201501.30
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Cass., sez. IV pen., 23 gennaio 2015, n. 3307 (testo)

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUARTA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ZECCA Gaetanino – Presidente –

Dott. FOTI Giacomo – Consigliere –

Dott. D’ISA Claudio – Consigliere –

Dott. MASSAFRA Umberto – Consigliere –

Dott. PICCIALLI Patrizia – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

B.C.F. N. IL (OMISSIS);

avverso l’ordinanza n. 266/2014 TRIB. LIBERTA’ di ROMA, del 14/05/2014;

sentila la relazione fatta dal Consigliere Dott. PATRIZIA PICCIALLI;

sentite le conclusioni del PG Dott. Massimo Galli, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

Uditi i difensori Avv.ti (Ndr: testo originale non comprensibile) del Foro di Roma e Giuseppe Iannaccone del Foro di Milano che hanno concluso per l’accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo


B.C.F. ricorre avverso l’ordinanza di cui in epigrafe, con cui il Tribunale, giudicando in sede di rinvio dopo annullamento di questa Corte Sezione 3^, 30 ottobre 2013 – 13 febbraio 2014 n. 6995, ha rigettato la richiesta di riesame proposta nei confronti di due decreti di sequestro preventivo adottati dal Gip del Tribunale di Roma, nei confronti – tra gli altri – dell’indagato, nell’ambito di procedimento penale che lo vedeva indagato per i reati di cuiall’art. 416 c.p., e D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 5;

ciò, in particolare, sul presupposto che questi, quale amministratore di fatto di diverse società, avesse omesso di presentare in Italia le dichiarazioni annuali sui redditi conseguiti da dette società estero-vestite.

La Corte di cassazione, nella sentenza di annullamento, evidenziava una erronea e carente ricostruzione della condizioni giuridica delle società, attestata dalla confusione operata tra la nozione di società – estero vestita e quella di società schermo.

Carente era stato il calcolo dell’imposta evasa, rilevante sia per la configurabilità del reato fiscale che ai fini del sequestro, con riferimento al profilo della quantificazione del profitto corrispondente, in ordine alla cui determinazione non poteva trascurarsi la considerazione di eventuali costi di esercizio, non potendosi accettare la conclusione elusiva in proposito adottata dal primo giudice argomentando sull’impossibilità di approfondire il tema del calcolo sviluppato dalla Guardia di finanza e recepito dal provvedimento cautelare impugnato.

Il Tribunale, nel rinnovare l’apprezzamento, riteneva di rigettare la richiesta di riesame, confermando i decreti di sequestro impugnati.

In particolare, ci si soffermava sulla sussistenza della contestata estero-vestizione delle società, che veniva ritenuta, alla luce delle indicazioni del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 73, TUIR:

Testo unico delle imposte sui redditi, valorizzando una pluralità di elementi dimostrativi, desunti dalle indagini, afferenti, in particolare, all’accertato svolgimento del ruolo di amministratore di fatto delle società da parte dell’indagato, in uno con l’accertato luogo di effettiva dimora dello stesso (a Roma, pur risultando formalmente residente in Lussemburgo). Situazione su cui il Tribunale si è ampiamente diffuso, attraverso la disamina degli elementi significativi (dichiarazioni testimoniali, accertamenti sugli spostamenti aerei dell’imputato, esiti di attività di perquisizione, ecc.).

Inoltre, ci si soffermava sull’imposta evasa, sì da farne discendere il giudizio sul profitto rilevante ai fini della confisca.

Veniva ritenuta attendibile la quantificazione operata dalla Guardia di finanza attraverso l’esame dei bilanci e, per l’unica società rispetto alla quale i bilanci non erano stati reperiti, attraverso la considerazione di alcune fatture per prestazioni effettuate.

Il Tribunale corrispondendo a una delle censure della Corte di legittimità ha in proposito espressamente affrontato il problema dei costi deducibili e delle esenzioni, rispetto alle quali ha preso esplicita posizione, vuoi con riferimento alle plusvalenze esenti di cui all’articolo 87 TUIR, vuoi con riferimento ai costi.

