202305.10
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Cass., sez. trib., 10 maggio 2023 (ord.), n. 12614 (testo)

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DE STEFANO Franco – Presidente –

Dott. TATANGELO Augusto – Consigliere –

Dott. ROSSETTI Marco – Consigliere –

Dott. ROSSI Raffaele – Consigliere –

Dott. SAIJA Salvatore – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso N. 10806/2021 R.G. proposto da:

A.A., elettivamente domiciliata in Roma, Via Fonteiana n. 65, presso lo studio dell’avv. Domenico Sabia, rappresentata e difesa dall’avv. Giovanni Colaurcio, come da procura in calce al ricorso;

  • ricorrente –

contro

EQUITALIA GIUSTIZIA Spa , in persona del legale rappresentante pro tempore, domiciliato in Roma, presso la cancelleria della Corte di cassazione, rappresentata e difesa dall’avv. Gennaro Di Maggio, come da procura allegata al controricorso;

  • controricorrente –

e contro

MINISTERO DELLA GIUSTIZIA, AGENZIA DELLE ENTRATE-RISCOSSIONE;

  • intimati –

avverso la sentenza n. 413/2021 della Corte d’appello di Napoli, depositata il 4.2.2021;

udita la relazione della causa svolta nella adunanza camerale del 7.3.2023 dal Consigliere relatore Dott. Salvatore Saija.

Svolgimento del processo

A.A. con atto dell’8.8.2019 propose opposizione avverso la cartella esattoriale n. (Omissis), notificatale il 20.7.2019, con cui le si intimava il pagamento della somma di Euro 40.101,53, relative a spese di giustizia derivanti da un procedimento penale, oltre spese di registrazione ed accessori. Nel contraddittorio con Equitalia Giustizia Spa , Ministero della Giustizia e Agenzia delle Entrate-Riscossione (AdER), sede di (Omissis), l’adito Tribunale di Avellino, con sentenza del 28.1.2020, accolse l’opposizione, annullando la cartella per intervenuta decadenza. Equitalia Giustizia propose appello, resistito dalla sola A.A., che pure propose appello incidentale in relazione ai denunciati vizi della cartella dichiarati assorbiti; quindi, la Corte d’appello di Napoli, con sentenza del 4.2.2021, accolse l’appello di Equitalia Giustizia e, in riforma della sentenza impugnata, rigettò l’opposizione della A.A.. In particolare, il giudice d’appello ritenne non applicabile la decadenza D.P.R. n. 602 del 1973, ex art. 25 in subiecta materia, nè configurabile quella denunciata ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 227-ter e rigettò tutte le eccezioni della stessa A.A. rimaste assorbite in primo grado.

Avverso detta sentenza, ricorre ora per cassazione A.A., affidandosi a sette motivi, illustrati da memoria, cui resiste con controricorso Equitalia Giustizia Spa ; Agenzia delle Entrate-Riscossione e il Ministero della Giustizia non hanno svolto difese. Ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c., comma 2, il Collegio ha riservato il deposito dell’ordinanza nei sessanta giorni successivi all’odierna adunanza camerale.

Motivi della decisione

1.1 – Con il primo motivo si lamenta la nullità della sentenza per difetto di integrità del contraddittorio in grado d’appello, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, per aver la Corte d’appello ritenuto validamente notificato il gravame ad AdER, ancorchè Equitalia Giustizia lo avesse inviato ad indirizzo PEC ((Omissis)) non risultante da pubblici registri. La ricorrente aggiunge che ciò vale tanto più che nel giudizio d’appello avrebbe dovuto evocarsi la struttura territoriale di AdER. 1.2 – Con il secondo motivo si lamenta irragionevolezza, illogicità ed insufficienza della motivazione, in violazione dell’art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4, e dell’art. 111 Cost., comma 6, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 Si censura l’impugnata decisione per aver la Corte d’appello ritenuto che il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 223 nel rinviare al D.P.R. n. 602 del 1973, art. 25 andasse riferito al testo vigente all’epoca dell’entrata in vigore della prima disposizione (1.7.2022), senza adeguatamente spiegarne le ragioni, e rendendo anzi una motivazione illogica ed incoerente, anche laddove si è affermato che la notifica della cartella, in subiecta materia, non è soggetta a termini di decadenza.

1.3 – Con il terzo motivo si denuncia violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 115 del 2002, artt. 223 e 227-ter, D.P.R. n. 602 del 1973, art. 25 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. La ricorrente censura la sentenza impugnata in relazione alla questione di cui al motivo precedente, ma sotto il profilo della violazione di norma di diritto.

