201405.28
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Cass., sez. III pen., 19 maggio 2014, n. 20505 (testo)

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. MANNINO Saverio F. – Presidente –

Dott. SAVINO Mariapia Gaeta – Consigliere –

Dott. DI NICOLA Vito – rel. Consigliere –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

Dott. ANDRONIO Alessandro Mar – Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

M.B., nato in (OMISSIS);

avverso la ordinanza del 07/06/2013 del Tribunale della libertà di Como;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal consigliere Vito Di Nicola;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott. IACOVIELLO Francesco Mauro, che ha concluso chiedendo l’inammissibilità del ricorso;

udito per l’imputato l’avv. Maura Traverso che ha concluso per l’accoglimento del ricorso.


Svolgimento del processo


1. Il Tribunale della libertà di Como, con ordinanza emessa in data 17 settembre 2013, confermava il decreto del 7 giugno 2013 con il quale il Gip presso il medesimo Tribunale disponeva nei confronti di M.B. il sequestro preventivo di beni fino alla concorrenza dell’importo di Euro 1.632.453,00.

M.B. è indagato del reato di cui al D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 8, perchè, nella qualità di amministratore unico della società Prama – Tech s.p.a., al fine di consentire a terzi l’evasione dell’imposta sul valore aggiunto, emetteva nei confronti di diversi clienti – senza applicare l’IVA dovuta mediante l’utilizzo di false dichiarazioni di intenti di cui al D.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 8, comma 1, lett. c), – fatture per operazioni soggettivamente inesistenti per gli importi indicati nella capo della provvisoria imputazione.

2. Per la cassazione dell’ordinanza impugnata ricorre, personalmente, M.B. sollevando due motivi di gravame.

Con il primo motivo, lamenta violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), in relazione all’art. 8 c.p.p., ed D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 8, deducendo violazione dì legge in ordine alla competenza territoriale relativamente al reato contestato.

Si assume come la sede legale della società sia stata sempre stabilita in (OMISSIS) e che in detto luogo dovevano ritenersi emesse le fatture con conseguente consumazione dei reati ipotizzati e determinazione della competenza per territorio.

Con il secondo motivo, deduce violazione dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e), in relazione agli artt. 125, 321 e 324 c.p.p., D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 8, per inosservanza della legge penale e mancanza di motivazione circa la ritenuta sussistenza del fumus commissi delicti in ordine al reato ipotizzato.

Si sostiene che il Tribunale del riesame abbia ritenuto il fumus delicti sulla base dell’astratta ipotizzabilita del reato senza prendere in alcuna considerazione gli elementi forniti dal ricorrente circa molteplici lacune istruttorie evidenziate, fondando il rigetto sulla base di un’errata lettura degli atti processuali, attribuendo al ricorrente una responsabilità derivante dall’omesso controllo circa la regolarità delle aziende cessionarie ed omettendo di motivare circa la documentata effettuazione dei controlli da parte del ricorrente, ossia proprio degli stessi controlli la cui presunta omissione sarebbe a lui addebitata.


Motivi della decisione


1. Il ricorso è inammissibile per manifesta infondatezza.

2. Quanto al primo motivo di gravame, va chiarito che, in via generale e salvo talune deroghe, il D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 18, comma 1, rinvia, per determinare la competenza territoriale in tema di reati tributari, ai criteri previsti dall’art. 8 c.p.p..

Ne consegue che, in siffatta materia, il criterio principale determinativo della competenza per territorio è quello del locus commissi delicti, divenendo sussidiario il criterio fondato sul luogo dell’accertamento del reato ed al quale si potrà fare riferimento solamente nel caso in cui sia impossibile individuare il luogo di consumazione del reato tributario.

Ne deriva che, con riferimento ai reati di cui al decreto legislativo n. 74 del 2000, va esclusa l’operatività delle regole suppletive di cui all’art. 9 c.p.p..

