Cass., sez. trib., 17 aprile 2015, n. 7838 (testo)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CAPPABIANCA Aurelio – Presidente –
Dott. DI IASI Camilla – rel. Consigliere –
Dott. CIGNA Mario – Consigliere –
Dott. FEDERICO Guido – Consigliere –
Dott. IOFRIDA Giulia – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 21598/2008 proposto da:
AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, domiciliata in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che la rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
P. SRL in persona dell’Amministratore e legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIALE GIULIO CESARE 61, presso lo studio dell’avvocato LUCIANO DRISALDI, rappresentato e difeso dall’avvocato BENEDETTO GUGLIELMO giusta delega a margine;
– resistente con mandato alla discussione –
avverso la sentenza n. 185/2008 della Commissione Tributaria regionale del Lazio, depositata il 07/05/2008;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 19/11/2014 dal Consigliere Dott. CAMILLA DI IASI;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. MASTROBERARDINO Paola, che ha concluso per l’accoglimento con rinvio del ricorso.
Svolgimento del processo – Motivi della decisione
L’Agenzia delle Entrate ricorre nei confronti della P. s.r.l. (che ha depositato “mandato per la discussione” al difensore) per la cassazione della sentenza n: 185/39/08 con la quale – in controversia concernente impugnazione di avviso di accertamento per Irpeg, Iva e Irap relativo all’anno di imposta 2000 – la CTR Lazio accoglieva l’appello del contribuente affermando l’inesistenza della notificazione e l’inefficacia dell’avviso impugnato perché la relata non riportava il nome della persona alla quale veniva consegnato il plico, non conteneva indicazioni circa l’identità del notificatore, e risultava siglata con uno “scarabocchio”, dovendo pertanto ritenersi come se non fosse mai stata sottoscritta. Inoltre, i giudici d’appello aggiungevano che in presenza di contabilità regolare non poteva ritenersi legittimo l’accertamento induttivo basato esclusivamente sul saldo negativo risultante dalle scritture contabili, e che non era stata fornita alcuna prova dei ricavi asseritamele non contabilizzati, essendosi fatto ricorso a “praesumptio de praesumpto”.
P.Q.M.
Col primo motivo, deducendo violazione del combinato disposto del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 60, nonchè artt. 149 e 156 c.p.c., l’Agenzia ricorrente censura la sentenza impugnata rilevando che non può ritenersi invalida la notifica qualora la sottoscrizione del notificante non sia decifrabile e che in ogni caso una eventuale invalidità risulterebbe nella specie sanata dall’impugnazione dell’atto oggetto di notifica proposta dal destinatario della medesima.
La censura è fondata. Secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità (alla quale il collegio intende dare continuità in assenza di valide ragioni per discostarsene), la notificazione è una mera condizione di efficacia e non un elemento costitutivo dell’atto amministrativo di imposizione tributaria, cosicché il vizio di nullità ovvero di inesistenza della stessa è irrilevante ove l’atto abbia raggiunto lo scopo, ad esempio per essere stato impugnato dal destinatario in data antecedente alla scadenza del termine fissato dalla legge per l’esercizio del potere impositivo (v. tra le altre Cass. nn. 654 e 1238 del 2014). E nella specie l’atto oggetto di notifica è stato impugnato tempestivamente né risulta affermata nella sentenza impugnata o dedotta dal contribuente l’intervenuta decadenza, nel suddetto termine, dal potere impositivo.
Tanto premesso in linea generale, è peraltro nello specifico da rilevare che, secondo la giurisprudenza di questo giudice di legittimità, la nullità di un atto non dipende dalla illeggibilità della firma di chi si qualifichi come titolare di un pubblico ufficio, ma dall’impossibilità oggettiva di individuare l’identità del firmatario, senza che rilevi la soggettiva ignoranza di alcuni circa l’identità dell’autore dell’atto, con la conseguenza che, nel caso di sottoscrizione illeggibile della relata di notificazione di un avviso di accertamento, spetta al contribuente, superando la presunzione che il sottoscrittore aveva il potere di apporre la firma, dimostrare la non autenticità della sottoscrizione o l’insussistenza della qualità indicata (o comunque del potere esercitato), con la conseguenza che, in assenza di una tale dimostrazione (nella specie mancante), va escluso il vizio di nullità (e a maggior ragione di inesistenza) della notificazione (v. Cass. n. 16407 del 2003).
Col secondo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 39 e 40, D.L. n. 331 del 1993, art. 62 sexies, e D.P.R. n. 633 del 1973, art. 54, l’Agenzia ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui i giudici d’appello hanno ritenuto che in presenza di contabilità regolare non è consentito l’accertamento induttivo del reddito fondato esclusivamente sulla base del protratto saldo negativo dell’attività.