1.4 – Con il quarto motivo si denuncia violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 227-ter, del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 49 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3. Si censura la sentenza impugnata per aver ritenuto che la prima norma rubricata non fissi un termine di decadenza in ordine all’iscrizione a ruolo, effettuata dopo il termine di trenta giorni dalla definitività della sentenza penale, termine invece erroneamente ritenuto di natura ordinatoria; ciò a fronte di una iscrizione a ruolo avvenuta dopo oltre sette anni dalla definitività del provvedimento penale da cui ha avuto origine il credito.

1.5 – Con il quinto motivo si denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 167-198 c.p., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, per non aver la il giudice d’appello tenuto conto che il reato per cui essa ricorrente era stata condannata in sede penale si era estinto ex art. 167 c.p., come dichiarato dalla Corte d’appello di Milano. Ciò avrebbe dovuto condurre all’accoglimento dell’opposizione, giacchè la condanna alle spese ha natura di sanzione accessoria.

1.6 – Con il sesto motivo si denuncia omessa pronuncia, nonchè omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione, in violazione degli artt. 132 e 112 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 Si lamenta il vizio motivazionale e di omessa pronuncia in relazione alla questione di cui al motivo precedente.

1.7 – Con il settimo motivo, infine, si denuncia violazione e falsa applicazione della L. n. 241 del 1990, art. 3, degli artt. 3 e 24 Cost., ed ancora illogicità ed incoerenza della motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4 Si censura la sentenza impugnata per non aver rilevato la nullità della cartella per vizio di motivazione.

2.1 – Preliminarmente, dev’essere disattesa l’eccezione di inammissibilità del controricorso di Equitalia Giustizia, sollevata in memoria dalla A.A., che ciò rileva in quanto l’atto non riporta i motivi, nè gli atti processuali, nè tantomeno i documenti su cui gli stessi sono fondati, nè infine il loro contenuto rilevante.

Invero, l’art. 370, comma 2, nel definire il contenuto del controricorso, stabilisce che all’atto “si applicano le norme degli artt. 365 e 366, in quanto è possibile”. Detta disposizione è costantemente interpretata, nella giurisprudenza di questa Corte, nel senso che “La parte contro la quale il ricorso è diretto, se intende contraddirvi, deve farlo mediante controricorso contenente, ai sensi dell’art. 366 c.p.c. (richiamato dall’art. 370 c.p.c., comma 2), l’esposizione delle ragioni atte a dimostrare l’infondatezza delle censure mosse alla sentenza impugnata dal ricorrente” (così la recentissima Cass. n. 4049/2023; conf. Cass. n. 6222/2012); si è anche precisato che “Nel giudizio di cassazione, il controricorso – ai fini del rispetto del requisito di cui all’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, (richiamato dall’art. 370 c.p.c., comma 2, “in quanto è possibile”) – assolvendo alla sola funzione di contrastare l’impugnazione altrui, deve contenere l’autonoma esposizione sommaria dei fatti della causa soltanto nel caso in cui con esso venga proposta impugnazione incidentale, stante l’autonomia di questa rispetto all’impugnazione principale; tuttavia, qualora il controricorrente, pur senza proporre impugnazione incidentale, sollevi eccezioni sull’ammissibilità del ricorso che implichino una valutazione del materiale documentale delle fasi di merito, il controricorso deve contenere una sufficiente ed autonoma esposizione dei fatti di causa inerenti a dette eccezioni, in modo da consentire alla Corte di verificarne la portata, dalla sola lettura dell’atto” (Cass. n. 1150/2019, Rv. 652710-01).

In definitiva, con il controricorso – se privo di impugnazione incidentale, giacchè in caso contrario deve necessariamente rispettare i requisiti di contenuto-forma di cui all’art. 366 c.p.c. (v. Cass. n. 18483/2015) – la parte che intende contraddire, destinataria dell’impugnazione, non è tenuta a replicare pedissequamente la struttura del ricorso per cassazione (come, ad es., i motivi), solo occorrendo che, con detto atto, essa prenda posizione specificamente sulle censure mosse da controparte, fermo restando che il contenuto dell’atto stesso deve essere calibrato, con la necessaria autosufficienza e specificità, in ragione delle eccezioni e difese con esso propugnate.

Il controricorso di Equitalia Giustizia è del tutto conforme a quanto precede, giacchè con esso si sono analiticamente e specificamente contestate le singole doglianze della A.A., offrendo al giudizio – e a questa Corte – argomenti di segno contrario e funzionale al rigetto del ricorso avversario, senza al contempo proporre impugnazione incidentale.

