Il primo motivo di ricorso, con il quale si censura la sentenza di appello per violazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54 e dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, è infondato.
Il Giudice territoriale ha ritenuto infondata la pretesa volta al recupero dell’IVA indebitamente detratta mediante utilizzo di fatture passive per operazioni oggettivamente inesistenti, sostenendo che non spetta al contribuente che è in possesso di fattura regolarmente compilata provare la effettiva corrispondenza alla realtà della operazione rappresentata nel documento, gravando sulla Amministrazione l’onere probatorio della simulazione assoluta e cioè la dimostrazione che l’operazione commerciale in realtà non è stata mai posta in essere, ed ha concluso che il semplice indizio del pagamento avvenuto in contanti è insufficiente a soddisfare alla prova richiesta.
La Amministrazione finanziaria riportando, alcuni precedenti di questa Corte in materia di riparto dell’onere della prova, sembra voler desumere da tali arresti – in tal senso pare formulato il quesito di diritto ex art. 366 bis c.p.c. – che l’Ufficio non è gravato “direttamente” della prova “dell’inesistenza delle operazioni”, potendo limitarsi, ai sensi dell’art. 2967 c.c., a contestare la falsità delle fatture dimostrando soltanto “l’esistenza degli elementi di fatto, costituenti indizi della dedotta falsità”.
Il motivo di ricorso, così riassunto nel quesito di diritto, appare giuridicamente errato.
L’art. 2697 c.c., reca come noto la disciplina di riparto dell’onere della prova disponendo che grava sulla parte la dimostrazione dei fatti dai quali intende derivare gli effetti giuridici essa favorevoli, e fornisce al tempo stesso una regola – residuale – di decisione dei conflitti su diritti, consentendo al Giudice, in assenza di attività probatoria rimessa alla esclusiva attività delle parti, di risolvere la controversia con il rigetto della domanda. La norma viene in rilievo nella presente causa quanto al primo aspetto, e non fornisce alcuna indicazione circa il “grado di efficacia” dimostrativa che la prova dei fatti deve rivestire, presupponendo in ogni caso che la prova debba essere sufficiente a determinare il “libero convincimento” del Giudice fondato sul “prudente apprezzamento” del complessivo materiale probatorio (art. 116 c.p.c.,comma 1).
In relazione a tale aspetto la tesi prospettata dalla Agenzia ricorrente secondo cui sarebbe sufficiente all’Ufficio fornire meri indizi (“elementi fattuali sintomatici”) anzichè “prove dirette” della falsità ideologica della fattura (nel che viene a risolversi in positivo la prova negativa della inesistenza della operazione commerciale) non indica nulla di diverso di quanto già desumibile dalla norma sul riparto e di quanto ha statuito la CTR laziale: è del tutto evidente, infatti, che l’onere probatorio potrà ritenersi assolto soltanto nel caso in cui tali indizi risultino per concludenza tali da dimostrare il fatto od i fatti, nella specie, impeditivi del diritto alla detrazione d’imposta.
Nel caso di specie, diversamente dalle ipotesi in cui la pretesa tributaria abbia ad oggetto la esistenza di fatti economici non evidenziati nelle scritture contabili del contribuente, produttivi di maggiori redditi o ricavi, la controversia verte sul diritto del contribuente alla detrazione IVA, che trova disciplina nel D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19, sicchè è il contribuente che vanta tale diritto ad essere onerato della prova dei fatti costitutivi (analogamente nel caso in cui si controverta sul diritto al rimborso od alla fruizione di agevolazioni od esenzioni tributarie) e non l’Amministrazione finanziaria a dover fornire la prova negativa.
Tuttavia occorre considerare che, dal sistema normativo comunitario e nazionale concernente l’imposta sul valore aggiunto è dato evincere una presunzione di corrispondenza della effettiva realtà economica alla operazione indicata nella fattura, laddove tale documento risponda ai requisiti formali prescritti ed il soggetto passivo abbia assolto agli adempimenti contabili richiesti (risultando in tal modo integrato l’onere probatorio a carico dell’attore sostanziale).