Per entrambe le situazioni si è tra l’altro evidenziata una carenza dimostrativa da parte dell’odierno ricorrente, impeditiva della possibilità di tenerne conto ai fini della determinazione dell’imposta evasa. A tal riguardo, anzi, il Tribunale ha approfondito la propria vantazione arrivando ad affermare che, comunque, con particolare riferimento ai costi, anche a volerne ammettere la rilevanza, ciò non avrebbe avuto effetto ai fini dei sequestri, in quanto il valore dei beni sequestrati doveva considerarsi comunque inferiore all’imposta accertata come evasa.

Infine, il Tribunale, corrispondendo a specifico motivo di doglianza, ha affrontato il tema della doppia imposizione e della pretesa violazione del relativo divieto, affermando la carenza di dimostrazione da parte della difesa di avere effettivamente pagato le imposte, nei periodi di interesse, in Lussemburgo.

Con il ricorso, per vero articolato facendo richiamo ad alcune memorie depositate in sede di merito, si contestano le decisioni assunte dal Tribunale, ipotizzando una violazione dei principi di diritto affermati nella primigenia sentenza di annullamento di questa Corte.

Si censura, con i primi due motivi strettamente connessi, l’apprezzamento sviluppato per sostenere la esterovestizione delle varie società, sostenendo altresì la violazione dell’art. 627 c.p.p., comma 3, e art. 628 c.p.p., comma 2, sul rilievo che, in violazione del principio di diritto fissato dalla sentenza di annullamento, i giudici del riesame avevano omesso di interpretare ed applicare le norme fiscali italiane secondo la giurisprudenza della Corte di Giustizia Europea, incorrendo così anche nella violazione dell’obbligo di motivazione sancito dall’art. 125 c.p.p., comma 3, e art. 324 c.p.p., comma 5.

Si prospetta, pertanto, la violazione del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5, e art. 73, TUIR sostenendo che il tema dell’esterovestizione era stato trattato riproponendo gli stessi argomenti fattuali presenti nei decreti di sequestro e nella prima ordinanza del riesame, riportando le dichiarazioni rese a s.i.t dai dipendenti SAPAM spa ed esponendo il contenuto di alcuni documenti cartacei ed informatici reperiti dalla G.F. presso gli uffici di quella società, che, ad avviso del Tribunale, avrebbero rivelato il ruolo del B. C. di amministratore di fatto, che si sarebbe occupato delle grandi scelte strategiche della SAPAM e della parte italiana del Gruppo e degli aspetti di gestione delle società estere del Gruppo, comprese le spese di gestione del velivolo Falcon, con il conseguente ridimensionamento della figura di tale M.D. che non sarebbe un vero amministratore delle società lussemburghesi ma un mero contabile. Si contesta la lettura fornita dal Tribunale degli elementi in atti (in particolare delle dichiarazioni rese da tale sig.ra F., la presenza in alcun Consigli di Amministrazione delle società estere di taluni soggetti storicamente legati al B., e della figura del M., che non era amministratore di tutte le società lussemburghesi). Mancherebbero, pertanto, nella motivazione dell’ordinanza impugnata non solo gli elementi individuati dall’Agenzia delle Entrata con la nota n. 39678 del 19 marzo 2010 ai fini dell’applicazione del citato art. 73, ma anche elementi di segno contrario (le società di diritto lussemburghese oggetto di indagine risultano iscritte nel registro delle imprese del Granducato ed hanno pubblicato in Lussemburgo il proprio bilancio; pur essendo state svolte rogatorie verso il Lussemburgo, non era stato verificato se quelle società avessero provveduto a versare le imposte in quello Stato o fossero ivi comunque operative; mancava una ricostruzione dei poteri decisionali degli amministratori delle società esterovestite, incentrandosi le indagini solo su tale Montagna, amministratore solo di due società lussemburghesi; la presenza presso la sede di Sapam spa di documenti riferibili alle varie società estere non significava nulla sul luogo in cui dette società opererebbero).

