Cass., sez. III pen., 3 aprile 2014, n. 15186 (testo)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. TERESI Alfredo – Presidente –
Dott. GRAZIOSI Chiara – rel. Consigliere –
Dott. GENTILI Andrea – Consigliere –
Dott. SCARCELLA Alessio – Consigliere –
Dott. ANDRONIO Alessandro Mar – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
T.F. N. IL (OMISSIS);
avverso l’ordinanza n. 65/2013 TRIB. LIBERTA’ di CAGLIARI, del 13/06/2013;
sentita la relazione fatta dal Consigliere Dott. CHIARA GRAZIOSI;
sentite le conclusioni del PG Dott. E. Delehaye rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
1. Con ordinanza del 13 giugno 2013 il Tribunale di Cagliari ha rigettato la richiesta di riesame presentata da T.F. – indagato per il reato di cui all’art. 110 c.p., e D.P.R. n. 43 del 1973, art. 292, in relazione al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 70, per avere immesso in consumo in Italia un velivolo di produzione statunitense sottraendolo al pagamento dell’Iva all’importazione – avverso decreto di sequestro preventivo del velivolo emesso dal gip dello stesso Tribunale il 14 maggio 2013.
2. Ha presentato ricorso il T., adducendo quattro motivi.
Il primo motivo denuncia violazione della L. n. 4 del 1929, art. 21, comma 2, in quanto la competenza territoriale si sarebbe radicata a Padova, anzichè a Cagliari, la stessa imputazione collocando l’accertamento del preteso reato nell’aprile 2013 quando furono eseguiti a Padova i relativi primi sequestri.
Il secondo motivo denuncia violazione del D.P.R. n. 43 del 1973, art. 292, e art. 125 c.p.p., comma 3. Sembrerebbe infatti che il Tribunale abbia riqualificato il reato nella fattispecie di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 70; se non vi fosse stata riqualificazione, vi sarebbe comunque difetto di motivazione, in quanto l’Iva non è diritto di confine e non è quindi applicabile il D.P.R. n. 43 del 1973, art. 292, con conseguente mancanza del fumus commissi delicti.
Il terzo motivo denuncia violazione del D.P.R. n. 633 del 1972, artt. 67 e 70, e art. 25 Cost., comma 2, nonchè degli artt. 95, ora 90, del Trattato CEE, con conseguente obbligo di disapplicazione del D.P.R. n. 633 del 1972, art.70, nella parte in cui commina per rinvio la sanzione della confisca D.P.R. n. 43 del 1973, ex art. 301.
Se il Tribunale, a fronte della contestazione provvisoria del reato di “altri casi di contrabbando” (come esaminato dal motivo precedente), avesse riqualificato il fatto nella fattispecie di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 70, questa peraltro non sarebbe configurabile, non trattandosi di importazione, bensì di cessione intracomunitaria, essendo stato importato l’aereo in Danimarca. Il Tribunale avrebbe erroneamente giudicato sussistente una “diretta importazione del bene in Italia dagli Stati Uniti”, avvalendosi della categoria dell’abuso del diritto, laddove l’elusione nel settore penale confligge con i principi di legalità e di tipicità. La giurisprudenza di legittimità ha d’altronde riconosciuto che scegliere lo Stato nel quale introdurre nella Comunità Europea perchè in esso si gode di regime fiscale più favorevole costituisce esercizio del diritto di libera circolazione delle merci. Il ricorrente richiama al riguardo anche la giurisprudenza comunitaria, concludendo per l’assenza comunque della supposta elusione fiscale, poichè l’Iva all’importazione deve essere versata anche nella cessione intracomunitaria. Le sanzioni penali compromettenti la libera circolazione delle merci all’interno della comunità in caso di infrazione dell’Iva, poi, in quanto ritenute di tutela eccessiva dei prodotti nazionali dalla giurisprudenza comunitaria, devono essere disapplicate dal giudice interno.