In proposito occorre distinguere, nell’ambito della normativa comunitaria applicabile “ratione temporis” (Sesta direttiva 77/388 del Consiglio in data 17.5.1977 in materia di armonizzazione delle legislazioni degli Stati membri relative alla imposte sulla cifra di affari), il diritto alla detrazione ex art. 17 paragr. 2 lett. a), il cui esercizio è subordinato – ai sensi dell’art. 18, paragr. 1, lett. a) – al possesso da parte del soggetto passivo di una fattura redatta in conformità alle prescrizioni dell’art. 22 paragr. 3, dalla prova dei fatti costitutivi di tale diritto, che non viene espressamente regolata dalla direttiva comunitaria ma la cui disciplina può desumersi da quelle disposizioni comunitarie che prescrivono al soggetto passivo – che intende portare in detrazione la imposta – determinati adempimenti formali, ed in particolare dall’art. 22 paragr. 2 (obbligo di tenuta di una contabilità che garantisca la riscossione della imposta e consenta i relativi controlli da parte dell’Amministrazione) e dal successivo paragr. 3 lett. a, b, c (obbligo del soggetto che eroga la prestazione e, corrispondentemente, del soggetto in favore del quale la prestazione è eseguita, rispettivamente, di emissione e ricezione nonchè di conservazione della fattura – che deve essere redatta con distinta indicazione del “prezzo al netto della imposta, corrispondente per ogni aliquota diversa nonchè se del caso, la esenzione”), nonchè dall’art. 22 paragr. 8, che autorizza gli Stati membri a stabilire “altri obblighi”” ove ritenuti necessari ad “assicurare la esatta riscossione del imposta e ad evitare le frodi”.
Il complesso normativo predetto è stato interpretato dalla Corte di Giustizia che ha inteso chiarire che “…(28) E’ vero che l’art. 22 della sesta direttiva non contiene alcuna norma che disciplini specificamente la prova del diritto a detrazione da parte del soggetto passivo. (29) Tuttavia, dalle summenzionate disposizioni, che attribuiscono agli Stati membri il potere di prevedere ulteriori indicazioni relative alla fattura e qualsiasi altro obbligo necessario per garantire l’esatta riscossione dell’imposta e per prevenire le frodi, risulta che la sesta direttiva riconosce agli Stati membri il potere di stabilire le norme relative al controllo dell’esercizio del diritto a detrazione e, in ispecie, il modo in cui il soggetto passivo deve comprovare tale diritto. Come ha sottolineato l’avvocato generale nei paragrafi 26 e 27 delle conclusioni, questo potere ricomprende quello di prescrivere la produzione dell’originale della fattura all’atto di verifiche fiscali e quello di autorizzare il soggetto passivo a produrre, se non ne è più in possesso, altre prove inconfutabili attestanti che l’operazione oggetto della domanda di detrazione è realmente avvenuta. (30) Occorre dunque concludere che, in mancanza di norme specifiche relative alla prova del diritto a detrazione, gli Stati membri hanno il potere di prescrivere la produzione dell’originale della fattura per comprovare tale diritto, nonchè quello di ammettere, se il soggetto passivo non ne è più in possesso, altre prove attestanti che l’operazione oggetto della domanda di detrazione è realmente avvenuta…..” (cfr. Corte giustizia sentenza 5 dicembre 1996, causa C-85/9S, John Reisdorf c/ Finanzamt Koln-West).
L’intera disciplina tributaria è informata alla esigenza della rappresentazione documentale dei fatti economici e fiscalmente rilevanti, che debbono essere portati all’evidenza del Fisco, anche in funzione della semplificazione e celerità delle attività di verifica ed accertamento demandate agli Uffici finanziari. Per soddisfare tale esigenza le normative tributarie relative ai diversi tributi prevedono una serie di penetranti obblighi di dichiarazione, registrazione e documentazione posti a carico dei contribuenti, volti a realizzare la massima corrispondenza tra la realtà economica effettuale e quella evidenziata nelle dichiarazioni, nei registri e nei documenti contabili.