Con il terzo motivo si ripropone poi il tema della quantificazione dell’imposta evasa e, quindi, del profitto assoggettato a sequestro, incidente sulla configurabilità stessa del reato, proponendo gli argomenti disattesi in sede di merito soprattutto con riguardo ai costi deducibili ed alle plusvalenze esenti.

Si contesta, pertanto, che l’imposta evasa fosse stata calcolata sulla base dei ricavi annui esposti in bilancio, in assenza della documentazione contabile e societaria necessaria, in violazione della normativa tributaria, come del resto rilevato in sede di annullamento dal giudice di legittimità, che aveva evidenziato il vizio di motivazione sul punto.

Anche questa volta, il Tribunale, disattendendo la pronuncia della Corte, aveva qualificato come corretta la metodologia di calcolo adottata dalla G.F., in difetto della documentazione afferente le singole società che si ipotizzavano esterovestite, situazione che rendeva impossibile, secondo la difesa, procedere al calcolo della imposta evasa e alla configurabilità dell’ipotesi di reato. Il Tribunale, invertendo l’onere della prova, e facendone carico al ricorrente, che non aveva alcun incarico nelle società,aventi sede all’estero, aveva, invece, evidenziato una carenza dimostrativa da parte dell’odierno ricorrente, sia con riferimento alle plusvalenze derivanti dalla cessione di partecipazione, disciplinate dall’art. 87 TUIR – che prevede, al ricorrere di determinate condizioni, uno speciale regime di esenzione parziale – sia con riferimento ai costi.

A tal riguardo, anzi, il Tribunale aveva approfondito la propria vantazione arrivando ad affermare che, comunque, con particolare riferimento ai costi, anche a volerne ammettere la rilevanza, ciò non avrebbe avuto effetto ai fini dei sequestri, in quanto il valore dei beni sequestrati doveva considerarsi comunque inferiore all’imposta accertata come evasa (pari ad Euro 139.975.555).

Si censura la motivazione anche nella parte in cui il Tribunale, seguendo la medesima impostazione, aveva affrontato il tema della doppia imposizione e della pretesa violazione del relativo divieto, affermando la carenza di dimostrazione da parte della difesa di avere effettivamente pagato le imposte, nei periodi di interesse, in Lussemburgo.

Tale impostazione non teneva conto che nel diritto penale è a carico dell’accusa l’obbligo di reperire la documentazione necessaria per poter calcolare l’imposta evasa, e non è l’indagato a fornire la prova della in configurabilità del reato Si sostiene, inoltre, che vertendosi nel caso in esame di accertamento induttivo extra contabile D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 39, comma 2, i costi dovevano essere riconosciuti dall’Agenzia delle Entrata “anche in via forfettaria” stante la facoltà dell’Ufficio di procedere alla determinazione dei ricavi anche sulla base di presunzioni semplici.

E’ stata depositata memoria difensiva a sostegno dei motivi di ricorso.


Motivi della decisione


Il ricorso è infondato, a fronte di una decisione del Tribunale del riesame stavolta non elusiva dei temi sottoposti alla propria doverosa verifica.

E’ noto che, in tema di riesame di misura cautelare reale la verifica del Tribunale non deve tradursi nel sindacato sulla concreta fondatezza dell’accusa, ma deve investire solo la possibilità di sussumere il fatto in una determinata ipotesi di reato. Ciò non significa, ovviamente, che sia sufficiente, ai fini dell’individuazione del fumus commissi delicti, la mera “postulazione” da parte del pubblico ministero dell’esistenza del reato perchè il giudice del riesame, nella sua pronuncia, deve comunque rappresentare, in modo puntuale e coerente, le concrete risultanze processuali e la situazione emergente dagli elementi forniti dalle parti e dimostrare, nella motivazione del suo provvedimento, la congruenza dell’ipotesi di reato prospettata rispetto ai fatti cui si riferisce la misura del sequestro condotta al suo esame (Sezione IV, 30 novembre 2011, Proc. Rep. Trib. Firenze in proc. Sereni ed altri).