Una deroga ai principi generali in materia di competenza territoriale è tuttavia prevista con riferimento all’ipotesi di emissione plurima di fatture, fattispecie disciplinata dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 8, comma 2, nel senso che “ai fini dell’applicazione della disposizione prevista dal comma 1, l’emissione o il rilascio di più fatture o documenti per operazioni inesistenti nel corso del medesimo periodo di imposta si considera come un solo reato”.

A tale proposito, il D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 18, comma 3, – che mutua, con gli opportuni temperamenti, il criterio suppletivo ordinario previsto rispettivamente all’art. 9 c.p.p., comma 3, e art. 10 c.p.p., comma 2, – dispone che, con esclusivo riferimento alla fattispecie di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 8, comma 2, “è competente il giudice di uno di tali luoghi in cui ha sede l’ufficio del pubblico ministero che ha provveduto per primo a iscrivere la notizia di reato nel registro previsto dall’art. 335 c.p.p.”.

Con riguardo all’art. 18, comma 3, d.lgs. n. 74 del 2000 la relazione governativa di accompagnamento del decreto legislativo precisa che il suddetto criterio ha “di mira la fattispecie (…) dell’emissione di più fatture o documenti per operazioni inesistenti da parte del medesimo soggetto nel corso dello stesso periodo d’imposta: ipotesi che (…) è stata configurata come integrativa di un unico reato.

Stante la particolare strutturazione dell’ipotesi criminosa, nella quale confluiscono più episodi distinti, si è reso necessario dettare uno specifico criterio di individuazione del giudice competente nel caso, ben configurabile, in cui i plurimi documenti siano stati emessi in località diverse (e, più precisamente, in località comprese nelle circoscrizioni di diversi tribunali). Al riguardo, si è scartata, per vero, la soluzione di privilegiare il luogo di emissione del maggior numero di documenti o dei documenti di maggiore importo: soluzione che avrebbe inevitabilmente alimentato e trascinato nel tempo le questioni di competenza, specie nel caso – tutt’altro che infrequente – di scoperta in fasi successive delle false fatturazioni. La competenza è stata di contro attribuita a quello fra i giudici dei diversi luoghi di emissione dei singoli documenti, presso il quale ha sede l’ufficio del pubblico ministero che per primo ha provveduto ad iscrivere la notizia di reato nel registro previsto dall’art. 335 c.p.p.: criterio che ripete, con gli opportuni adattamenti, quello previsto dall’art. 9 c.p.p., comma 3, e art. 10 c.p.p., comma 2 “.

Ne deriva che, con la regula iuris di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 18, comma 3, il legislatore si è preoccupato di stabilire un criterio legale nel caso di emissione plurima di fatture nel medesimo periodo d’imposta, con la conseguenza che il criterio del luogo di iscrizione nel registro degli indagati del primo procedimento penale opera unicamente nel caso di plurima emissione di fatture nell’ambito del medesimo periodo d’imposte, sicchè la disposizione non è, invece, applicabile nel caso di emissione di fatture in diversi periodi d’imposta.

Posto che nel caso di specie si verte in tema plurima emissione di fatture nell’ambito di diversi periodi (dal 2008 al 2012) di imposte, è appena il caso di rilevare come non sia applicabile la regola, implicitamente richiamata dal ricorrente, stabilita nel D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 18, comma 2, (in base alla quale il reato si considera consumato nel luogo in cui il contribuente ha il domicilio fiscale e, nel caso di specie, Milano) che è prevista solo per i delitti di cui al capo 1^ – titolo 2^, mentre quello per cui si procede è inserito nel capo 2^.

Il caso, di cui al presente procedimento, è dunque interamente disciplinato dal comma 1 del richiamato art. 18 in base al quale la competenza, se non può essere determinata a norma dell’art. 8 c.p.p., è attribuita al Giudice del luogo di accertamento del reato.

Ed è quanto ha correttamente ritenuto il Collegio cautelare sul rilievo che le fatture furono rinvenute e sequestrate all’esito della perquisizione eseguita dalla Guardia di Finanza presso la sede amministrativa della società in Mozzate, luogo ricompreso nel circondario del Tribunale di Como.

