Cass., sez. III pen., 19 marzo 2015, n. 11479 (testo)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. FIALE Aldo – Presidente –
Dott. ORILIA Lorenzo – Consigliere –
Dott. ACETO Aldo – rel. Consigliere –
Dott. GENTILI Andrea – Consigliere –
Dott. SCARCELLA Alessio – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
M.A., nato a (OMISSIS);
avverso la sentenza del 10/04/2013 della Corte di appello di Trieste;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal consigliere Dott. Aldo Aceto;
udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. POLICASTRO Aldo, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;
udito per l’imputato l’avv. Galletti Guido, che ha concluso chiedendo l’accoglimento del ricorso.
Svolgimento del processo
1. Il sig. M.A. ricorre per la cassazione della sentenza 10/04/2013 della Corte di appello di Trieste che, riformando la piena assoluzione decisa dal Tribunale di Pordenone il 06/04/2011, lo ha condannato alla pena di sei mesi di reclusione per il reato di cui al D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 10, commesso nel (OMISSIS) e accertato a seguito di verifica fiscale iniziata il 28 maggio 2009, e ha dichiarato non doversi procedere nei suoi confronti per i medesimi fatti commessi negli anni dal 2001 al 2005 perchè i relativi reati sono estinti per prescrizione.
In particolare la Corte di appello, su ricorsi del Procuratore generale della Repubblica presso di essa e del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Pordenone, ha ritenuto fondata l’accusa mossa nei confronti dell’imputato secondo la quale, questi, nella sua qualità di titolare dell’omonima ditta individuale ed al fine di evadere le imposte sui redditi e sul valore aggiunto, aveva distrutto le scritture contabili e i documenti, di cui era obbligatoria la conservazione, relativi agli anni 2001-2005 e 2007 (avendo invece conservato quella relativa al 2006).
Il giudice di prime cure aveva invece assolto il M., per non aver commesso il fatto, sul rilievo che, in base alle prove testimoniali raccolte, doveva ritenersi veritiera la tesi difensiva che le scritture contabili relative alle annualità sopra indicate fossero all’epoca effettivamente detenute dal commercialista di fiducia che, tuttavia, nulla aveva consegnato alla Guardia di Finanza che si era recata da lui su indicazione dell’imputato.
Tale tesi, aveva affermato il Tribunale, traeva alimento dalle precise dichiarazioni dei testimoni che nel tempo avevano avuto rapporti diretti con il commercialista dell’imputato per gli aspetti contabili connessi alle prestazioni eseguite dalla sua impresa. Il particolare rapporto di fiducia e complicità che legava i due era confermato, secondo il Tribunale, dalla circostanza che il commercialista era stato anche il ricettatore degli oggetti d’arte e di elettronica trafugati dall’imputato nel corso di furti e rapine, come affermato da quest’ultimo in sede di interrogatorio reso in ambito di separato procedimento.
La Corte di appello, sulla condivisa premessa della effettiva sussistenza del reato, è pervenuta all’opposta conclusione in ordine alla responsabilità dell’imputato sulla base dei seguenti rilievi e considerazioni:
a) il M. era evasore totale per gli anni di imposta dal 2001 al 2005 e per il 2007;
b) non v’è agli atti la prova di alcuna delega scritta a favore del commercialista;
c) il diverso assunto si fonda solo su prove testimoniali, peraltro nemmeno correttamente valutate dal giudice di prime cure;
d) infatti, il testimone C., legale rappresentante della “DL Service S.r.l.”, società committente di lavori subappaltati al M., aveva riferito di non sapere se il commercialista dell’imputato fosse il tenutario della contabilità;
e) il fax inviato dal commercialista alla Camera di Commercio, contenente il riepilogo delle operazioni commerciali da lui stesso intrattenute con il C. nell’anno 2004, non prova l’esistenza della delega;
f) non è inoltre credibile che il commercialista possa aver distrutto la documentazione contabile dopo aver appreso che l’imputato lo aveva denunziato come ricettatore della merce rubata, ciò sul rilievo che nel 2007 quello stesso commercialista aveva avuto rapporti con le imprese individuali risultanti dagli accertamenti incrociati della Guardia di Finanza;
g) nel dubbio circa la condotta di soppressione ovvero di occultamento (contestate alternativamente), si deve privilegiare l’ipotesi più favorevole all’imputato (soppressione), sicchè devono ritenersi prescritti i reati aventi ad oggetti la contabilità relativa agli anni dal 2001 al 2005.
1.1. Con unico motivo il ricorrente eccepisce vizio di insufficiente motivazione e deduce che la sentenza impugnata ha eluso l’obbligo che incombe alla Corte di appello di fornire, in caso di riforma totale dell’assoluzione disposta in primo grado, non una pura e semplice lettura alternativa del medesimo materiale probatorio, ma una motivazione ben più stringente che si confronti in modo specifico e completo con le ragioni della assoluzione e ne evidenzi eventuali carenze ed insufficienze.
Il giudice di prime cure, prosegue, aveva fondato la propria decisione sulla scorta di più testimonianze che provavano chiaramente che il commercialista era delegato alla tenuta della contabilità; tali prove erano corroborate, sul piano logico, dalla non irragionevole considerazione che questi, dopo la denunzia del M., potesse aver distrutto ogni prova documentale dei suoi effettivi rapporti con lui.