La tenuta delle scritture e dei documenti contabili i cui dati vengono utilizzati ed esposti nelle dichiarazioni fiscali, non onera, tuttavia, il contribuente anche della ulteriore indicazione degli elementi probatori attestanti la effettiva corrispondenza alla realtà dei dati indicati in fattura, trascritti nei registri obbligatori e riportati nella dichiarazione annuale, dovendo conseguentemente dedursi da tale sistema normativo che se, da un lato, il diritto alla detrazione D.P.R. n. 633 del 1972, ex art. 19, non può prescindere dalla regolarità delle scritture contabili ed in specie dalla fattura (che in tema di IVA è documento idoneo a rappresentare – nell’ambito dei rapporti tributari – le operazioni imponibili effettuate dall’impresa, come si evince chiaramente dal D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 21, che ne disciplina il contenuto, prescrivendo tra l’altro l’indicazione dell’oggetto e del corrispettivo di ogni operazione commerciale), dall’altro, l’ordinamento tributario ha inteso conferire alla “regolare tenuta della contabilità” da parte della impresa-soggetto passivo efficacia dimostrativa della esistenza del diritto alla detrazione/rimborso, fino a prova contraria.
Pertanto, nella ipotesi di fatture che l’Amministrazione finanziaria ritenga relative ad “operazioni inesistenti” (in tale nozione dovendo essere ricondotte non soltanto le ipotesi di mancanza assoluta dell’operazione fatturata – inesistenza oggettiva – ma anche ogni tipo di divergenza tra la realtà commerciale e la sua espressione documentale, ivi compresa l’ipotesi di inesistenza soggettiva, nella quale, pur risultando i beni entrati nella disponibilità patrimoniale dell’impresa utilizzatrice delle fatture che ha regolarmente versato il corrispettivo, venga accertato che uno o entrambi i soggetti del rapporto documentato dalla fattura siano falsi: cfr. Corte Cass. 5 sez. n. 6378 del 22/03/2006; id. 5 sez. n. 29467 del 17/12/2008; id. 5 sez. n. 7672 del 16/05/2012; id. 5 sez. n. 23074 del 14/12/2012), non spetta al contribuente provare che l’operazione è effettiva, ma spetta all’Amministrazione, che adduce la falsità del documento, provare che l’operazione commerciale, oggetto della fattura, in realtà non è mai stata posta in essere (cfr. Corte Cass. 5 sez. 12.12.2005 n. 27341; id. 5 sez. n. 12802 del 10/06/2011). E tale prova è raggiunta se l’Amministrazione fornisca validi elementi – alla stregua del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 54, comma 2, che possono anche assumere la consistenza di attendibili indizi (idonei ad integrare la “presunzione semplice”), per affermare che alcune fatture sono state emesse per operazioni (anche solo parzialmente) fittizie, ovvero che, ai sensi dell’art. 54, comma 3 del medesimo decreto, dimostrino “in modo certo e diretto” la “inesattezza delle indicazioni relative alle operazioni che danno diritto alla detrazione” (prova che può essere data anche attraverso “i verbali relativi ad ispezioni eseguite nei confronti di altri contribuenti”). In tal caso passerà nuovamente sul contribuente l’onere di dimostrare l’effettiva esistenza delle operazioni contestate (cfr. Corte Cass. 5 sez. 19.10.2007 n. 21953; id. 5 sez. 11.6.2008 n. 15395; id. 5 sez. 7.2.2008 n. 2847).
Pertanto deve essere confermato il principio di diritto secondo cui, il Giudice tributario di merito, investito della controversia sulla legittimità e fondatezza dell’atto impositivo, è tenuto a valutare, singolarmente e complessivamente, gli elementi presuntivi forniti dall’Amministrazione ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39, comma 1, lett. d) e art. 40 (in materia di n.DD.), e del D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 54, comma 2(in materia di IVA), dando atto in motivazione dei risultati del proprio giudizio (impugnabile in cassazione non per il merito, ma solo per inadeguatezza o incongruità logica dei motivi che lo sorreggono) e solo in un secondo momento, qualora ritenga tali elementi dotati dei caratteri di gravità, precisione e concordanza, deve dare ingresso alla valutazione della prova contraria offerta dal contribuente, che ne è onerato ai sensi dell’art. 2727 c.c. e segg. e art. 2697 c.c., comma 2 (cfr. Corte Cass. 5 sez. 23.4.2010 n. 9784; id. 5 sez. n. 4306 del 23/02/2010; id. Sez. 5, Sentenza n. 9108 del 06/06/2012).
Alla stregua del principio di diritto enunciato il motivo in esame, ove inteso ad affermare che l’onere probatorio della Amministrazione finanziaria può ritenersi assolto mediante indizi che determinino una mera “verosimiglianza” e non anche una prova presuntiva della simulazione assoluta della operazione commerciale, deve ritenersi infondato.