Col terzo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione del combinato disposto del D.P.R. n. 600 del 1973, artt. 39 e 40, D.L. n. 331 del 1993, art. 62 sexies, e D.P.R. n. 633 del 1973, art. 54, nonché degli artt. 2727 e 2728 c.c., la ricorrente duole del fatto che i giudici d’appello non abbiano considerato che il D.L. n. 331 del 1993, art. 62 sexies, ha esteso i margini di applicazione dell’accertamento induttivo e che pertanto, anche in presenza di contabilità formalmente regolare, l’esistenza di un contrasto con gli elementi presuntivi dati dagli studi di settore ovvero di gravi incongruenze tra i ricavi e compensi dichiarati con quelli desumibili dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta legittima la presunzione di maggior reddito con onere della prova a carico del contribuente, essendo la presunzione di cui al citato art. 62 sexies, una “presunzione legale che può essere vinta solo dalla prova contraria” offerta dal contribuente.
Col quarto motivo, deducendo vizio di motivazione, la ricorrente censura la sentenza impugnata nella parte in cui i giudici d’appello hanno affermato che l’accertamento del maggior reddito era basato su di una praesumptio de praesumpto senza considerare che la presunzione di maggior reddito non dichiarato nasceva dal fatto noto emergente dalla contabilità e costituito dalla complessiva antieconomicità della gestione risultante dalla eccedenza delle uscite rispetto agli incassi senza giustificazione della provenienza delle suddette uscite di liquidità per il pagamento, ad esempio, di fornitori e dipendenti.
Giova premettere che le sopra esposte censure sono ammissibili.
E’ vero che le sezioni unite di questa Corte (con sentenza n. 3840 del 2007) hanno affermato che qualora il giudice, dopo una statuizione di inammissibilità (o declinatoria di giurisdizione o di competenza), con la quale si è spogliato della “potestas iudicandi” in relazione al.merito della controversia, abbia impropriamente inserito nella sentenza argomentazioni sul merito, la parte soccombente non ha l’onere né l’interesse ad impugnare, con la conseguenza che è ammissibile l’impugnazione che si rivolga alla sola statuizione pregiudiziale ed è viceversa inammissibile, per difetto di interesse, l’impugnazione nella parte in cui pretenda un sindacato anche in ordine alla motivazione sul merito, svolta “ad abundantiam” nella sentenza gravata. Tuttavia nella specie il giudice d’appello ha deciso su di una questione che, benché logicamente pregiudiziale rispetto alle altre, attiene anch’essa al merito (riguardando la dedotta invalidità della notifica -non di un atto processuale bensì- dell’avviso opposto) e non priva pertanto il giudice della “potestas iudicandi” in relazione alle ulteriori questioni di merito. Nella specie dunque, avendo il giudice ritenuto di pronunciarsi anche su altre questioni di merito, le relative decisioni non possono considerarsi alla stregua di obiter dieta ma si configurano come ulteriori rationes decidendi (sia pure logicamente successive alla precedente), rispetto alle quali la parte ha l’interesse e l’onere dell’impugnazione, giacché, ove non impugnate, esse, in ipotesi di ritenuta infondatezza della censura riferibile alla ratio decidendi logicamente prioritaria, sarebbero da sole idonee a sostenere il decisum e quindi determinerebbero la mancanza di interesse anche alla censura sulla suddetta ratio decidendi pregiudiziale (v. in proposito Cass. n. 2736 del 2013, secondo la quale, in tema di opposizione a sanzioni amministrative, qualora il giudice, accolto un primo motivo, attinente ad un vizio formale del decreto, anziché adottare la tecnica dell’assorbimento, abbia comunque esaminato e riconosciuto fondato altresì un secondo motivo, di carattere sostanziale, fatto valere dall’opponente – attinente alla non riconducibilità della vicenda alla fattispecie contestata – si è di fronte non ad una mera argomentazione “ad abundantiam”, proveniente da giudice ormai privo di “potestas iudicandi” bensì alla manifestazione di separate ragioni del decidere che risolvono distinti punti della regiudicanda, sicché ciascuna di esse deve essere impugnata, pena l’inammissibilità del gravame per difetto di interesse, restando altrimenti la decisione fondata in modo autonomo sulla ragione non censurata).
Il secondo motivo di ricorso è altresì fondato. In linea di principio, la sussistenza di contabilità regolare non esclude, in presenza di determinate condizioni, la possibilità di procedere ad un accertamento di tipo induttivo (v. tra le molte Cass. n. 23551 del 2014, secondo la quale in tema di Iva il ricorso al metodo induttivo è ammissibile anche in presenza di una contabilità formalmente regolare, ai sensi del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, che autorizza l’accertamento anche in base ad “altri documenti” o ad “altre scritture contabili” o ad “altri dati e notizie” raccolti nei modi prescritti, nonché Cass. n. 5731 del 2012, secondo la quale, in tema di accertamento delle imposte, il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, consente la rideterminazione dei ricavi e, quindi, dei redditi su base induttiva, facendo ricorso a presunzioni semplici di cui agli artt. 2727 e 2729 c.c., pur in presenza di scritture contabili formalmente corrette, quando la contabilità possa essere considerata complessivamente ed essenzialmente inattendibile).
