201606.17
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Cass., sez. trib., 17 giugno 2016, n. 12561 (testo)

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. PICCININNI Carlo – Presidente –

Dott. SCODITTI Enrico – Consigliere –

Dott. MARULLI Marco – Consigliere –

Dott. TRICOMI Laura – rel. Consigliere –

Dott. LUCIOTTI Lucio – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso 7218-2010 proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;

– ricorrente –

contro

C.R., elettivamente domiciliato in ROMA VIA E. FAA’ DI BRUNO 43, presso lo studio dell’avvocato AUGUSTO DEL SETTE, che lo rappresenta e difende unitamente all’avvocato ALDO TEDESCHI giusta delega a margine;

– controricorrente –

avverso la sentenza n. 39/2009 della COMM.TRIB.REG.SEZ.DIST. di BRESCIA, depositata il 05/03/2009;

udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 02/05/2016 dal Consigliere Dott. LAURA TRICOMI;

udito per il ricorrente l’Avvocato PALATIELLO che si riporta al ricorso;

udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. SORRENTINO Federico, che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.


Svolgimento del processo


1. Con ricorso proposto dinanzi alla Commissione Tributaria Provinciale di Brescia, C.R. impugnava l’avviso di accertamento n. (OMISSIS) per l’anno di imposta 1998, con il quale era stato determinato induttivamente un reddito imponibile di impresa non dichiarato e – conseguentemente- stabilite le imposte dovute a titolo di IRPEF, IVA ed IRAP, oltre sanzioni ed interessi, sulla scorta della contabilità in nero ritrovata presso le società Euroedil s.r.l. e Euro 2000 s.r.l., segnalata dalla Guardia di Finanza di Chiari, da cui era emerso che le stesse avevano corrisposto compensi non dichiarati ad alcuni soggetti, tra cui il contribuente. Con l’impugnazione C. aveva denunciato l’illegittimità dell’avviso, motivato solo per relationem, ed aveva evidenziato che gli assegni in contestazione non erano a lui intestati.

2. Il ricorso era accolto, con decisione confermata in appello dalla Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, sezione distaccata di Brescia, con la sentenza n. 39/65/09, depositata il 05.03.2009 e non notificata.

3. In particolare, a fronte dell’impugnazione dell’Agenzia (la quale rilevava che dalla contabilità in nero rinvenuta risultava che il contribuente aveva fatto parte per più anni di una squadra di operai retribuita in totale evasione di imposta fino a quando nel 2000 aveva aperto una partita Iva per esercitare l’impresa edile in proprio e che i compensi percepiti dal C. non potevano riferirsi a lavoro dipendente attesa la sua indicazione come caposquadra, l’abitualità e l’organizzazione della squadra e l’ammontare degli importi evasi), i giudici d’appello ritenevano che il rinvenimento di un “brogliaccio” presso le società di cui sopra non poteva ritenersi sufficiente a sostenere sul piano probatorio l’accertamento a carico del C., posto che l’indicazione del suddetto sotto la voce “squadra” non costituiva elemento di per sè univoco, in assenza di altri elementi che lo identificassero come caposquadra; che non risultavano elementi dai quali poter presumere che gli elevati importi ivi indicati fossero a lui riferibili; che, infine, in ogni caso mancava la prova che gli importi in questione fossero da imputarsi ad una attività di impresa.

4. Avverso tale decisione ha proposto ricorso per cassazione I’ Agenzia delle entrate, affidato a cinque motivi. Il contribuente resiste con controricorso.


Motivi della decisione


1.1. Col primo motivo, deducendo violazione degli artt. 2727 e 2729 c.c., in combinato disposto con il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, nonchè D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 54 e 55, la ricorrente si duole del fatto che i giudici d’appello abbiano affermato che il brogliaccio dal quale era emersa una contabilità in nero delle società emittenti gli assegni rinvenuti dalla G.d.F. non appariva idoneo sul piano probatorio a sostenere l’accertamento a carico del C., in quanto privo di ulteriori riscontri, ignorando così la regola secondo cui in tema di presunzioni semplici gli elementi assunti a fonte di prova non debbono essere necessariamente più d’uno.

1.2. La censura è infondata.

1.3. Occorre innanzitutto rilevare che, a norma dell’art. 2729 c.c., il giudice non deve ammettere che presunzioni gravi precise e concordanti. E’ vero che in materia tributaria (benchè l’art. 2729 c.c., comma 1, il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 38, comma 4 e il D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, si esprimano al plurale), la giurisprudenza di questo giudice di legittimità ha ripetutamente affermato che il convincimento del giudice può fondarsi anche su un elemento unico, ma ha sempre ribadito che tale elemento deve in ogni caso essere preciso e grave e che la valutazione in proposito del giudice di merito non è censurabile in sede di legittimità, ove sorretta da motivazione adeguata e logicamente non contraddittoria (v. tra le altre Cass. n. 656/2014, 14068/2014).

