Cass., sez. trib., 15 luglio 2015, n. 14787 (testo)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PICCININNI Carlo – Presidente –
Dott. BIELLI Stefano – Consigliere –
Dott. OLIVIERI Stefano – Consigliere –
Dott. MARULLI Marco – rel. Consigliere –
Dott. PERRINO Angelina Maria – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 4453/2010 proposto da:
AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;
– ricorrente –
contro
F. SRL in persona dell’Amministratore Unico, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DI TORRE ARGENTINA 47, presso lo studio dell’avvocato CRISTIANO COLONNELLI, rappresentato e difeso dall’avvocato NOVARA MARCO, giusta delega in calce;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 65/2009 della COMM.TRIB.REG. di TORINO, depositata il 04/11/2009;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 25/05/2015 dal Consigliere Dott. MARCO MARULLI;
udito per il ricorrente l’Avvocato FIORENTINO che ha chiesto l’accoglimento;
udito per il controricorrente l’Avvocato NOVARA che ha chiesto il rigetto;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. BASILE Tommaso, che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
1. Il 7.7.2008 l’ufficio di Torino (OMISSIS) dell’Agenzia delle Entrate faceva notificare alla F. s.r.l., società svolgente l’attività di elaborazione elettronica dei dati, un avviso di accertamento con cui, in applicazione degli studi di settore riferiti al gruppo omogeneo di appartenenza nel quale era stata inserita la contribuente, provvedeva in ragione degli scostamenti reddituali riscontrati tra i ricavi dichiarati e quelli puntuali, a rettificare ai sensi del D.L. n. 331 del 1993, art. 62 sexies, e D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), le dichiarazioni IVA, IRPEG ed IRAP della parte per l’anno 2004, determinando il maggior carico fiscale e liquidando imposte, interessi e sanzioni.
Avverso la sentenza di primo grado – che aveva respinto il ricorso della contribuente ritenendo che questa non avesse provato nè l’errore nella individuazione dello studio di settore né, malgrado il grave evento traumatico che aveva colpito un dipendente, figlio dell’amministratore unico e preposto al coordinamento delle attività aziendali, la presenza di fatti in grado di giustificare lo scostamento rilevato – interponeva appello avanti alla CTR Piemonte la soccombente FADIT (chiedendo la riforma dell’impugnata sentenza.
I giudici di appello, accogliendo il gravame, osservato previamente che l’applicazione degli studi di settore non dispensa l’ufficio dall’onere di provare “la presenza di presunzioni di tale gravità e concordanza da giustificare” la legittimità della ripresa, si sono detti convinti che “nei fatti l’ufficio non ha in nessun caso né comprovato la sussistenza di elementi fondanti le sue pretese, ma anzi… non ha in alcun modo voluto vagliare nel concreto la situazione – sia pure anomala – venutasi a verificare in conseguenza del gravissimo incidente occorso ad un lavoratore che non soltanto rivestiva un ruolo nell’azienda, ma che, peraltro, quale figlio dell’amministratore unico… ha di fatto costituito per la ditta un evento disastroso ed anomalo tale da giustificare un’attenta revisione della situazione della contribuente”. Poiché “da quanto sopra appare evidente che la situazione che si è venuta a creare nel concreto certamente non può rientrare nelle condizioni di normale attività”, in presenza delle quali è legittimo l’accertamento fondato sugli studi di settore, nella specie “l’operato dell’ufficio non appare corretto e non si appalesa condivisibile”, sicché la sentenza dei primi giudici va conseguentemente riformata.
Per la cassazione di detta sentenza l’Agenzia promuove ricorso sulla base di cinque motivi.
Resiste con controricorso la parte privata.
Motivi della decisione
2.1. Con il primo motivo di ricorso, l’Agenzia ricorrente deduce per gli effetti dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, la nullità della sentenza per violazione dell’art. 342 c.p.c., e D.L. n. 546 del 1992, art. 53, comma 1, poiché, premesso che in base alle citate disposizioni l’atto di appello deve contenere l’esposizione di specifici motivi di impugnazione, nella specie “la contribuente nel proprio atto di appello, non ha proposto alcuna specifica censura in relazione al decisum della sentenza resa dal giudice di prime cure, non chiarendo in alcun modo quali siano i capi della pronuncia impugnati”, di modo che la sentenza si rivela viziata avendo la CTR omesso di dichiarare l’inammissibilità del gravame.
2.2. Il motivo è inammissibile per novità della questione, trattandosi di questione non precedentemente prospettata e non sottoposta perciò al vaglio del giudice di appello.