Ma a tale compito il giudice non si è sottratto, andando ad analizzare, (in modo qui non censurabile) in fatto, sia il profilo dell’esterovestizione delle società, sia quello conseguente del quantum dell’imposta evasa e quindi del profitto.

Ciò che è stato fatto in termini critici ed approfonditi, senza supini appiattimenti rispetto alla prospettazione accusatoria.

In questa ottica, le doglianze, oltre che impropriamente articolate attraverso il richiamo al contenuto di consulenze tecniche di parte, inapprezzabili nella sede di legittimità, paiono non tener conto dei limiti del controllo che può articolarsi in questa sede.

Il ricorso per cassazione contro ordinanze emesse in materia di sequestro preventivo o probatorio è ammesso solo per violazione di legge, in tale nozione dovendosi comprendere sia gli errores in iudicando o in procedendo, sia quei vizi della motivazione così radicali da rendere l’apparato argomentativo posto a sostegno del provvedimento o del tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e quindi inidoneo a rendere comprensibile l’itinerario logico seguito dal giudice (cfr. Sezioni unite, 29 maggio 2008, Ivanov).

E’ fin troppo evidente che qui solo apoditticamente potrebbe sostenersi l’assoluta carenza di motivazione, avendo il Tribunale analizzato, con puntuali richiami agli elementi di fatto, tutti i profili di interresse e in particolare quelli sottolineati da questa Corte nella primigenia sentenza di annullamento.

Rispetto alle indicazioni ivi ricavabili, anzi, risulta evidente che il giudice del riesame ha affrontato il tema della qualificazione delle società come estero-vestite, senza alcun fraintendimento con la nozione di “società-schermo” utilizzata nella decisione annullata.

Così come il giudice ha affrontato partitamente il tema della determinazione dell’imposta evasa, senza le elusioni ricostruttive addebitate dalla Corte di legittimità al primo giudice.

E’ evidente allora l’inammissibilità della doglianza, che vuole censurare in fatto gli argomenti sviluppati nell’ordinanza del riesame, attraverso un preteso, ma inammissibile, difetto di motivazione: se, come detto, in materia di misure cautelari reali, il ricorso per cassazione contro le ordinanze del tribunale per il riesame è proponibile, per l’espresso disposto dell’art. 325 c.p.p., comma 1, solo “per violazione di legge”, ciò comporta, per quanto attiene ai vizi di motivazione del provvedimento impugnato, che con il ricorso non sono deducibili tutti i vizi concernenti la motivazione del provvedimento impugnato previsti dall’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e); in particolare, non possono formare oggetto di ricorso le censure dirette a evidenziare l’insufficienza, l’incompletezza, l’illogicità o la contraddittorietà della motivazione.

Destituito di fondamento è il vizio basato sulla pretesa violazione dei principi di diritto affermati da questa Corte nella primigenia decisione di annullamento.

Già si è detto che il Tribunale ha affrontato tutti i profili di interesse, ma va soggiunto che ciò ha fatto rispettando il principio, ovvio, in forza del quale, a seguito di annullamento per vizio di motivazione, il giudice di rinvio è vincolato dal divieto di fondare la nuova decisione sugli stessi argomenti ritenuti illogici o carenti dalla Cassazione, ma resta libero di pervenire, sulla scorta di argomentazioni diverse da quelle censurate in sede di legittimità ovvero integrando e completando quelle già svolte, allo stesso risultato decisorio della pronuncia annullata (Sezione 4^, 12 giugno 2009, Scimeca).

Esclusa la carenza assoluta di motivazione, va anche evidenziato la correttezza giuridica dei principi applicati dal giudicante.