3.1 – Ciò posto, il primo motivo è infondato, in tutte le sue articolazioni.

Regolando la giurisdizione in relazione a contestazione circa la validità dell’indirizzo PEC del soggetto mittente, le Sezioni Unite di questa Corte hanno tra l’altro affermato che “una maggiore rigidità formale in tema di notifiche digitali è richiesta per l’individuazione dell’indirizzo del destinatario, cioè del soggetto passivo a cui è associato un onere di tenuta diligente del proprio casellario, ma non anche del mittente” (Cass., Sez. Un., n. 15959/2022). Con detto arresto, dunque, si è voluto evidenziare che il rigoroso rispetto delle regole in tema di notifica degli atti processuali a mezzo PEC vale specialmente in relazione alla posizione del destinatario della notifica, per le ragioni evidenziate; la questione posta col mezzo in esame – ferma restando l’indiscussa riferibilità dell’indirizzo PEC in discorso ad AdER – è dunque senz’altro rilevante, posto che essa concerne proprio la pretesa violazione delle disposizioni concernenti l’indirizzo PEC del destinatario.

Ora, come anche evidenziato dalla controricorrente Equitalia Giustizia, la regola di riferimento, sul tema in questione, è dettata dal D.L. n. 179 del 2012, art. 16-ter, comma 1, conv. in L. n. 221 del 2012, a mente del quale “A decorrere dal 15 dicembre 2013, ai fini della notificazione e comunicazione degli atti in materia civile, penale, amministrativa, contabile e stragiudiziale si intendono per pubblici elenchi quelli previsti dal D.Lgs. 7 marzo 2005, n. 82, artt. 6-bis, 6-quater e 62, dall’art. 16, comma 12, del presente decreto, dal D.L. 29 novembre 2008, n. 185, art. 16, comma 6, convertito con modificazioni dalla L. 28 gennaio 2009, n. 2, nonchè il registro generale degli indirizzi elettronici, gestito dal Ministero della giustizia”. Inoltre, a far data dal 17.7.2020, in relazione alle notificazioni di atti processuali da effettuarsi nei confronti di una pubblica amministrazione, trova anche applicazione il disposto dell’art. 16-ter cit., comma 1-ter (comma introdotto dal D.L. n. 76 del 2020, art. 28 conv. in L. n. 120 del 2020), che pure consente l’utilizzo dell’indirizzo PEC inserito nell’elenco di cui al D.Lgs. n. 82 del 2005, art. 6-ter in caso di mancata indicazione nell’elenco di cui allo stesso D.L. n. 179 del 2012, art. 16, comma 12.

Ciò posto – premesso che l’appello venne notificato a tutte le parti, compresa AdER (seppur con le contestate modalità), in data 3.3.2020, sicchè non viene qui in rilievo, ratione temporis, la possibilità di considerare l’elenco di cui al D.Lgs. n. 82 del 2005, art. 6-ter ossia dell’Indice dei domicili digitali delle PP.AA. (c.d. Registro IPA) -, ai sensi del D.L. n. 179 del 2012, citato art. 16-ter, comma 1, e avuto riguardo alla disciplina applicabile ratione temporis, il reperimento dell’indirizzo PEC della destinatario dell’atto processuale può essere effettuato mediante ricorso: 1) al Registro INI-PEC; 2) al Registro INAD (Indice nazionale dei domicili digitali delle persone fisiche e degli altri enti di diritto privato, non tenuti all’iscrizione in albi professionali o nel registro delle imprese); 3) all’Anagrafe della popolazione residente (ANPR), istituita presso il Ministero dell’Interno; 4) al Registro delle PP.AA. presso il Ministero della Giustizia; 5) al Registro delle Imprese; ed infine, 6) al REGINDE, tenuto presso il Ministero della Giustizia.

Ebbene, come risulta dalla relata di notifica dell’appello (qui prodotta dall’odierna ricorrente sub. doc. 15), Equitalia Giustizia notificò il gravame ad AdER presso l’indirizzo “(Omissis)”, assumendo essere stato tratto dal Registro della PP.AA. presso il Ministero della Giustizia, ossia quello che poc’anzi indicato sub 4). Premesso, dunque, che la notifica ben avrebbe potuto effettuarsi a detto indirizzo PEC, se ed in quanto inserita nell’indicato Registro, la ricorrente ha inteso dimostrare che lo stesso non vi risultasse censito, producendo a sostegno del mezzo, in questa sede, un “abstract inesistenza indirizzo telematico nel PPAA” (sub doc. 5).