1.4. Tanto premesso, dalla sentenza impugnata non risulta affatto che i giudici di merito abbiano affermato (come mostra di ritenere parte ricorrente) in generale la necessità di una pluralità di indizi per fondare il ragionamento presuntivo; hanno invece affermato che nella specie la semplice indicazione del C. nel brogliaccio in questione sotto la voce squadra non era idonea da sola (ossia in mancanza di altri elementi dello stesso segno) a sostenere l’accertamento presuntivo del conseguimento di un reddito di impresa, e ciò in quanto rappresentava un dato non univoco che non risultava neppure confermato dagli accertamenti bancari eseguiti (cfr. Cass. 17634/2014, relativa al medesimo accertamento).

I giudici d’appello hanno pertanto negato valore all’indizio non per il fatto della sua unicità, ma innanzitutto per la sua mancanza di precisione (non univocità), ed è appena il caso di aggiungere che, secondo la ormai granitica giurisprudenza di questo giudice di legittimità in materia di prova presuntiva, spetta al giudice di merito la valutazione della rispondenza degli elementi indiziari ai requisiti di legge, con apprezzamento di fatto che, ove adeguatamente motivato, sfugge al sindacato di legittimità, dovendosi tuttavia rilevare che la censura per vizio di motivazione non può limitarsi ad affermare un convincimento diverso da quello espresso dal giudice di merito, ma deve fare emergere l’assoluta illogicità e contraddittorietà del ragionamento decisorio (v. tra numerose altre Cass. n. 8023 del 2009).

2.1. Col secondo motivo, deducendo violazione dell’art. 2697 c.c., in combinato disposto con il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 2, nonchè D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 2 e art. 55, la ricorrente, premesso che in appello le parti controvertevano sulla fonte (d’impresa o da lavoro dipendente) del reddito evaso, si duole del fatto che i giudici d’appello non abbiano applicato il principio secondo cui l’accertamento induttivo dell’imposta può essere basato su elementi presuntivi aventi l’effetto di far gravare sul contribuente l’onere della prova contraria.

2.2.La censura è infondata.

2.3. L’esistenza di “elementi presuntivi” (i.e.: indizi idonei a fondare una presunzione) forniti dall’amministrazione a sostegno dell’accertamento induttivo comporta l’inversione dell’onere della prova, sempre che i suddetti elementi siano effettivamente tali (ossia idonei a fondare una presunzione), non potendo ovviamente ammettersi che l’amministrazione possa fondare un accertamento su qualunque elemento anche privo di qualsivoglia valore indiziario determinando perciò solo l’inversione dell’onere probatorio.

2.4. Tanto premesso, è sufficiente rilevare che nella specie, come già sopra evidenziato, i giudici d’appello, con accertamento in fatto incensurabile in questa sede se sorretto da motivazione logica e coerente, hanno escluso che sussistessero idonei “elementi presuntivi”.

3.1. Con il terzo motivo, deducendo la violazione degli artt. 2727 e 2729 c.c. e degli artt. 115 e 116 c.p.c., in combinato disposto con il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 1, comma 2, premesso che l’avviso di accertamento si basava sulla prova presuntiva della natura imprenditoriale del reddito evaso e che le parti avevano discusso circa la natura di impresa o da lavoro dipendente di tale reddito, sostiene la ricorrente che la CTR avrebbe applicato la erronea regola giuridica secondo la quale la presunzione non è prova.

3.2. La censura è infondata.

3.3. Sul punto va ribadito, quanto già affermato in precedenza, e cioè che i giudici d’appello, con accertamento in fatto incensurabile in questa sede se sorretto da motivazione logica e coerente, hanno escluso che sussistessero idonei “elementi presuntivi”.

4.1. Col quarto motivo, deducendo vizio di motivazione, la ricorrente, premesso che la fonte del reddito (d’imposta o da lavoro dipendente) era da ritenersi fatto decisivo e controverso, sostiene che, nell’escludere che fosse stata fornita la prova presuntiva della natura di reddito di impresa, i giudici d’appello abbiano reso una motivazione insufficiente laddove hanno affermato che per prassi i lavoratori in nero dell’edilizia suddividerebbero tra loro il compenso percepito da un unico collettore intermediario, senza esplicitare il percorso logico-giuridico che li aveva portati a ritenere che nella specie ciò fosse accaduto.

4.2.La censura è inammissibile sotto diversi profili.