Vale in proposito ricordare che l’obbligo di presentazione della dichiarazione annuale dei redditi da parte di società avente residenza fiscale all’estero, la cui omissione integra il reato previsto dal D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74,art. 5, sussiste se detta società abbia stabile organizzazione in Italia, il che si verifica quando si svolgano in territorio nazionale la gestione amministrativa, le decisioni strategiche, industriali e finanziarie, nonchè la programmazione di tutti gli atti necessari affinchè sia raggiunto il fine sociale, non rilevando il luogo di adempimento degli obblighi contrattuali e dell’espletamento dei servizi (Sezione 3^, 27 febbraio 2014, Proc. Rep. Trib. Livorno in proc. L. ed altro).

Nello specifico, come detto, il Tribunale ha apprezzato che l’attività veniva svolta dalle società in Italia, doveva peraltro viveva l’amministratore di fatto, risultando la sede legale all’estero un aspetto di rilievo solo formale.

Per l’effetto, le società erano tenute alla presentazione annuale dei redditi in Italia, per cui era configurabile a carico degli amministratori il fumus del reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5.

Sul punto, il Tribunale ha richiamato correttamente (e motivatamente applicato, in termini qui non rinnovabili) il disposto del D.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, art. 73 (TUIR: Testo unico delle imposte sui redditi), in forza del quale sono soggette alle imposte sul reddito delle società quelle che per la maggior parte del periodo di imposta hanno la sede legale o la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale nel territorio dello Stato, dovendosi intendere per oggetto principale l’attività essenziale per realizzare direttamente gli scopi primari indicati dalla legge, dall’atto costitutivo o dallo statuto (in termini, cfr.v, Sezione 3^, 21 febbraio 2013, Mazzeschi;

Sezione 3^, 24 gennaio 2012, Barretta; Sezione 3^, 26 maggio 2010, PM in proc. Castagnara, secondo le quali, quindi, l’obbligo di presentazione della dichiarazione annuale dei redditi da parte di società avente residenza fiscale all’estero, la cui omissione integra il reato previsto dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 5, sussiste se l’impresa abbia stabile organizzazione in Italia, il che si verifica quando si svolgano nel territorio nazionale la gestione amministrativa, le decisioni strategiche, industriali e finanziarie, nonchè la programmazione di tutti gli atti necessari affinchè sia raggiunto il fine sociale, non rilevando il luogo di adempimento degli obblighi contrattuali e dell’espletamento dei servizi).

Anche sul profilo della determinazione dell’imposta evasa, il Tribunale ha fatto corretta applicazione delle norme.

Il Tribunale, infatti, correttamente, senza limitare impropriamente il controllo giurisdizionale ad una funzione di tipo meramente cartolare e formale, nel valutare il presupposto del fumus commissi delicti, ha tenuto conto, in modo puntuale e coerente, delle concrete risultanze processuali e dell’effettiva situazione emergente dagli elementi forniti dalle parti e dimostrato, nella motivazione del suo provvedimento, la congruenza dell’ipotesi di reato prospettata rispetto ai fatti cui si riferisce la misura del sequestro condotta al suo esame (cfr., per utili spunti, Cassazione, Sezioni unite, 20 novembre 1996, Bassi ed altri; Sezione 6^, 5 ottobre 2012, Filoni; Sezione 4^, 30 novembre 2011, PM in proc. Sereni ed altri).

Ciò che nello specifico il Tribunale ha fatto considerando – e apprezzandone la rilevanza – gli esiti delle indagini della Guardia di finanza e, per converso, la carenza di prova dei “costi” e delle “esenzioni” prospettati dalla difesa.

Analoga carenza di prova il Tribunale ha ritenuto circa il profilo della asserita violazione del principio della doppia imposizione.

Non è certo questa Corte che può qui soffermarsi sulle imposte e sulla quantificazione delle stesse che si volesse prospettare come pagate all’estero.

Anche perchè è pur vero che, a norma dell’art. 165, comma 1, TUIR, alla formazione del reddito complessivo concorrono i redditi prodotti all’estero, ma le imposte ivi pagate a titolo definitivo su tali redditi sono ammesse in detrazione dall’imposta netta dovuta fino alla concorrenza della quota d’imposta corrispondente al rapporto tra i redditi prodotti all’estero ed il reddito complessivo al netto delle perdite di precedenti periodi d’imposta ammesse in diminuzione.