In realtà, il cennato documento è tratto dal Registro IPA, gestito dall’Agenzia per l’Italia Digitale (AgID), sicchè l’affermazione è rimasta del tutto indimostrata, in quanto avrebbe eventualmente dovuto prodursi, all’uopo, documentazione tratta proprio dal Registro delle PP.AA. gestito dal Ministero della Giustizia, ossia quello indicato nella relata della notifica dell’appello. Nè la ricorrente può invocare, al riguardo, la mancata dimostrazione dell’assunto, da parte di Equitalia Giustizia, circa l’iscrizione del detto indirizzo nell’indicato Registro, come argomentato in memoria; infatti, in forza della regola di cui all’art. 2697 c.c., comma 2, il relativo onere non può che gravare sulla parte che solleva l’eccezione, che avrebbe agevolmente potuto supportarsi mediante idonea documentazione, evidentemente diversa da quella qui prodotta, nonchè acquisibile con minima diligenza.

3.2 – In relazione all’ulteriore profilo di censura, è sufficiente qui evidenziare che l’indirizzo PEC che, a dire della ricorrente, avrebbe indefettibilmente dovuto utilizzarsi ai fini della notifica all’articolazione territoriale dell’agente della riscossione, è tratto dal Registro IPA, che – per quanto già detto (v. par. 3.1) – non può venire in rilievo nella specie, ratione temporis. E tanto esime da ogni ulteriore approfondimento sulla possibilità di estendere all’Agenzia delle Entrate – Riscossione le conclusioni della giurisprudenza di questa Corte sul difetto di autonoma personalità giuridica delle articolazioni territoriali delle Agenzie fiscali (per l’Agenzia delle Entrate, v., tra le altre, Cass. n. 22434/2016): le quali consentirebbero di apprezzare l’infondatezza nel merito della censura.

4.1 – Il secondo e il terzo motivo possono esaminarsi congiuntamente, perchè concernenti la medesima questione, seppur sotto diverse angolazioni; essi sono infondati.

Anzitutto, può sgombrarsi il campo dalla questione circa il preteso vizio motivazionale, in quanto la Corte d’appello, nel ritenere l’inapplicabilità del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 25 alla materia della riscossione delle spese penali di giustizia, ha reso una motivazione ampia, argomentata e certamente ben superiore al “minimo costituzionale”, ex art. 111 Cost., comma 6, (v. Cass., Sez. Un., n. 8053/2014), oltre che corretta in iure (come si dirà tra breve). Il giudice del merito, infatti, ha analiticamente spiegato le ragioni per cui, in subiecta materia, l’unico profilo che può venire in rilievo sul piano della tempestività dell’azione di recupero è quello relativo alla prescrizione, non essendovi alcuno Spa zio per la decadenza; ciò ha fatto con argomenti certamente idonei a palesare l’iter motivazionale seguito, per nulla illogico o contraddittorio.

4.2.1 – La decisione sul punto, inoltre, è assolutamente ineccepibile, non essendo configurabile la denunciata violazione di norme di diritto.

Infatti, è anzitutto ben noto che la decadenza di cui all’art. 25 cit. non abbia valenza generale, trovando applicazione soltanto in relazione alle pretese erariali e non già in ogni ipotesi di riscossione a mezzo ruolo, “posto che soltanto per la riscossione delle entrate erariali tributarie sussiste l’esigenza, che giustifica il regime di decadenza, della fissazione di un termine ultimo entro cui il contribuente deve venire a conoscenza delle pretese del fisco” (Cass. n. 28529/2018). Peraltro, proprio richiamando tale arresto, la recente Cass. n. 20856/2021 (non massimata) ha anche escluso che, in tema di recupero esattoriale di spese penali di giustizia, possa farsi ricorso alla decadenza di cui al D.P.R. n. 602 del 1973, art. 25.

4.2.2 – A ciò si aggiunga che, come correttamente evidenziato dalla Corte napoletana, il rinvio operato dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 223 al D.P.R. n. 602 del 1973, art. 25, commi 1, 2 e 3, va inequivocabilmente inteso quale rinvio “recettizio” o “fisso”, avuto dunque riguardo al testo di dette disposizioni vigente all’epoca dell’entrata in vigore dello stesso art. 223, ossia alla data del 1.7.2002, restando irrilevanti le successive modifiche apportatevi.

E d’altra parte, la ratio del rinvio in questione, cui occorre pur sempre far riferimento onde discernere se si tratti di rinvio recettizio o non recettizio (v. Corte Cost., n. 80/2013), esclude senz’altro che l’intento del legislatore sia da individuare nella necessità di informare quanto più tempestivamente possibile il destinatario della pretesa di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 223.