Il quarto motivo denuncia la violazione degli artt. 157 e 158 c.p., D.P.R. n. 633 del 1972, art. 70, e art. 125 c.p.p., comma 3, per avere il Tribunale erroneamente ritenuto non ancora estinto per prescrizione il reato di cui alD.P.R. n. 633 del 1972, art. 70, qualificandolo reato permanente, laddove trattasi di fattispecie istantanea.
Motivi della decisione
3. Il ricorso è parzialmente fondato.
3.1 Il primo motivo ripropone un’eccezione di incompetenza territoriale già avanzata in sede di riesame, e fondata sul fatto che l’accertamento del reato sarebbe avvenuto a Padova, lo stesso capo di incolpazione indicando nell’aprile 2013 la data di accertamento, che coinciderebbe con i primi sequestri effettuati nel circondario patavino (il 10 aprile a carico del T. e l’11 aprile a carico di un coindagato). La Guardia di Finanza di Cagliari ha sì svolto un ruolo di coordinamento delle indagini, ma ad avviso del ricorrente presso i suoi uffici non potrebbero ritenersi avvenute “le operazioni di concreto accertamento atte a radicare la competenza territoriale per il presente procedimento penale”, non potendosi peraltro ritenere che il luogo di accertamento sia quello in cui sono concentrati i documenti e gli elementi raccolti, perchè ciò comprometterebbe l’individuazione del giudice naturale. La pretesa evasione fiscale sarebbe quindi stata consumata e accertata a Padova (o, in subordine, a Torino).
La questione era stata affrontata dal Tribunale, per cui l’acquisizione da parte della Guardia di Finanza in Padova e in Torino di documenti posti a sostegno dell’informativa del pubblico ministero non significa accertamento in tali sedi del reato. La L. 7 gennaio 1929, n. 4, art. 21, u.c., attribuisce infatti la competenza per i reati finanziari, tra cui è annoverabile l’omesso pagamento dell’Iva all’importazione, al giudice del luogo dove il reato è stato accertato, che non va identificato, appunto, come luogo di acquisizione, bensì come luogo in cui “sono stati concentrati” gli elementi raccolti, “sono state effettuate le verifiche conclusive della loro rilevanza ed infine è stata riscontrata la sussistenza degli estremi della violazione”. La valutazione del Tribunale è condivisibile, in quanto l’accertamento non può essere identificato già negli atti ad esso prodromici, bensì si compie laddove tali atti sono inseriti in un coordinato compendio così da poterne vagliare la effettiva significanza in termini di rilievo penale (sulla necessità che l’accertamento, per radicare la competenza territoriale ex articolo 21 citato, consista in una constatazione frutto di una verifica degli organi di controllo v. già Cass. sez. 1^, 17 giugno 2003 n. 29667; conforme da ultimo Cass. sez. 3^, 9 gennaio 2014, non ancora massimata). Il motivo è pertanto infondato.
3.2.1 Il secondo motivo prende le mosse dal presupposto che “a leggere il provvedimento parrebbe che il Tribunale abbia ritenuto di poter inquadrare il caso nella disposizione di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 70” anzichè nel D.P.R. n. 43 del 1973, art. 292. Per l’ipotesi allora in cui sia stato applicato quest’ultimo, il secondo motivo confuta la sussistenza della relativa fattispecie criminosa.
Il terzo motivo, invece, interpreta l’ordinanza nel senso della riqualificazione, come davvero avvenuta, del fatto contestato D.P.R. n. 633 del 1972, ex art. 70, argomentando la non configurabilità di tale incolpazione. I due motivi devono dunque essere vagliati congiuntamente, preliminarmente esaminando il contenuto effettivo dell’ordinanza impugnata quanto alla determinazione della fattispecie criminosa.
Il Tribunale conferma anzitutto che “la scelta dello Stato membro dell’Unione nel quale introdurre il bene extraEuropeo nella Comunità costituisce esercizio del diritto di libera circolazione delle merci e dei capitali” ex artt. 23 e 56 Trattato CE “anche laddove ciò comporti il vantaggio di un trattamento fiscale più favorevole rispetto a quello previsto in altri Stati”. Tale premessa, apparentemente, scioglierebbe ogni questione, ma il Tribunale, subito dopo avere riconosciuto il diritto, si pone sul piano dell’abuso del diritto stesso, ovvero del suo esercizio con modalità illecite.