Il secondo motivo, con il quale si censura la sentenza per vizio logico di motivazione ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, è invece fondato.
La CTR laziale, pur dopo aver dato atto in sentenza, nella parte relativa allo “svolgimento del processo”, che l’Ufficio aveva allegato a sostegno della propria tesi che la società contribuente era inserita in un sistema frodatorio volto a consentire indebite detrazioni IVA, evasioni d’imposta ed indebita deduzione di costi, come emergeva dalle risultanze del PVC redatto in esito alla verifica fiscale della società emittente le fatture Nuova Capitolina s.c. a r.l., ed aveva addotto che gli elementi probatori si fondavano su documenti extracontabili rinvenuti nel corso dell’accesso e sui dati dei registri contabili della società verificata dai quali emergeva che tale società non disponeva di forza lavoro sufficiente a giustificare gli elevati importi fatturati alla contribuente, ha poi limitato ed esaurito il giudizio di selezione e valutazione probatoria ad uno soltanto tra i diversi indizi, ritenendo che la esecuzione in contanti dei pagamenti delle fatture effettuati da Sestito Service International s.r.l. fosse elemento insufficiente ad integrare la prova della simulazione assoluta delle operazioni.
Tale “modus procedendi” inficia la motivazione del vizio di legittimità denunciato atteso che come ripetutamente affermato da questa Corte allorquando la prova addotta sia costituita da presunzioni – le quali anche da sole possono formare il convincimento del giudice del merito – rientra nei compiti di quest’ultimo il giudizio circa l’idoneità degli elementi presuntivi a consentire illazioni che ne discendano secondo il criterio dell'”id quod plerumque accidit”, essendo il relativo apprezzamento sottratto al controllo in sede di legittimità se sonetto da motivazione immune dal vizi logici o giuridici e, in particolare, ispirato al principio secondo il quale i requisiti della gravità, della precisione e della concordanza, richiesti dalla legge, devono essere ricavati in relazione al complesso degli indizi, soggetti a una valutazione globale, e non con riferimento singolare a ciascuno di questi, pur senza omettere un apprezzamento così frazionato, al fine di vagliare preventivamente la rilevanza dei vari indizi e di individuare quelli ritenuti significativi e da ricomprendere nel suddetto contesto articolato e globale (cfr. Corte Cass. Sez. 3, Sentenza n. 16831 del 10/11/2003; id. Sez. 1, Sentenza n. 28224 del 26/11/2008; id. Sez. 3, Sentenza n. 26022 del 05/12/2011).
I Giudici di appello hanno pretermesso del tutto di esaminare, singolarmente e globalmente in relazione alle reciproche connessioni logiche, i plurimi elementi indiziari forniti dalla PA quali in particolare:
a) le difformità riscontrate, in sede di verifica delle società cooperative Capitolina e Nuova Capitolina, tra la regolare tenuta della documentazione commerciale e contabile avente ad oggetto le operazioni svolte con i clienti ENEL s.p.a, e SEAT s.p.a. (contratti di appalto con allegati gli elenchi soci chiamati a fornire le prestazioni; corrispondenza del numero delle risorse umane impiegate a quelle indicate negli ordini di servizio allegati a ciascuna fattura; pagamenti eseguiti mediante bonifici bancari) e la lacunosa ed incompleta documentazione contabile relativa ai rapporti intrattenuti con Sestito Traslochi s.r.l. e Sestito Service International s.r.l., società riconducibili ad G.A. e S.A. (1 – non risultava indicato il numero complessivo di soci della Nuova Capitalina utilizzato per la prestazione dei servizi erogati indifferentemente ad entrambe le società Sestito; 2 – le fatture emesse dalla società cooperativa di servizi recavano solo la indicazione dell’imponibile senza specificazione delle unità lavorative impiegate; 3 – i pagamenti venivano eseguiti solo per contanti; 4 – presso la società fornitrice dei servizi erano stati reperiti prospetti contabili predisposti direttamente dalla Sestito Trasporti concernenti le presenze giornaliere ed i corrispettivi da versare ai soci della Nuova Capitolina: dal confronto tra detti prospetti extracontabili, il libro retribuzioni soci della Nuova Capitolina, e le fatture emesse, risultavano rilevanti discordanze nel numero delle unità lavorative impiegate per i servizi che apparivano incompatibili con quelle a disposizione della società cooperativa);
b) la assenza di una effettiva organizzazione operativa ed amministrativa delle cooperative Capitolina e Nuova Capitolina, atteso che la gestione dei soci era interamente affidata di fatto alla Sestito Traslochi che, unitamente alla Sestito Service International, dava disposizioni per l’impiego dei soci, provvedeva alla predisposizione dei prospetti contabili ed alla liquidazione degli importi dovuti, che venivano erogati direttamente i soci presso la sede della Sestito Service International;
c) la situazione di notevole indebitamento in cui versava la cooperativa Nuova Capitolina che aveva anche omesso il versamento dell’IVA alle scadenze penodiche ed in sede di dichiarazione annuale;
d) la ricostruzione, operata in base al confronto tra i prospetti extracontabili e le fatture emesse, della divergenza – pari ad oltre L. 164.000.000 – tra il valore delle giornate lavorate dai soci nel 1997 presso la Sestito Service International (calcolato in base al costo giornaliero di un’unità lavorativa secondo le tariffe fissate dal Ministero del Lavoro) e l’importo risultante invece dalle fatture emesse.