Ma è anche vero che, ai sensi dello stesso art. 165, comma 8, tale detrazione non “spetta ” in caso di omessa presentazione della dichiarazione o di omessa indicazione dei redditi prodotti all’estero nella dichiarazione presentata. Ciò che qui non sembra discutibile.

La ricostruzione di “fatto” del profitto è stata quindi operata dal Tribunale in modo quindi incensurabile.

Conseguentemente, in punto di sequestro preventivo, ne discende la ineccepibile applicazione del principio secondo cui, in tema di reati tributari, il profitto assoggettabile alla confisca per equivalente prevista dalla L. 24 dicembre 2007, n. 244, art. 1, comma 143, è integrato da qualsiasi vantaggio patrimoniale derivante dall’imposta evasa (tra le tante, Sezione 3^, 14 febbraio 2013, Grazzini).

Tra l’altro, in maniera ineccepibile, il Tribunale si è posto comunque il problema della “proporzione” tra l’importo del profitto e il valore dei beni, concludendo in modo qui non sindacabile nel senso dell’essere stati sottoposti a sequestro beni di valore comunque inferiore all’importo del primo.

In tal modo, il Tribunale ha anche rispettato il principio secondo cui il sequestro preventivo finalizzato alla confisca, peraltro, non può riguardare beni di valore eccedente il profitto del reato, onde è necessario che il giudice di merito proceda ad una valutazione dei beni sequestrati, al fine di verificare il rispetto del “principio di proporzionalità” tra il credito garantito ed il patrimonio assoggettato a vincolo cautelare, così da evitare che la misura cautelare si riveli eccessiva nei confronti del destinatario (Sezione 3^, 15 ottobre 2013, S.).

Va ancora soggiunto, per escludere valenza agli argomenti difensivi tesi ad accreditare una pretesa violazione dei principi comunitari in tema di diritto di stabilimento, che, in materia tributaria, nulla osta, a livello di ordinamento nazionale ed Europeo, alla rilevanza penale dell’abuso del diritto, in ragione del rispetto del principio di capacità contributiva (art. 53 Cost., comma 1) e del principio di progressività dell’imposizione (art. 53 Cost., comma 2), dovendosi desumere da tali principi che il contribuente non possa trarre indebiti vantaggi fiscali dall’utilizzo in modo distorto di strumenti giuridici idonei ad ottenere un risparmio fiscale in mancanza di ragioni economicamente apprezzabili che possano giustificare l’operazione. Dal divieto di abuso del diritto discende, dal punto di vista tributario, l’inopponibilità all’Amministrazione finanziaria, per ogni profilo di indebito vantaggio tributario che il contribuente pretenda di far discendere dall’operazione elusiva, del negozio utilizzato per ottenere un’agevolazione o un risparmio di imposta.

Mentre, dal punto di vista penale, discende la rilevanza penale delle condotte elusive in materia fiscale che siano idonee a determinare una riduzione o una esclusione della base imponibile, e ciò senza che possa ipotizzarsi alcun contrasto con il principio di legalità:

infatti, se tale principio non consente la configurabilità della generale fattispecie della truffa, non è invece ostativo alla configurabilità degli illeciti speciali tributari, basati sulla dichiarazione fiscale e sull’infedeltà contributiva, rispetto a quelle condotte che siano idonee a determinare elusivamente una riduzione o una esclusione della base imponibile (Sezione 3^, 6 marzo 2013, Proc. Rep. Trib. Roma in proc. Bova).

Si tratta di principio che si attaglia perfettamente all’ipotesi delle società estero-vestite che attraverso l’apparente operatività all’estero vogliono evitare di pagare i tributi in Italia, luogo di loro effettiva operatività.

Al rigetto del ricorso consegue ex art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.


P.Q.M.


Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 20 novembre 2014.

Depositato in Cancelleria il 23 gennaio 2015