Secondo l’ordinanza impugnata, infatti, l’esercizio del diritto di libera circolazione delle merci e dei capitali sarebbe nel caso in esame “avvenuto oltre i limiti ed in contrasto con gli scopi per i quali è stato riconosciuto e protetto dall’ordinamento giuridico”:
ciò si ricaverebbe dalla presenza delle caratteristiche dell’abuso del diritto come elaborate in dottrina e in giurisprudenza, e in particolare, dell’elemento intenzionale – rappresentato dal “fine abusivo esclusivo” -, dell’elemento strutturale – “l’architettura complessiva non lineare delle operazioni negoziali sottostanti, prive di giustificazione economica diversa dal risparmio del tributo” – e dell’elemento teleologia) – “il risparmio indebito d’imposta” -. Dopo avere descritto nel senso fattuale tali elementi, l’ordinanza ne deduce che l’aereo era fin dall’inizio destinato ad essere importato in Italia, senza che il soggetto che ne avrebbe poi goduto “ne risultasse importatore, nè intestatario formale, in modo da eludere il pagamento dell’Iva all’importazione e da rendere problematica la riconducibilità a lui dell’intera operazione”, qualificando quindi quest’ultima non come legittimo esercizio di un diritto, bensì come “una condotta connotata da profili di frode, intenzionalmente posta in essere al solo scopo di consumare un’evasione fiscale, altrimenti irrealizzabile, e di dissimulare la realtà dei rapporti giuridici sottostanti”. A questo punto, il Tribunale ha proceduto realmente a una riqualificazione, affermando che “in definitiva, la fattispecie va ricostruita come una diretta importazione del bene in Italia dagli Stati Uniti con omesso pagamento dell’Iva all’importazione e, quindi, sussunta nel D.P.R. n. 633 del 1972, art. 70”, la cui violazione comporta l’applicazione obbligatoria della confisca D.P.R. n. 43 del 1973, ex art. 301, onde il sequestro è legittimo, in quanto finalizzato a tale confisca obbligatoria. (Si nota peraltro che anche il pubblico ministero, nel disporre il sequestro preventivo in via d’urgenza in data 7 maggio 2013 – poi convalidato dal gip che ha emesso il 14 maggio 2013 il decreto di sequestro preventivo – aveva ritenuto sussistente il reato di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 70, per essere stato il velivolo immesso in consumo in Italia, deducendone che l’adempimento delle imposte di consumo, tra cui l’Iva, in Italia avrebbe dovuto avvenire).
3.2.3 Deve anzitutto, allora, valutarsi se l’istituto di sostanza ermeneutica rappresentato dall’abuso del diritto – utilizzato dal Tribunale per negare nel caso concreto la tutela dell’esercizio del diritto stesso, e anzi per convertire detto esercizio, oltre che in un inadempimento tributario, in un illecito penale – sia applicabile nella fattispecie, e prima ancora, in genere, nel settore penale.
L’abuso del diritto è uno strumento di concretizzazione, e quindi di circoscrizione della efficacia della norma che ha natura generale ed astratta, utilizzato sia nel campo processuale sia in quello sostanziale. Un recente esempio di concretizzazione istruttivo anche per identificare le connotazioni dell’abuso nel campo sostanziale è costituito, proprio nel processo penale, dalla fattispecie riscontrata da S.U. 29 settembre 2011 – 10 gennaio 2012 n. 155, per cui l’abuso (in quel caso, del processo, ma la definizione è valevole, appunto, altresì per l’abuso di un diritto sostanziale) consiste in un vizio, per sviamento, della funzione, ovvero in una frode alla funzione, e si realizza quando un diritto è esercitato per scopi diversi da quelli per i quali l’ordinamento astrattamente lo riconosce al titolare, il quale non può in tal caso invocare la tutela di interessi che non sono stati lesi e che non erano in realtà effettivamente perseguiti.