La sua introduzione per la prima volta in questa sede urta dunque contro il consolidato principio affermato dalla Corte secondo cui “non sono prospettabili, per la prima volta, in sede di legittimità le questioni non appartenenti al tema del decidere dei precedenti gradi del giudizio di merito, né rilevabili di ufficio” (9034/15;
6613/15; 17041/13), e ciò perché come è ampiamente noto il giudizio di cassazione “ha per oggetto solo la revisione della sentenza in rapporto alla regolarità formale del processo ed alle questioni di diritto proposte” (7757/15; 3223/15; 4787/12).
3.1. Il secondo ed il terzo motivo di ricorso addebitano all’impugnata sentenza ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione di legge in relazione all’art. 2697 c.c., che risulta nella specie doppiamente inosservato, sotto un primo profilo, in relazione anche all’art. 39 D.P.R. 600/73, perché la CTR, “avrebbe accolto l’appello spiegato dalla contribuente sull’implicito ed errato presupposto per il quale fosse onere dell’Ufficio quello di provare – pur in presenza di un reddito della contribuente inferiore a quello derivante dai parametri stessi – l’origine del maggior reddito accertato” (secondo motivo); e sotto un secondo profilo in relazione anche al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, L. n. 549 del 1995, art. 3, comma 181, e D.L. n. 331 del 1993, art. 62 sexies. Poiché, patimenti, la CTR avrebbe errato non considerando “idonei a fondare la pretesa impositiva del fisco ai sensi e per gli effetti di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, e D.L. n. 331 del 1993, art. 62 sexies, gli strumenti parametrici di cui alla sopra indicata L. 549 del 1995, art. 3, comma 181, con i conseguenti corollari in materia di riparto dell’onere della prova”, essendo noto che i parametri sono fonte di presunzioni semplici e che essi determinano un’inversione nell’onere della prova (terzo motivo).
3.2. Entrambi i detti motivi – che possono essere esaminati congiuntamente in ragione dell’unitarietà della censura – sono fondati e la loro fondatezza determina l’assorbimento anche dei restanti motivi di ricorso: del quarto, inteso a denunciare l’errore di diritto commesso dalla CTR nell’applicazione del D.L. n. 331 del 1993, art. 62 sexies, e D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, in quanto, contrariamente a quanto da essa sostenuto, l’accertamento operato nella specie era supportato dall’allegazione di gravi incongruenze tra l’ammontare dei ricavi dichiarati e quello determinato in applicazione dei parametri; e del quinto, giusta il quale si deduce un vizio motivazionale, sotto il profilo nella specie dell’insufficienza di quella adottata per accogliere il gravame della parte, non avendo il giudice di seconde cure chiarito il percorso logico sotteso al suo assunto in relazione agli elementi presuntivi di fatto dedotti espressamente dall’ufficio.
3.2. Sul filo del più generale insegnamento secondo cui in tema di accertamento delle imposte sui redditi, nel quadro dei generali principi che governano l’onere della prova, spetta all’amministrazione finanziaria dimostrare l’esistenza dei fatti costitutivi della maggiore pretesa tributaria azionata, fornendo quindi la prova di elementi e circostanze a suo avviso rivelatori dell’esistenza di un maggiore imponibile, mentre grava sul contribuente l’onere della prova circa l’esistenza dei fatti che danno luogo ad oneri o a costi deducibili, ed in ordine al requisito dell’inerenza degli stessi all’attività professionale o d’impresa svolta (11205/07), questa Corte ha reiteratamente avuto occasione di chiarire con particolare riferimento all’attività accertatrice che utilizzi lo schema procedimentale del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 2, che l’esistenza di attività non dichiarate o l’inesistenza di passività dichiarate, nel primo caso, o le false indicazioni, nel secondo, “possono essere desunte anche sulla base di presunzioni semplici, purché gravi, precise e concordanti, senza necessità che l’Ufficio fornisca prove certe” (1283/15; 27667/13; 9784/10), essendo all’uopo bastevole, secondo un insegnamento, altrettanto condiviso, che tra il fatto noto e quello ignoto sussista un legame tale in guisa del quale il fatto da provare risulti desumibile dal fatto noto come conseguenza ragionevolmente possibile, secondo un criterio di normalità e alla stregua di un canone di probabilità che renda possibile e verosimile nel procedimento di inferenza logica la sequenza degli avvenimenti che ne sono oggetto in base a regole di comune esperienza (22656/11). In questa prospettiva risulta poi peculiare l’apporto che l’azione accertatrice ritrae dall’adozione degli strumenti di rilevazione statistica applicati alla dinamica reddituale di singole categorie di contribuenti e, segnatamente, dal ricorso agli strumenti parametrici di cui alla L. n. 549 del 1995, art. 3, comma 181 e 184, prima, e agli studi di settore, poi, cui rinvia il qui pure richiamato D.L. n. 331 del 1993, art. 62 sexies, comma 3, convertito in L. n. 427 del 1993, giusta il quale “gli accertamenti di cui al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art.39, comma 1, lett. d), e successive modificazione e D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 54, e successive modificazioni, possono essere fondati anche sull’esistenza di gravi incongruenze tra i ricavi, i compensi ed i corrispettivi dichiarati e quelli fondatamente desumibili dalle caratteristiche e dalle condizioni di esercizio della specifica attività svolta, ovvero dagli studi di settore elaborati ai sensi dell’art. 62 bis.”. Giudicando di essi e della prassi che è seguita alla loro applicazione le SS.UU. 26635/09 – sia pur con le cautele imposte dalla necessità di salvaguardare il contraddittorio con il contribuente – non hanno infatti avuto alcuna esitazione nel riconoscere “nella procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore un sistema di presunzioni semplici”, in grado di legittimare all’esito del contraddittorio con la parte la pretesa tributaria che da essi tragga supporto.