4.2.3 – In proposito, va evidenziato che l’istituto della decadenza nell’esecuzione esattoriale – che la ricorrente pretenderebbe tout court applicabile nella vicenda che occupa – è stato oggetto di intense vicende, soprattutto sul finire del secolo scorso e all’inizio del corrente: infatti, nell’impianto originario del D.P.R. n. 602 del 1973 (seppur con prescrizioni via via più ampie e articolate nel tempo, specie a seguito del riordino del sistema di riscossione mediante ruolo di cui al D.Lgs. n. 46 del 1999), l’art. 17 disciplinava la decadenza da tardiva iscrizione a ruolo dell’imposta, mentre l’art. 25 regolava i termini entro cui dapprima l’esattore, e poi il concessionario per la riscossione, avrebbe(ro) dovuto procedere alla notifica della cartella di pagamento (termini anch’essi ritenuti perentori dalla giurisprudenza di questa Corte – v. Cass. n. 10/2004, Cass. n. 5097/2005 e Cass. n. 16435/2009; peraltro, il termine in discorso venne espressamente qualificato come posto a pena di decadenza a seguito della riformulazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 25, comma 1, operata dalla L. n. 311 del 2004, art. 1, comma 417).

Senonchè, la soppressione dei termini di notifica della cartella di pagamento di cui all’art. 25 cit. – disposta dal D.Lgs. n. 193 del 2001 nell’ambito del “correttivo” al riordino della riscossione – aveva posto il contribuente sostanzialmente in balia del fisco, il che non risultava escluso neanche dalla cennata riformulazione dello stesso art. 25 operata dalla L. n. 311 del 2004, che invece aveva reintrodotto un termine per la notifica della cartella, a pena di decadenza, senza però individuare compiutamente il dies a quo. Intervenne così la Corte costituzionale, che, con sentenza 15.7.2005, n. 280, dichiarò l’illegittimità costituzionale dell’art. 25 cit., per contrasto con l’art. 24 Cost. Conseguentemente, in ossequio alla sollecitazione della Consulta, il vuoto normativo venne colmato con il D.L. n. 106 del 2005, art. 1, comma 5-bis, conv. in L. n. 156 del 2005, a mente del quale “Al fine di garantire l’interesse del contribuente alla conoscenza, in termini certi, della pretesa tributaria derivante dalla liquidazione delle dichiarazioni e di assicurare l’interesse pubblico alla riscossione dei crediti tributari, la notifica delle relative cartelle di pagamento è effettuata, a pena di decadenza:…”, entro termini variamente stabiliti, a seconda dell’epoca di presentazione della dichiarazione; nonchè con l’art. 1, comma 5-ter, che “In conseguenza di quanto previsto dal comma 5-bis e al fine di conseguire, altresì, la necessaria uniformità del sistema di riscossione mediante ruolo delle imposte sui redditi e dell’imposta sul valore aggiunto”, ha soppresso il D.P.R. n. 602 del 1973, art. 17 (con eliminazione, dunque, della decadenza da tardiva iscrizione a ruolo), riscrivendo ex novo il successivo art. 25, in relazione alle fattispecie maturate dopo l’entrata in vigore della detta modifica (10.8.2005). Nella sostanza, l’art. 1, comma 5-bis, cit., ha dettato la disciplina transitoria, per far fronte alle incertezze derivanti dal vuoto normativo, mentre il comma 5-ter ha fissato “a regime” la nuova disciplina della decadenza, stabilmente (ed unicamente) collegata al mancato rispetto dei termini di notifica della cartella di pagamento (v. amplius, Cass. n. 10875/2019). Il D.P.R. n. 602 del 1973, art. 25 è stato poi oggetto di ulteriori modifiche normative ad opera del D.L. n. 223 del 2006, art. 37, comma 40, conv. in L. n. 248 del 2006, nonchè del D.Lgs. n. 159 del 2015, art. 4 ed infine della L. n. 197 del 2022, art. 1, comma 158.

Questo, dunque, il quadro normativo che concerne, propriamente, il tema della decadenza ancor oggi invocata dall’odierna ricorrente, ad ampio spettro.

4.2.4 – Come è dunque evidente, il tema è del tutto avulso rispetto al recupero del credito che qui occupa, e ciò anche avuto riguardo alla formulazione letterale delle disposizioni concernenti la decadenza, nelle vicende normative susseguitesi all’esito del descritto intervento della Consulta, ove è inequivoco il riferimento alla “riscossione di crediti tributari”, nei confronti del “contribuente”: non è dubbio che le spese di giustizia penali abbiano, invece, natura non tributaria, tanto che le relative controversie appartengono alla giurisdizione del giudice ordinario (per tutte, Cass., Sez. Un., n. 3008/2008).