Lo sviamento come contenuto dell’abuso di per sè conduce agevolmente all’elusione: una norma viene utilizzata per uno scopo diverso da quello in essa insito, sfigurandone la ratio, per stornare l’applicazione di un’altra norma. Un’ampia giurisprudenza nel settore tributario si è avvalsa di questo passepartout ermeneutico per contrastare condotte dirette ad inadempiere in questo modo “mascherato” l’obbligo tributario, individuandonell’articolo 53 Cost. (laddove impone a tutti di contribuire secondo la propria capacità) un principio generale antielusivo (S.U. civ. 23 dicembre 2008 n. 30057), ed enucleando attività elusive, e dunque non opponibili all’erario, laddove sussista un uso distorto, anche se non contrastante con alcuna specifica disposizione, di strumenti giuridici idonei ad ottenere un’agevolazione o un risparmio di imposta, in difetto di ragioni economicamente apprezzabili dell’operazione diverse dalla mera aspettativa del “beneficio” tributario (in tal senso da ultimo Cass. civ. sez. 5^, 5 gennaio 2014 n. 653; tra gli arresti più recenti v. pure Cass. civ. sez. 5^, 30 novembre 2012 n. 21390, per cui in materia tributaria costituisce condotta abusiva l’operazione economica che abbia quale suo elemento predominante ed assorbente lo scopo elusivo del fisco, cosicchè il divieto di tali operazioni non opera soltanto se queste possono spiegarsi altrimenti che con il mero conseguimento di risparmi d’imposta).
Peraltro, tali sviluppi interpretativi si nutrono anche di norme ordinarie specificamente antielusive, come il D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37, comma 3, e soprattutto art. 37 bis. Quest’ultima disposizione, al suo primo comma, fornisce una descrizione definitoria dell’attività elusiva fiscale, rendendo inopponibili all’amministrazione finanziaria “gli atti, i fatti e i negozi, anche collegati tra loro, privi di valide ragioni economiche, diretti ad aggirare obblighi o divieti previsti dall’ordinamento tributario e ad ottenere riduzione di imposte o rimborsi, altrimenti indebiti”. E una siffatta attività è valutata dalla giurisprudenza tributaria come oggettivamente sufficiente per integrare l’elusione, non occorrendo connotazioni fraudolente in senso proprio (Cass. civ. sez. V, 8 aprile 2009 n. 8487 insegna che la norma antielusiva di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37 bis, non presuppone un comportamento fraudolento, essendo sufficiente un uso improprio, ingiustificato o deviante – perchè non sorretto da valutazioni economiche diverse dal profilo fiscale – di un legittimo strumento giuridico, che consenta di eludere l’applicazione del regime fiscale proprio dell’operazione che costituisce il presupposto d’imposta; nello stesso senso, più di recente, Cass. civ. sez. 5^, 10 giugno 2011 n. 12788).
E’ il caso di rammentare, infine, che il contrasto, interpretativo e normativo, attuabile dagli Stati membri della Comunità Europea, come contro le evasioni fiscali, anche contro le elusioni e le pratiche abusive che si avvalgono pure del diritto comunitario è incoraggiato quale obiettivo positivo sia dalla Comunità stessa (cfr. direttiva 2006/112) sia da varie pronunce della Corte di Giustizia delle Comunità Europee (v. da ultimo le sentenze 13 febbraio 2014, Maks Pen EOOD, C-18/13; 6 dicembre 2012, Bonik, C-285/11; 29 marzo 2012, 3M Italia S.p.A., C-417/10; 21 febbraio 2008, Part Service Srl. C- 425/06, per cui può essere pratica abusiva quella in cui il perseguimento di un vantaggio finale è lo scopo essenziale dell’operazione, nonostante l’esistenza eventuale di altri obiettivi economici), a condizione comunque che la normativa interna non ecceda a quanto necessario per il conseguimento dell’obiettivo suddetto (v.
sentenza 19 dicembre 2013, BDV Hungary Trading Kft, C-563/12).