3.3. Traendo le fila di questo discorso, è dunque evidente il duplice errore in cui è incorsa la pronuncia in esame giudicando che “nella fattispecie l’ufficio non abbia in nessun caso comprovato la sussistenza di elementi fondanti le sue pretese”, risultando per vero la detta conclusione del tutto incongrua rispetto al delineato quadro di diritto. La CTR erra infatti una prima volta, poichè, pur dando atto che nella specie l’ufficio aveva proceduto a rettificare il reddito di impresa della parte in applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 2, ha tuttavia omesso di considerare, decretando l’illegittimità della pretesa fiscale, che l’accertamento in parola non era stato compiuto in applicazione degli ordinali criteri operativi indicati da dette norme, bensì provvedendo alla determinazione dei ricavi puntuali in applicazione degli studi di settore riferiti al cluster di inquadramento del contribuente, di modo che non è conseguentemente corretto scrutinare l’operato dell’ufficio alla stregua della concludenza degli elementi indiziali da esso addotti, gravandolo perciò di un onere probatorio superfluo se l’accertamento si fondi sull’applicazione degli studi di settore; erra peraltro pure una seconda volta, allorché, ritenendo appunto che nella specie la legittimità della pretesa non fosse suffragata da “elementi fondanti”, mostra di prescindere dalla valenza probatoria che, in linea di principio, l’ordinamento tributario attribuisce agli studi di settore, atteso che l’accertamento di maggiori ricavi non dichiarati, sia pure con il filtro della preventiva attivazione del contraddittorio con il contribuente, può essere utilmente argomentata anche in base alla loro applicazione, trattandosi come sì è visto di strumenti di accertamenti presuntivi del reddito.
4. Cassandosi perciò in accoglimento degli esaminati motivi la sentenza impugnata la causa andrà rinviata per il necessario riesame a mente dell’art. 383 c.p.c., comma 1, al giudice territoriale, il quale avrà cura di attenersi ai sensi dell’art. 384 c.p.c., ai seguenti principi di diritto: “i parametri o gli studi di settore previsti dal D.L. n. 331 del 1993, art. 62 sexies, rappresentando la risultante dell’estrapolazione statistica di una pluralità di dati settoriali acquisiti su campioni di contribuenti e dalle relative dichiarazioni, rivelano valori che, quando eccedono il dichiarato, integrano il presupposto per il legittimo esercizio da parte dell’Ufficio dell’accertamento analitico-induttivo,D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, ex art. 39, comma 1, lett. d), e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 2, sicché, fermo restando che il relativo procedimento presuppone l’attivazione del contraddittorio con il contribuente, l’ufficio non è tenuto ad assolvere nessun ulteriore onere probatorio per dimostrare la legittimità della propria pretesa”; “la procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici in grado di legittimare la pretesa tributaria, allorché all’esito del contraddittorio con il contribuente da instaurarsi obbligatoriamente, questa risulti provvista dei requisiti di gravità, precisione e concordanza di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d), e D.P.R. n. 633 del 1972, art. 54, comma 2”.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione accoglie il secondo ed il terzo motivo di ricorso, dichiara inammissibile il primo motivo ed assorbiti il quarto ed il quinto motivo; cassa l’impugnata sentenza e rinvia avanti alla CTR Piemonte che provvederà pure alla liquidazione delle spese del presente giudizio.
Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio della Sezione Quinta Civile, il 25 maggio 2015.
Depositato in Cancelleria il 15 luglio 2015