Il rinvio operato dall’art. 223 cit., pertanto, non può che riferirsi al testo dell’art. 25 cit. vigente all’epoca della sua entrata in vigore (nel testo risultante, dunque, per effetto del “correttivo” del D.Lgs. n. 193 del 2001), con esso volendo solo stabilirsi che: 1) il concessionario notifica la cartella di pagamento, al debitore iscritto a ruolo o al coobbligato nei confronti dei quali procede; 2) la cartella di pagamento, conforme al modello ministeriale, contiene l’intimazione ad adempiere l’obbligo risultante dal ruolo entro il termine di sessanta giorni dalla notificazione, con l’avvertimento che, in mancanza, si procederà ad esecuzione forzata; ed infine, 3) ai fini della scadenza del termine di pagamento il sabato è considerato giorno festivo.

Il che è quanto, correttamente, statuito dalla Corte territoriale.

E, per concludere sul punto, è significativo elemento ermeneutico testuale, ad ulteriore conforto di tale ricostruzione, che il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 227-ter, comma 2, ult. periodo, come modificato dalla L. n. 69 del 2009, art. 67 disciplinando l’azione di recupero dell’agente della riscossione per le spese penali di giustizia, rinvii ancora al D.P.R. n. 602 del 1973, art. 25, solo comma 2 che ancora regola il contenuto della cartella di pagamento (poc’anzi indicato sub 2), disposizione che è rimasta immutata sin dalla sua adozione, operata dal D.Lgs. n. 46 del 1999.

Il D.P.R. n. 115 del 2002, art. 227-ter, comma 1, ut supra modificato, stabilisce che “entro un mese dalla data del passaggio in giudicato della sentenza o dalla data in cui è divenuto definitivo il provvedimento da cui sorge l’obbligo o, per le spese di mantenimento, cessata l’espiazione in istituto, l’ufficio ovvero… la società Equitalia Giustizia Spa procede all’iscrizione a ruolo”.

Ebbene, il suddetto termine di un mese per procedere all’iscrizione a ruolo, decorrente dalla definitività dell’obbligo di pagamento delle spese di giustizia, non è previsto a pena di decadenza e non è dunque considerabile perentorio. Sulla portata del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 227-ter nella giurisprudenza di questa Corte si rinvengono, in verità, pochi precedenti, che però non hanno affrontato funditus la questione che qui interessa. In particolare, si è anzitutto affermato che l’iscrizione a ruolo del credito, effettuata dopo il 4.7.2009 (data di entrata in vigore della cennata modifica) “non deve essere preceduta dalla notificazione dell’invito al pagamento, già previsto dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 212 dovendo ritenersi abrogata quest’ultima previsione a seguito della modifica del citato art. 227 ter” (Cass. n. 21178/2017); inoltre, si è anche escluso che la stessa formazione del ruolo, oltre che la notifica della cartella di pagamento, debbano “essere precedute dalla notifica dei provvedimenti giurisdizionali da cui sorge il credito, posto che la notificazione della detta cartella, nella quale siano riportati gli elementi minimi per consentire all’obbligato di individuare la pretesa impositiva e di difendersi nel merito, costituisce notificazione di un omologo del precetto riferito ad un titolo esecutivo rappresentato, a sua volta, dal sotteso ruolo” (Cass. n. 2553/2019).

A ciò può anche aggiungersi anche la già citata Cass. n. 20856/2021, che, in motivazione, ha affermato – sul piano generale – che “la decadenza invocata è riferibile solo alle pretese tributarie per cui è stata dettata, dovendo quindi constatarsi limitato funzionalmente il richiamo (infatti) al D.P.R. n. 602 del 1973, art. 25, comma 2 operato dal D.P.R. n. 115 del 2002, art. 227 ter (cfr. Cass., 08/11/2018, n. 28529)”.

In ogni caso – ferma la necessità di procedere mediante notificazione della cartella di pagamento, che è meramente riproduttiva del ruolo (Cass. n. 8329/2020) – può senz’altro escludersi che, in subiecta materia, l’iscrizione a ruolo delle somme debba essere eseguita, entro il termine di un mese dal definitivo accertamento del credito, a pena di decadenza; ciò in considerazione sia della mancanza di esplicita previsione normativa circa la perentorietà del termine in questione, sia dell’assenza di uno Spa zio operativo funzionale per l’istituto della decadenza, nella materia che occupa (questione di cui si è ampiamente detto supra).