3.2.4 Occorre a questo punto richiamare la indiscussa indipendenza sistemica tra il settore penale e quello tributario, potendosi identificare nell’articolo 20 d.lgs. 10 marzo 2000 n. 74 un vero e proprio principio di reciproca indipendenza tra il procedimento penale e il processo tributario (cfr. da ultimo, proprio a proposito di una fattispecie elusiva, Cass. sez. 2^, 22 novembre 2011-28 febbraio 2012 n. 7739, in motivazione) che la giurisprudenza ha recepito in modo ormai consolidato, evidenziando come l’accertamento del reato tributario prescinda da quello del credito erariale, potendo pervenire anche alla sua contraddizione, non sussistendo alcun vincolo del giudice penale rispetto all’accertamento tributario, e al contrario spettando esclusivamente al giudice penale anche di accertare e determinare l’importo della imposta evasa ai fini di valutare la concreta configurabilità del reato tributario (Cass. sez. 3^, 2 dicembre 2011-14 febbraio 2012 n. 5640; Cass. sez. 3^, 7 ottobre 2011 n. 36396; Cass. sez. 3^, 28 maggio 2008 n. 21213).
La translatio, pur effettuata, del principio antielusivo dal campo tributario ai reati finanziari e tributari ha richiesto, allora, un suo ridimensionamento, per depurarlo da un tasso di duttilità che avrebbe potuto renderlo intollerabilmente amorfo rispetto ai canoni costituzionali penali, vale a dire confliggente con l’impostazione penale del vincolo della legalità, intesa nel senso di determinatezza e tassatività, che frena, nell’estrapolazione, dalla congerie delle condotte attuabili, di quelle penalmente rilevanti, la strutturazione integrativa dell’interprete. Il principio della determinatezza che governa le potenzialità ermeneutiche con peculiare intensità nel settore penale è infatti racchiuso nella riserva assoluta di legge che per la fattispecie penale sancisce l’articolo 25, secondo comma, Cost., ed è diretto ad evitare che, in contrasto con il principio della divisione dei poteri manifestato appunto con la riserva assoluta di legge in campo penale, “il giudice assuma un ruolo creativo, individuando, in luogo del legislatore, i confini tra il lecito e illecito”, nonchè, correlativamente, a garantire la libera autodeterminazione individuale, permettendo al destinatario della norma penale di apprezzare a priori le conseguenze giuridiche della sua condotta (così lo focalizza il giudice delle leggi nella sentenza 327/2008; cfr. pure Corte Cost. 185/1992 e 364/1988).
Rileva ai fini penali, pertanto, una condotta elusiva di imposizione fiscale esclusivamente se si aggancia ad una norma specifica, che non può essere, per così dire, di gestione ermeneutica, ovvero una norma “in bianco” da colmare interpretativamente secondo le fattispecie concrete (un esempio simbolico di norme siffatte nel settore tributario è ravvisabile nella L. n. 212 del 2000, art. 10, il c.d. Statuto del contribuente, che al primo comma stabilisce che “i rapporti tra contribuente e amministrazione finanziaria sono improntati al principio della collaborazione e della buona fede”), bensì una norma che precisamente individui, senza alcuno spazio identificativo rimesso all’interprete, la condotta criminosa che, sul piano amministrativo tributario, coincide anche con una condotta elusiva. Se, infatti, in via generale, il rispetto del principio di determinatezza della norma penale emerge contestualizzando gli elementi costitutivi della fattispecie tra essi reciprocamente e nella disciplina in cui la fattispecie si inserisce (da ultimo Cass. sez. 1^, 13 luglio 2012 n. 42130 e Cass. sez. 5^, 13 giugno 2012 n. 36737) così che, come accade per le espressioni sommarie e i vocaboli polisensi, il ricorso a clausole generali o a concetti elastici non comporta alcun vulnus del suddetto parametro costituzionale, potendo il giudice esprimere un giudizio di corrispondenza della fattispecie concreta alla fattispecie astratta in base a un fondamento ermeneutico controllabile (v. ancora Corte Cost. 327/ 2008, sulla linea di Corte Cost. 5/2004, Corte Cost.