Di tali prove, la Corte di appello ha ritenuto di selezionarne solo una, omettendo di considerare le altre e superando la considerazione logica circa il movente della distruzione della documentazione semplicemente valutandola come non credibile.
Motivi della decisione
2. Il ricorso è fondato.
2. Costituisce insegnamento costante di questa Suprema Corte che la decisione del giudice di appello, che comporti la totale riforma della sentenza di primo grado, impone la dimostrazione dell’incompletezza o della non correttezza ovvero dell’incoerenza delle relative argomentazioni con rigorosa e penetrante analisi critica seguita da corretta, completa e convincente motivazione che, sovrapponendosi a tutto campo a quella del primo giudice, senza lasciare spazio alcuno, dia ragione delle scelte operate e del privilegio accordato ad elementi di prova diversi o diversamente valutati. La possibile spiegazione alternativa di un fatto non attiene al mero possibilismo, come tale esercitazione astratta del ragionamento disancorata dalla realtà processuale, ma a specifici dati fattuali che rendano verosimile la conclusione di un “iter” logico cui si perviene senza affermazioni apodittiche (Sez. 1, n. 1381 del 16/12/1994, Felice, Rv. 201487; Sez. 2, n. 15756 del 12/12/2002, Contrada, Rv. 225564).
Il giudice di appello che riformi totalmente la decisione di primo grado ha dunque l’obbligo di delineare le linee portanti del proprio, alternativo, ragionamento probatorio e di confutare specificamente i più rilevanti argomenti della motivazione della prima sentenza, dando conto delle ragioni della relativa incompletezza o incoerenza, tali da giustificare la riforma del provvedimento impugnato e la insostenibilità sul piano logico e giuridico degli argomenti più rilevanti ivi contenuti (Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, Rv. 231679; Sez. 5, n. 8361 del 17/01/2013, Rastegar, Rv. 254638;
Sez. 5, n. 42033 del 17/10/2008, Pappalardo, Rv. 242330).
In ultima analisi, ove riformi totalmente la sentenza di primo grado, sostituendo all’assoluzione l’affermazione di colpevolezza dell’imputato, il giudice dell’appello ha l’obbligo di dimostrarne con rigorosa analisi critica l’incompletezza o l’incoerenza, non essendo altrimenti razionalmente giustificato il rovesciamento della statuizione assolutoria in quella di condanna (Sez. U, n. 33748 del 2005, cit.).
Alla luce delle considerazioni che precedono appare evidente, dal semplice raffronto tra le due sentenze di primo e di secondo grado, il vizio di motivazione in cui incorre quella oggi impugnata che fonda la propria decisione demolitoria sulla base di una analisi parziale (oltre che giuridicamente non corretta) del compendio probatorio valutato dal primo giudice.
Il disinteresse che la Corte d’appello afferma esser stato mostrato dall’imputato alle sorti della documentazione contabile, comunque consegnata al commercialista (e dunque dal M. non distrutta, nè occultata materialmente), prelude, semmai, a un rimprovero per un atteggiamento psicologico di natura colposa che, di per sè, non può contraddittoriamente fondare una condanna per un delitto a connotazione specificamente dolosa, all’imputato attribuito come autore diretto e non come concorrente.
Sotto altro profilo, se è vero che il contribuente che dichiari che le scritture contabili si trovano presso altri soggetti deve esibire l’attestazione dei soggetti stessi recante la specificazione delle scritture contabili in loro possesso, è altrettanto vero, però, che la mancata esibizione dell’attestazione o il rifiuto del soggetto terzo all’esibizione delle scritture stesse o la sua opposizione all’accesso degli organi accertatori, comportano come unica conseguenza legalmente prevista che i libri, i registri, le scritture e i documenti contabili non possono essere più presi in considerazione a favore del contribuente (D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 52, commi 5 e 10).
Ciò non vuoi dire che la mancata esibizione della attestazione si trasforma automaticamente in una mancanza di prova della tenuta delle scritture da parte del terzo; certamente ciò non può accadere nel processo penale che non tollera prove legali, nel quale la ricostruzione del fatto storico che integra la fattispecie di reato si alimenta del principio del libero convincimento del giudice e non soffre i limiti probatori eventualmente previsti per l’accertamento dei medesimi fatti ad altri fini.
Legittimamente, dunque, il giudice penale può, pur in assenza di prove documentali, ricavare il convincimento della effettiva tenuta della contabilità da parte di terzi da prove, anche dichiarative, ulteriori e diverse dalla attestazione di cui al D.P.R. n. 633 del 1972, art. 53, cit..
Che è esattamente quel che aveva fatto il giudice di primo grado che aveva tratto il convincimento della effettiva tenuta della contabilità da parte del commercialista dalla testimonianza dell’avv. L., del tutto negletta dalla Corte di appello.
Ne consegue che la sentenza impugnata deve essere annullata con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Trieste.
P.Q.M.
Annulla con rinvio la sentenza impugnata alla Corte di appello di Trieste, altra Sezione.
Così deciso in Roma, il 26 giugno 2014.
Depositato in Cancelleria il 19 marzo 2015