Infatti, ai fini della determinazione della competenza per territorio, nel caso di reato tributario, “per luogo di accertamento del reato”, secondo la consolidata giurisprudenza di questa Corte, deve intendersi quello in cui gli ufficiali ed agenti di polizia tributaria hanno proceduto alle opportune indagini in funzione della scoperta del reato nella sua materialità ed alla raccolta delle relative prove (Sez. 1, n. 29667 del 17/06/2003, Confl. Comp. In proc. Prevosti, Rv. 226141).

Ne consegue la manifesta infondatezza del motivo.

3. Anche il secondo motivo di gravame è manifestamente infondato.

Con esso il ricorrente ipotizza, attraverso una diversa lettura del materiale processuale, una ricostruzione alternativa del fatto così come accertato, con congrua e logica motivazione, dai Giudici del merito, trascurando peraltro che il ricorso per cassazione contro le ordinanze emesse in materia di sequestro preventivo o probatorio è ammesso solo per violazione di legge, dovendosi comprendere in tale nozione sia gli “errores in iudicando” o “in procedendo”, sia quei vizi della motivazione così radicali da rendere l’apparato argomentativo posto a sostegno del provvedimento o del tutto mancante o privo dei requisiti minimi di coerenza, completezza e ragionevolezza e quindi inidoneo a rendere comprensibile l’itinerario logico seguito dal giudice (Sez. U, del 29/05/2008, n. 25932, Ivanov, Rv. 239692).

Va precisato come il Collegio cautelare abbia puntualmente accertato che le operazioni economiche erano state eseguite nei confronti di società inconsistenti dal punto di vista operativo, prive di documentazione propria e di una sede in grado di essere realmente attiva (avendo soltanto, come ad esempio la STI S.r.l., la domiciliazione presso un’abitazione privata); come, dall’esame dei rapporti commerciali tra la società amministrata dal M. e le altre, fosse emersa la classica ipotesi di frode fiscale mediante il meccanismo denominato “frode carosello” (vendita di merci ad un soggetto in regime di esenzione Iva sul presupposto, soltanto fittizio, che l’acquirente fosse un esportatore abituale, laddove era, in realtà, una società cosiddetta “cartiera” che rivendeva le merci senza effettuare alcun tipo di esportazione a soggetti terzi con prezzi particolarmente convenienti); come le verifiche di carattere fiscale avessero consentito di accertare che le società, le quali avevano acquistato merce dalla Prama – Tech S.p.A., avessero rivenduto le merci a terzi con ricarichi commercialmente irrisori (prossimi al 2%) o in alcuni casi addirittura negativi (traendo il loro reale vantaggio solo dall’evasione dell’Iva); come la qualità di società “cartiera” riferibile alle clienti fosse facilmente verificabile; come anche gli accertamenti compiuti all’estero (Inghilterra, Germania e Austria) mediante i canali della cooperazione giudiziaria avessero confermato il carattere fittizio delle operazioni commerciali.

A fronte di tali significative acquisizioni, le critiche si risolvono nell’enunciazione di censure fattuali e quindi inammissibili nel giudizio di cassazione perchè non tengono conto che il sindacato di legittimità sui provvedimenti giurisdizionali non può mai comportare una rivisitazione dell’iter ricostruttivo del fatto, attraverso una nuova operazione di valutazione complessiva delle emergenze processuali, finalizzata ad individuare percorsi logici alternativi diretti ad inficiare il convincimento espresso dal giudice di merito, e ciò a maggior ragione nei casi, come nella specie, in cui il sindacato di legittimità è ammesso esclusivamente sotto il profilo della violazione di legge.

4. Tenuto conto della sentenza 13 giugno 2000, n. 136 della Corte costituzionale e rilevato che non sussistono elementi per ritenere che la parte abbia proposto il ricorso senza versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, alla relativa declaratoria, segue, a norma dell’art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma, ritenuta congrua, di Euro mille alla cassa delle ammende.


P.Q.M.


Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro mille alla cassa delle ammende.

Così deciso in Roma, il 19 febbraio 2014.

Depositato in Cancelleria il 19 maggio 2014