34/1995, Corte Cost. 122/1993, Corte Cost. 247/1989, Corte Cost. ord. 395/2005, Corte Cost. ord.302/2004 e Corte Cost. ord. 80/2004), nell’ipotesi in esame è proprio la contestualizzazione (comportante il riscontro dell’esistenza del diritto che si prospetta abusato) che introduce in una tematica ambigua e di problematica comprensione qualora si intenda fondare la fattispecie criminosa soltanto sull’abuso di un diritto riconosciuto dall’ordinamento, in difetto di norme che identifichino con esattezza il confine di tale diritto – ovvero il confine tra lecito ed illecito, che non deve essere individuato, si è visto, dall’interprete ma dal legislatore – determinando dove viene meno perchè incompatibile, appunto, con una specifica norma, o penale o integrativa del contenuto della norma penale (sul fatto che la norma penale possa essere integrata da norme extrapenali cfr. da ultimo Corte Cost. 21/2009). L’abuso di un diritto come fonte di illecito penale, nel caso in esame, non può quindi fondarsi sulla base di una composizione logica di elementi sistemici effettuata dall’interprete, bensì occorre che trovi specifico sostegno in una norma penale oppure in una norma antielusiva tributaria.
Partendo dunque dalla inattribuibilità di valore probatorio della sussistenza di un reato a una condotta elusiva in campo tributario (in tal senso Cass. sez. 3^, 26 novembre 2008-2 aprile 2009 n. 14486, per cui nei reati finanziari e tributari la figura del c.d. abuso del diritto, qualificata dall’adozione, allo scopo di ottenere un vantaggio fiscale, di una forma giuridica non corrispondente alla realtà economica, non ha valore probatorio perchè implica una presunzione incompatibile con l’accertamento penale, mentre è utilizzabile in sede tributaria come strumento di accertamento semplificato nel contrasto all’evasione fiscale), si è pervenuto a collocare la condotta di elusione sul piano della integrazione diretta della fattispecie penale qualora coincida, per la sua conformazione, o con il contenuto della norma penale in questione o con la violazione di una specifica norma tributaria antielusiva che consente appunto di identificare la condotta criminosa. Una chiara giurisprudenza di questa Suprema Corte in tal senso si è sviluppata per le fattispecie di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, artt. 4 e 5, che si è ritenuto possano essere integrate “anche da comportamenti elusivi posti in essere dal contribuente per trarre indebiti vantaggi dall’utilizzo in modo distorto di strumenti giuridici idonei a ottenere un risparmio fiscale in mancanza di ragioni economicamente apprezzabili che possano giustificare l’operazione, a condizione che sia individuata la norma antielusiva, specificamente prevista dalla legge, violata” (così da ultimo Cass. sez. 3^, 12 giugno 2013 n. 33187; conforme Cass. sez. 3^, 6 marzo 2013 n. 19100, a proposito del reato di dichiarazione infedele dei redditi): norme che, in questo caso, sono state ravvisate nel D.P.R. n. 600 del 1973, art. 37, comma 3, e art. 37 bis, (cfr. Cass. sez. 3^, 23 maggio 2013 n. 36894 e Cass. sez. 2^, 22 novembre 2011-28 febbraio 2012 n. 7739).
3.2.5 Quanto sinora osservato significa che, per integrare una fattispecie penale, non è sufficiente che la condotta posta in essere – la quale formalmente costituisce l’esercizio di un diritto – abbia (come “motivo” in termini civili, come elemento psicologico intenzionale, in termini penali) esclusivamente lo scopo di ridurre o risparmiare in ordine ad una debenza tributaria che l’agente comunque deve assolvere, attraverso tale esclusività scollegandosi dalla ratio normativa, cioè dal fondamento di tutela di beni/interessi per cui il diritto viene riconosciuto. E ciò comporta che l’esercizio del diritto a porre in essere una determinata condotta (nel caso di specie, del diritto di avvalersi della libera circolazione delle merci nell’ambito della Comunità Europea sancito dall’art. 95 del Trattato) non viene circoscritto nel suo ambito d’applicabilità, e anzi tramutato in condotta penalmente illecita, soltanto se lo scopo per cui l’agente se ne avvale è un proprio vantaggio tributario.