4.3. Innanzitutto giova rilevare che dalla sentenza impugnata non risulta affatto che i giudici d’appello abbiano fondato la propria decisione sul rilievo che per prassi (ancorchè illegittima) nell’ambito dell’edilizia i compensi vengono incassati da uno solo dei lavoratori e poi distribuiti tra i colleghi. Come emerge infatti chiaramente (e in maniera quasi paradigmatica) dalla semplice lettura della sentenza, i giudici d’appello hanno dapprima escluso la sussistenza di validi elementi indiziali sui quali fondare la prova presuntiva che il C. avesse percepito gli importi indicati (attesa la non univocità delle indicazioni emergenti dal brogliaccio), ed hanno poi esposto degli obiter dicta consistenti in argomenti ad abundantiam di tipo concessivo (ravvisabili quando il giudice ipotizza la non correttezza del ragionamento decisorio per dimostrare che anche diversamente argomentando si giungerebbe alle medesime conclusioni), come emerge chiaramente pure dall’introduzione del periodo che segue l’esposizione della vera e propria ratio decidendi (“ma anche diversamente argomentando”) e dal tenore espositivo delle argomentazioni successive (“anche laddove si possa ritenere”). La ricorrente non ha pertanto alcun interesse a censurare un obiter dictum.

4.4. In ogni caso risulta assolutamente inadeguata l’indicazione richiesta dall’art. 366 bis cpv. c.p.c. (applicabile ratione temporis), perchè viene identificato come fatto controverso e decisivo quella che in realtà è la questione controversa, laddove l’indicazione suddetta deve sempre avere ad oggetto (non più una questione o un “punto”, secondo la versione dell’art. 360 c.p.c., n. 5, anteriore alla modifica introdotta dal D.Lgs. n. 40 del 2006, bensì) un fatto preciso, inteso sia in senso storico che normativo, ossia un fatto “principale”, ex art. 2697 c.c. (cioè un “fatto” costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo) o anche, secondo parte della dottrina e giurisprudenza, un fatto secondario (cioè un fatto dedotto in funzione di prova di un fatto principale), purchè controverso e decisivo (v. tra le altre Cass. n. 16655 del 2011), mentre nella specie manca non solo l’individuazione e indicazione di uno o più “fatti” specifici (intesi come sopra e non come generico sinonimo di punto, circostanza, questione controversa) rispetto ai quali la motivazione risulti viziata, ma anche l’evidenziazione del carattere decisivo del o dei medesimi fatti.

5.1. Col quinto motivo, deducendo error in procedendo, la ricorrente si duole del fatto che i giudici d’appello, ritenendo invalido l’avviso d’accertamento per motivi di carattere sostanziale attinenti alla erroneità della qualificazione della fonte di reddito assunta dall’Agenzia, abbia totalmente annullato l’atto impositivo senza esaminare nel merito la pretesa tributaria, in ragione della natura di “impugnazione-merito” del processo tributario, riconducendola alla corretta fonte di reddito entro i limiti posti dalle domande delle parti.

5.2. La censura è fondata nei termini di cui in prosieguo.

5.3. Secondo la ormai pacifica giurisprudenza di questo giudice di legittimità il processo tributario non è diretto alla mera eliminazione giuridica dell’atto impugnato, ma ad una pronuncia di merito, sostitutiva sia della dichiarazione resa dal contribuente che dell’accertamento dell’ufficio, con la conseguenza che il giudice tributario, ove ritenga invalido l’avviso di accertamento per motivi di ordine sostanziale (e non meramente formali), è tenuto ad esaminare nel merito la pretesa tributaria e a ricondurla, mediante una motivata valutazione sostitutiva, alla corretta misura, entro i limiti posti dalle domande di parte (v. tra numerose altre, da ultimo Cass. n. 26157 del 2013).

Tanto premesso, occorre considerare che l’annullamento di un avviso di accertamento per motivi sostanziali comprende tutti gli aspetti sostanziali relativi al reddito accertato, ivi compresi la sua natura ovvero la sua entità. Ne consegue che i giudici di appello, avendo ritenuto non sussistente la prova presuntiva del reddito a carico del C. per l’anno in questione siccome accertato nell’atto opposto, avrebbero dovuto in ogni caso verificare se gli elementi indiziari forniti erano (o meno) comunque idonei a fondare la prova presuntiva di un reddito non dichiarato da parte del C., ancorché, in ipotesi, di natura diversa (ad es. da lavoro dipendente e non di impresa) e/o, eventualmente, di entità diversa da quella indicata nell’avviso opposto.

5.4. Il quinto motivo di ricorso deve essere pertanto accolto.

6. Conclusivamente il ricorso va accolto sul quinto motivo, infondati i motivi primo, secondo e terzo, inammissibile il quarto; la sentenza impugnata va cassata e rinviata alla CTR della Lombardia in altra composizione che dovrà attenersi ai principi di diritto prima espressi e riesaminare tutti gli elementi di fatto sottoposti al suo vaglio nonchè statuire sulle spese del presente giudizio.


P.Q.M.


La Corte di Cassazione, – accoglie il ricorso sul quinto motivo, infondati gli altri;

– cassa la sentenza impugnata e rinvia alla CTR della Lombardia in altra composizione per il riesame e la statuizione sulle spese del giudizio di legittimità.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 2 maggio 2016.

Depositato in Cancelleria il 17 giugno 2016