Più in particolare, non risulta corretta l’affermazione dei giudici d’appello secondo la quale, in presenza di contabilità formalmente corretta, è da escludere la possibilità di un accertamento induttivo fondato esclusivamente sul saldo negativo delle scritture contabili, trattandosi di affermazione che, in maniera aprioristica e generalizzata (perciò senza un approfondito esame degli elementi di valutazione relativi al caso concreto) esclude che un rapporto ricavi- costi non congruo possa essere sintomo di infedeltà dei ricavi dichiarati, laddove la giurisprudenza di questo giudice di legittimità si è invece ripetutamente pronunciata in proposito affermando che la presenza di scritture contabili formalmente corrette non esclude la legittimità dell’accertamento analitico- induttivo del reddito d’impresa, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), qualora la contabilità stessa possa considerarsi complessivamente inattendibile in quanto confliggente con i criteri della ragionevolezza, anche sotto il profilo dell’antieconomicità del comportamento del contribuente, essendo in tali casi consentito all’Ufficio dubitare della veridicità delle operazioni dichiarate e desumere, sulla base di presunzioni semplici purché gravi, precise e concordanti, maggiori ricavi o minori costi, con conseguente spostamento dell’onere della prova contraria a carico del contribuente, nonché affermando altresì che il citato art. 39, comma 1, lett. d), consente l’accertamento induttivo del reddito, pur in presenza di scritture contabili formalmente corrette, qualora la contabilità possa essere considerata complessivamente ed essenzialmente inattendibile, in quanto confliggente con regole fondamentali di ragionevolezza, potendo il giudizio di non affidabilità della documentazione fiscale essere determinato dall’abnormità dell’espressione finale” (v. Cass. n. 13976 del 2001; n. 6337 del 2002; n. 1711 del 2007), ed ulteriormente precisando che la tenuta della contabilità in maniera formalmente regolare non è di ostacolo alla rettifica delle dichiarazioni fiscali e, in presenza di un comportamento assolutamente contrario ai canoni dell’economia, che il contribuente non spieghi in alcun modo, è legittimo l’accertamento su base presuntiva, con la conseguenza che il giudice di merito, per poter annullare l’accertamento, deve specificare, con argomenti validi, le ragioni per le quali ritiene che l’antieconomicità del comportamento del contribuente non sia sintomatico di possibili violazioni di disposizioni tributarie (v. tra le altre Cass. n. 14428 del 2005; n, 20422 del 2005 e 21536 del 2007).
Il terzo motivo di ricorso è invece infondato.
A differenza di quanto la ricorrente mostra di ritenere nel motivo in esame, la procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è tout-court determinata per legge sulla base dello scostamento del reddito dichiarato rispetto agli “standards” in sè considerati – meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività – ma nasce solo in esito al contraddittorio col contribuente, da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento (v. SU n. 26635 del 2009).
Tanto chiarito, la sussistenza dei presupposti per un accertamento induttivo non comporta di per sè una inversione dell’onere della prova a carico del contribuente, ma comporta soltanto che l’accertamento può essere basato su presunzioni la cui gravità, precisione e concordanza deve essere valutata in concreto dal giudice. L’onere della prova del maggior reddito resta perciò a carico dell’Amministrazione che ovviamente può assolverlo anche a mezzo di presunzioni semplici – la cui adeguatezza deve essere valutata dal giudice – rispetto alle quali il contribuente prova contraria.
Nella specie pertanto correttamente i giudici di merito hanno ritenuto che gravasse sull’Amministrazione l’onere probatorio del maggior reddito, e sono passati quindi a valutare la prova presuntiva offerta (ritenendo poi che l’onere probatorio non fosse stato assolto in quanto la prova offerta era fondata su di una presunzione di secondo grado).
Il quarto motivo di ricorso è fondato. I giudici d’appello hanno in maniera assolutamente apodittica espresso una valutazione negativa circa la prova presuntiva offerta dall’Amministrazione, affermando in maniera piuttosto oscura (e con un incomprensibile riferimento al lavoro di tale “signor M.”) che l’Ufficio aveva fondato la propria pretesa su di una presunzione di secondo grado ed omettendo completamente di considerare dati oggettivi (ad esempio il saldo negativo emergente dalle scritture contabili, pure riferito nella stessa sentenza) che avrebbero potuto in ipotesi fondare una valida presunzione di maggior reddito non dichiarato, in presenza dell’accertamento di determinate caratteristiche (ad esempio gravità, intensità, ripetitività di perdite accompagnate dalla continuità dell’attività e quindi di esborsi di liquidità per il pagamento di fornitori e dipendenti).
Sulla base di quanto sopra esposto i motivi primo, secondo e quarto devono essere accolti, mentre il terzo deve essere rigettato. La sentenza impugnata deve essere cassata in relazione ai motivi accolti, con rinvio ad altro giudice che prvvederà a decidere la controversia facendo applicazione dei principi sopra esposti ed a liquidare le spese del presente giudizio di legittimità.