Acquisire un vantaggio tributario, di per sè, non rende quindi illecita la modalità dell’acquisizione. Occorre invece un’integrazione normativa, nel senso di una norma specifica che confini lo spazio d’esercizio del diritto in questione e che sia appunto incompatibile con un esercizio finalizzato esclusivamente al vantaggio fiscale, la quale faccia pertanto venir meno la riconducibilità della condotta al reale esercizio di un diritto, convertendola in abuso del diritto, cioè in illecito.
Il Tribunale, nel caso di specie, non si è confrontato realmente con questi presupposti normativi, limitandosi ad una generica considerazione di elementi che ha definito sintomatici dell’abuso di diritto, quale “il fine abusivo esclusivo” – così identificando tout court, erroneamente per quanto si è appena rilevato, il fine del vantaggio fiscale in un fine abusivo -, l’aspetto strutturale – che a ben guardare coincide con il precedente elemento, perchè plasmato dall’unico fine del risparmio del tributo – e l’aspetto teleologia) – che ancora una volta altro non è che “il risparmio indebito d’imposta”. Detti elementi, come si è ora evidenziato, in realtà sono ipostasi di un unico elemento che, ad avviso del Tribunale, rende abusivo, nel senso di penalmente rilevante (il Tribunale non distingue l’elusione tributaria dalle fattispecie penali), l’esercizio del diritto di libera circolazione delle merci nell’ambito della Comunità Europea: lo scopo di deminutio del debito tributario. Non si pone il Tribunale il quesito sulle condizioni per cui I1 “esercizio” (in tale eventualità, apparente) di un diritto possa eventualmente coincidere con un’evasione fiscale penalmente rilevante, nè considera che, se vi è il diritto di libera circolazione delle merci nella Comunità Europea il suo esercizio non può logicamente non includere anche la scelta fiscale correlata, in difetto di norme a ciò ostative che dovrebbero comunque non confliggere con l’articolo 95 del Trattato comunitario (si ricorda che l’IVA correlata all’importazione di beni da altro Stato membro della comunità Europea – nel caso di specie, il velivolo è stato importato in Italia dalla Danimarca – è contributo interno come l’IVA attinente alle cessioni di beni all’interno dello Stato membro, come affermato dalla nota e ormai risalente sentenza Drexl, cioè la sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee del 25 febbraio 1988, C-299/86; conforme, più di recente, la sentenza emessa dalla stessa Corte in data 2 agosto 1993, C-276/91, Commissione delle Comunità Europee e. Repubblica francese).
Non sussistono, in effetti, norme che predeterminano che lo Stato in cui viene importato il bene deve coincidere con quello in cui risiede il soggetto che ne acquisisce poi la reale disponibilità. La fattispecie, dunque, non ha riscontro in una specifica normativa antielusiva, e pertanto, a fortiori, non può avere rilievo penale.