Pertanto – sul piano della tempestività della relativa azione di riscossione – non può che venire in rilievo il solo termine di prescrizione, come correttamente ritenuto dal giudice d’appello.

6.1 – In relazione alle questioni poste dal quinto e dal sesto motivo, invece, la sentenza impugnata è cassata senza rinvio, ex art. 382 c.p.c., comma 3, perchè la causa non poteva proporsi dinanzi al giudice civile, come ha fatto la A.A..

Al riguardo, viene in rilievo il principio secondo cui “In tema di opposizione a cartelle di pagamento per spese di giustizia, cui siano sottesi provvedimenti adottati dal giudice penale, sono riservate alla cognizione del giudice civile le contestazioni riguardanti o aspetti squisitamente contabili o la riconducibilità di talune voci al perimetro di applicabilità della condanna, sempre che non vi siano dubbi sulla definizione del detto perimetro e si verta, quindi, solo sul concreto rispetto di esso in sede di quantificazione. Qualora, viceversa, si discuta della reale definizione del perimetro e, pertanto, della portata della stessa statuizione penale, la questione appartiene alla cognizione del giudice dell’esecuzione penale” (Cass. n. 14598/2020). Detta statuizione si pone dichiaratamente in linea con l’insegnamento di Cass., Sez. Un. pen., n. 491/2011, Pislor, così massimata: “La domanda del condannato che, senza contestazione della condanna al pagamento delle spese del procedimento penale, deduca (sia quanto al calcolo del concreto ammontare delle voci di spesa, sia quanto alla loro pertinenza ai reati cui si riferisce la condanna) l’errata quantificazione, va proposta al giudice civile nelle forme dell’opposizione “ex” art. 615 c.p.c.; non rilevando a tal fine l’attribuibilità alla statuizione di detta condanna della natura di sanzione economica accessoria alla pena”.

6.2 – In base a detti principi, dunque, occorre stabilire quale sia il contenuto della domanda dell’opponente destinatario della cartella, la cognizione essendo devoluta al giudice penale ove volta a contestare la determinazione della condanna alle spese, in relazione alla effettiva individuazione dei reati per i quali l’opponente stesso aveva riportato la condanna.

6.3 – Va anche precisato che la recente Cass., Sez. Un., n. 38596/2021 (che ha affermato la non configurabilità di una “questione di competenza” in subiecta materia, rispetto all’ordinanza con cui il giudice civile rimetta la questione al giudice penale appartenente al medesimo ufficio giudiziario), non è pertinente nella specie, giacchè la condanna penale è stata irrogata alla A.A. dalla Corte d’appello di Milano, mentre l’opposizione alla cartella è stata proposta dinanzi al Tribunale di Avellino; la diversità dei due uffici giudiziari, dunque, non consente neppure in astratto la prospettazione della questione in termini di attribuzione degli affari interni a singoli giudici, appartenenti al medesimo ufficio: la quale è la sola fattispecie esaminata dalla richiamata pronuncia delle Sezioni Unite di questa Corte, che lascia impregiudicata appunto proprio l’ipotesi in cui l’affare non sia devoluto ad altro ufficio giudiziario.

6.4 – Ciò posto, ritiene la Corte come la A.A., con i mezzi in esame, con cui appunto deduce l’erroneità della decisione e comunque l’omessa pronuncia circa l’estinzione del reato per cui era stata irrogata la condanna penale, e quindi lo stesso presupposto del credito per cui è processo, finisca per attingere al tema devoluto al giudice penale, avendo messo in discussione proprio il reale perimetro della condanna.

La domanda in discorso, dunque, non poteva essere proposta dalla A.A. in sede civile, sicchè la Corte d’appello di Napoli non avrebbe dovuto neppure esaminarla, ma rilevare invece l’esclusiva spettanza della relativa cognizione al giudice dell’esecuzione penale.

Pertanto, la sentenza impugnata, sul punto, è cassata senza rinvio, ex art. 382 c.p.c., comma 3, impregiudicata restando la facoltà di proposizione della questione dinanzi al giudice penale, da parte della A.A., ove ancora in termini ai sensi della disciplina processualpenalistica.

7.1 – Il settimo motivo, infine, è in parte inammissibile ed in parte infondato. Circa i vizi formali della cartella di cui la Corte del merito avrebbe erroneamente negato l’esistenza, deve però in primo luogo osservarsi che il loro esame era rimasto assorbito in primo grado, sicchè la Corte d’appello li ha ritenuti oggetto di riproposizione ex art. 346 c.p.c., benchè avanzati dalla A.A. con appello incidentale; su detta questione, l’odierna controricorrente non ha a sua volta proposto impugnazione in questa sede, così esimendo la Corte dal verificare la correttezza di una tale soluzione, tenuto conto che, ai sensi dell’art. 618 c.p.c., u.c., il giudizio concernente l’opposizione agli atti esecutivi, ex art. 617 c.p.c. (nel cui ambito ricade senz’altro la contestazione sulla nullità della cartella di pagamento per difetto di motivazione), si svolge in unico grado di merito.