Orbene tanto hi relazione ai singoli indizi indicati, quanto del complesso indiziario sopra descritto globalmente considerato, la CTR ha omesso del tutto di fornire il dovuto esame, incorrendo pertanto nel vizio di legittimità denunciato.
Anche il terzo motivo, volto a censurare la sentenza impugnata per violazione della L. 21 febbraio 1977, n. 31, art. 2, del D.M. 7 giugno 1977, artt. 1 e 2 e del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 19, deve ritenersi fondato, alla stregua del consolidato principio di diritto secondo cui la possibilità di detrarre dall’imposta dovuta quella assolta per l’acquisto di carburanti destinati ad alimentare i mezzi impiegati per l’esercizio dell’impresa è subordinata al fatto che le cosiddette “schede carburanti”, che l’addetto alla distribuzione è tenuto a rilasciare, siano complete in ogni loro parte e debitamente sottoscritte senza che l’adempimento, a tal fine disposto, ammetta equipollente alcuno e indipendentemente dall’avvenuta contabilizzazione dell’operazione nelle scritture dell’impresa (cfr.
Corte Cass. Sez, 5, Sentenza n. 21941 del 19/10/2007; id. Sez. 5, Sentenza n. 26539 del 05/11/2008; id. Sez. 5, Sentenza n. 6606 del 15/03/2013). E’ stato precisato al riguardo che il D.P.R. n. 444 del 1997, dispone all’art. 3 (Adempimenti inerenti la scheda) che “1.
L’addetto alla distribuzione di carburante indica nella scheda di cui all’art. 2 all’atto di ogni rifornimento, con firma di convalida, la data e l’ammontare del corrispettivo al lordo dell’imposta sul valore aggiunto, nonchè, anche a mezzo di apposito timbro, la denominazione o la ragione sociale dell’esercente l’impianto di distribuzione, ovvero il cognome e il nome se persona fisica, e l’ubicazione dell’impianto stesso”, e che, pertanto, la sottoscrizione dell’esercente dell’impianto di distribuzione “avendo una funzione, definita dallo stesso legislatore, di convalida del rifornimento costituisce elemento essenziale senza del quale la scheda non può assolvere alla finalità prevista dalla legge” (cfr. Corte Cass. 21941/2007 cit.).
Risulta dunque inficiata da “errore di diritto” la sentenza di appello che ha riconosciuto legittima la detrazione d’imposta in difetto del predetto requisito della scheda carburante, dovendo essere pertanto cassata in parte qua.
In conclusione il ricorso deve essere accolto, quanto al secondo e terzo motivo (infondato il primo), la sentenza impugnata deve essere cassata e non occorrendo proceder ad ulteriore istruttoria la causa può essere decisa nel merito con il rigetto del ricorso introduttivo proposto dalla società e al condanna della parte soccombente alla rifusione delle spese di lite come liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte:
– accoglie il ricorso, nei limiti di cui (Ndr: testo originale non comprensibile), cassa la sentenza impugnata e decidendo nel merito rigetta il ricorso introduttivo della società che condanna alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità liquidate in Euro 5.500,00 per compensi, oltre alle spese prenotate a debito, dichiarate interamente compensate le spese relative ai gradi di merito.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 16 dicembre 2013.
Depositato in Cancelleria il 17 luglio 2014