La giurisprudenza di questa Suprema Corte ha già chiarito, invero, che la scelta di uno Stato attraverso il quale introdurre il bene nella Comunità Europea, anche se – come contestato nel caso di specie – è derivata esclusivamente dal fatto che in tale Stato il regime fiscale è più favorevole, non costituisce abuso ma esercizio del diritto di libera circolazione delle merci di cui all’art. 23 Trattato CE e dei capitali di cui all’art. 56 Trattato CE (in tal senso la già citata Cass. sez. 3^, 26 novembre 2008-2 aprile 2009 n. 14486, che richiama tra l’altro la sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee del 9 marzo 1999, Centros Ltd., C-212/97, relativa all’esercizio del diritto di stabilimento, per cui la scelta di uno Stato membro per costituirvi una società in quanto le sue norme del diritto societario sono meno severe rispetto a quelle degli altri Stati membri non costituisce di per sè un abuso del diritto di stabilimento ex art. 43 e ss. Trattato CE, anche se ciò non toglie allo Stato membro interessato, tra l’altro, il potere di emanare norme antielusive se emerge trattarsi di scelta fraudolenta per eludere le obbligazioni della società e/o dei soci verso creditori pubblici o privati stabiliti nel territorio dello Stato membro interessato; sempre a proposito dell’esercizio del diritto di stabilimento risulta significativa per le questioni in esame altresì la sentenza 12 settembre 2006, Cadbury Schweppes e a., C-196/04, per cui la mera circostanza che una società istituisca uno stabilimento secondario – per esempio, una controllata – in uno Stato membro diverso da quello in cui ha sede non può fondare una presunzione generale di frode fiscale, nè giustificare una misura che pregiudichi l’esercizio di una libertà fondamentale garantita dal Trattato, pur dovendosi ritenere una misura nazionale che restringa la libertà di stabilimento giustificata dallo scopo di contrasto contro pratiche abusive allorquando concerne specificamente costruzioni puramente artificiose, prive di effettività economiche, finalizzate ad eludere la normale imposta che avrebbe dovuto essere corrisposta nello Stato interessato, in tal caso trattandosi appunto di “costruzioni di puro artificio destinate ad eludere l’imposta nazionale normalmente dovuta”).
Non ritiene, poi, questo Collegio di condividere la diversa posizione assunta al riguardo da Cass. sez. 3^, 9 gennaio 2014 (non ancora massimata). Tale arresto da un lato argomenta sulla questione di fatto, non presente nell’ordinanza in questa sede oggetto di ricorso, della mancata prova di iscrizione del velivolo ai pubblici registri e presso l’ente nazionale di volo danesi, e dall’altro, a parte il profilo dei limiti di detraibilità dell’Iva “assolta a monte”, cioè in altro Stato membro della Comunità Europea, che pure qui non ricorre e sul quale vi è ampia giurisprudenza comunitaria, si impernia su alcuni elementi tratti dalla sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità Europee del 6 novembre 2008, Trespa International BV (C-248/2007) in ordine all’interpretazione del Regolamento di attuazione del Codice Doganale Comunitario, che attengono, peraltro, all’ipotesi – qui non emergente come inclusa nel thema decidendum -del trattamento tariffario favorevole riguardo alla riduzione o la sospensione di dazio in caso di importazione di mercè originaria di Paesi extracomuni tari per destinazione particolare, per la fruizione della quale l’operatore che importa o fa importare la merce per immetterla in libera pratica deve ottenere un’autorizzazione scritta, di cui deve poi, in caso di cessione intracomunitaria della merce, essere in possesso pure il cessionario (artt. 291 e 297 del Regolamento), fattispecie in cui possono rientrare, ex art. 295 del Regolamento, gli aeromobili civili. Nello stesso senso della presente decisione si è peraltro posta anche Cass. sez. 3^, 17 gennaio 2014, n. 13039, ancora non massimata.
Non è, in conclusione, configurabile una sorta di penalmente illecita simulazione complessiva quale è quella che riscontra il Tribunale laddove afferma che “la fattispecie va ricostruita come una diretta importazione del bene in Italia dagli Stati Uniti con omesso pagamento dell’Iva all’importazione” deducendone la qualificazione D.P.R. n. 633 del 1972, ex art. 70, cioè del reato di evasione dell’Iva all’importazione. Ne discende – assorbendosi così ogni ulteriore questione, incluso l’ultimo motivo del ricorso – che l’ordinanza, confermando la sottoposizione del velivolo al vincolo, incorre in una violazione di legge che ne giustifica l’annullamento senza rinvio, nonchè il conseguente annullamento del provvedimento genetico, con restituzione del velivolo a chi ne abbia diritto.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio l’ordinanza impugnata nonchè il decreto di sequestro preventivo emesso dal Gip del Tribunale di Cagliari in data 14 maggio 2013 e ordina la restituzione di quanto in sequestro in favore dell’avente diritto. Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 626 c.p.p..
Così deciso in Roma, il 20 marzo 2014.
Depositato in Cancelleria il 3 aprile 2014