7.2 – Ciò posto, deve poi rilevarsi che la ricorrente non riporta in ricorso la trascrizione della motivazione della cartella che pure contesta, nè almeno un adeguato suo riassunto (v. Cass., Sez. Un., n. 8950/2022), così non consentendo a questa Corte di valutare, dalla mera lettura del ricorso, la potenziale decisività della censura, in violazione dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 3, nel testo vigente ratione temporis.

7.3 – In ogni caso, avuto riguardo alla individuazione dei pretesi vizi, come operata dalla A.A., va qui anzitutto ribadito che la cartella di pagamento concernente il recupero di spese penali di giustizia non deve essere preceduta dalla notifica di atti prodromici, nè dei titoli da cui esse derivano (v. supra, par. 5.1); inoltre, va anche evidenziato che la questione circa la solidarietà tra coimputati attiene specificamente a profili da far valere dinanzi al giudice dell’esecuzione penale (si veda ampiamente, sul punto, Cass. n. 23775/2022, in motivazione, ed ivi richiami).

In secondo luogo, si osserva che la Corte territoriale ha accertato che le ragioni del credito preteso erano senz’altro evincibili dalla cartella impugnata, che indicava specificamente la partita di credito e la sentenza da cui essa scaturiva, tanto più che il criterio di liquidazione delle spese è predeterminato ex lege, e che le spese ripetibili sono quelle annotate nel c.d. foglio notizie di cui al D.P.R. n. 115 del 2002, art. 280 il cui originale rimane nel fascicolo d’ufficio del procedimento penale e ben può essere consultato dalle parti. Su tali premesse, il giudice del merito ha quindi ritenuto che la cartella stessa abbia consentito alla destinataria di aver piena contezza della causale del credito da essa portato, tanto che la stessa A.A. ha contestato il merito, seppur infondatamente.

Pertanto, contrariamente all’assunto della ricorrente (che, a ben vedere, neppure ha specificamente censurato tale ultimo accertamento), la motivazione della cartella in questione, seppure per relationem, è risultata adeguatamente motivata, nè occorreva allegare ad essa alcun documento presupposto (essendo gli elementi esterni alla cartella stessa conosciuti o conoscibili dalla destinataria – v. supra), donde l’infondatezza del mezzo in esame.

8.1 – In definitiva, la sentenza impugnata è cassata senza rinvio, ex art. 382 c.p.c., comma 3, in relazione alle questioni di cui al quinto e al sesto motivo, restandone conseguentemente e correlativamente travolta anche la sentenza di primo grado (v. Cass. n. 10093/2008); nel resto, il ricorso è rigettato. Resta fermo il regolamento delle spese di lite concernenti il giudizio di merito, non incidendo la diversa statuizione che avrebbe dovuto rendersi sulle questioni di cui al quinto ed al sesto motivo (inammissibilità delle relative doglianze, per doversi le stesse proporre dinanzi al giudice dell’esecuzione penale) sull’esito finale della lite, cui va riferito il criterio della soccombenza (Cass. n. 13356/2021; da ultimo, Cass. n. 4277/2023), la quale resta in ogni caso integralmente riferibile alla destinataria della relativa condanna.

Le spese del giudizio di legittimità, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza nei rapporti tra la ricorrente ed Equitalia Giustizia; nulla va disposto nel resto, gli altri intimati non avendo svolto difese.

In relazione alla data di proposizione del ricorso (successiva al 30 gennaio 2013), può darsi atto dell’applicabilità del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, (nel testo introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17), se ed in quanto dovuto.

P.Q.M.

La Corte, pronunciando sul quinto e sul sesto motivo del ricorso, cassa senza rinvio la sentenza impugnata, nonchè, in parte qua, la sentenza di primo grado, nei termini di cui in motivazione; rigetta il ricorso nel resto. Condanna la ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità in favore della controricorrente, che liquida in Euro 4.300,00 per compensi, oltre Euro 200,00 per esborsi, oltre rimborso forfetario spese generali in misura del 15%, oltre accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis se ed in quanto dovuto.

Così deciso in Roma, nella camera di consiglio della Corte di cassazione, il 7 marzo 2023.

Depositato in Cancelleria il 10 maggio 2023