Cass., sez. III pen., 13 dicembre 2017 (ord.), n. 55486 (testo)
Corte di Cassazione, sez. III Penale, ordinanza 23 novembre – 13 dicembre 2017, n. 55486
Presidente Savani – Relatore Graziosi
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza del 26 gennaio 2017 la Corte d’appello di Ancona ha respinto l’appello proposto da M.E. avverso sentenza del 27 gennaio 2015 con cui il Tribunale di Fermo lo aveva condannato alla pena di otto mesi di reclusione per il reato di cui all’articolo 10 bis d.lgs. 10 marzo 2000 n. 74 per avere omesso, quale legale rappresentante della MRC S.r.l., di versare nei termini previsti per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto d’imposta, le ritenute relative agli emolumenti erogati nell’anno di imposta 2010 per un ammontare complessivo di Euro 222.602,89.
2. Ha presentato ricorso il M. , sulla base di cinque motivi.
Il primo motivo, ex articolo 606, primo comma, lettera b), c.p.p., denuncia violazione ed erronea applicazione dell’articolo 10 bis d.lgs. 74/2000, nonché degli articoli 4, comma 6 ter e comma 1, d.p.r. 322/1998, per avere il giudice d’appello ritenuto che il rilascio ai sostituiti d’imposta delle certificazioni da parte dell’imputato sia stato adeguatamente dimostrato con la dichiarazione modello 770/2011, inidonea invece a tale dimostrazione, per cui mancherebbe la prova del reato.
Il secondo motivo, ex articolo 606, primo comma, lettera b), c.p.p., lamenta violazione ed erronea applicazione degli articoli 27 Cost., 6 CEDU e 533 c.p.p., per avere la corte territoriale violato la regola per cui la prova della responsabilità penale deve essere fornita dall’accusa.
Il terzo motivo, ex articolo 606, primo comma, lettera e), c.p.p., denuncia nullità della sentenza ai sensi dell’articolo 125, terzo comma, c.p.p. per motivazione apparente quanto alla individuazione dell’imputato come autore del presunto reato: infatti la lacuna probatoria che sussisterebbe non sarebbe colmabile con il modello 770/2011 e non sarebbero state neppure indicate le prove della fattispecie di concorso ex articolo 110 c.p., nonostante al riguardo fosse stato proposto motivo d’appello.
Il quarto motivo denuncia, ex articolo 606, primo comma, lettera b), c.p.p., violazione ed erronea applicazione degli articoli 1, comma 143, l. 244/2007, 322 ter c.c., 1, comma 75, lettera o), l. 190/2012 e 25, comma 2, Cost.
Lamenta il ricorrente che il giudice d’appello ha ritenuto infondato il sesto motivo del gravame, non tenendo in conto che l’imputato è stato punito con una pena non prevista quando avrebbe commesso il reato: la pena della confisca per equivalente per un valore corrispondente al profitto del reato è stata introdotta con l’articolo 1, comma 75, lettera o), l. 190/2012, laddove il reato sarebbe stato commesso nel 2011. Sarebbe stato quindi violato l’articolo 25 Cost. Inoltre non vi sarebbero stati i presupposti per la confisca a motivo del difetto di prova di effettiva evasione e di incasso da parte del ricorrente della somma non versata, né prova di concorso ex articolo 110 c.p..
Il quinto motivo denuncia, ex articolo 606, primo comma, lettera b), c.p.p., violazione dell’articolo 1 Protocollo n.1 e degli articoli 42 e 117 Cost. “da parte” dell’articolo 322 ter c.p..
Lamenta il ricorrente che il giudice d’appello ha respinto come manifestamente infondate le questioni di illegittimità costituzionale che gli erano state sottoposte, sostenendo che, invece, l’articolo 322 ter c.p. viola sia la ragionevolezza sia la proporzionalità prevista dall’articolo 1 del suddetto Protocollo integrante l’articolo 42 Cost.
Considerato in diritto
3.1 Il primo motivo, come si è visto denunciante violazione di legge, osserva che la corte territoriale “fonda la penale responsabilità del ricorrente, stabilendo che il secondo elemento della componente commissiva del reato de quo – cioè il rilascio ai sostituti (n.d.r.: sostituiti) delle certificazioni prima dello spirare del termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale del sostituto di imposta – è stato provato in modo esaustivo dal solo modello 770/2011”. Ciò si porrebbe “in contrasto con l’interpretazione maggioritaria del Supremo Collegio adito secondo cui l’elemento costitutivo del reato… non può essere provato dal solo contenuto della dichiarazione del modello 770 proveniente dal datore di lavoro, atteso che il predetto modello e le certificazioni sono atti diversi”.
Adduce il ricorrente di avere aderito a tale interpretazione nei motivi d’appello sub A (che trascrive in nota a piè pagina), lamentando che la corte territoriale nulla ha accolto, e aggiungendo poi che questa Suprema Corte avrebbe chiarito come la novella di cui al d.lgs. 24 settembre 2015 n.158, che avrebbe modificato l’articolo 10 bis d.lgs. 74/2000 nel senso di non richiedere più la prova del rilascio delle certificazioni, non è applicabile alle condotte poste in essere prima della sua entrata in vigore, come quella cui contestata, risalendo i fatti al 2011.
3.2 In effetti, la corte territoriale nella sua motivazione ha fronteggiato una discrasia presente nella giurisprudenza di questa Suprema Corte in conseguenza del motivo d’appello richiamato ora dal ricorrente.
Così si esprime la corte territoriale (motivazione della sentenza impugnata, pagine 2-3): “Il delitto di omesso versamento di ritenute certificate presenta una componente omissiva, rappresentata dal mancato versamento nel termine delle ritenute effettuate, ed una precedente componente commissiva, consistente, a sua volta, in due distinte condotte, costituita dal versamento della retribuzione con l’effettuazione delle ritenute e dal rilascio ai sostituiti delle certificazioni prima dello spirare del termine previsto per la presentazione della dichiarazione quale sostituto d’imposta…Circa l’idoneità della dichiarazione annuale del sostituto d’imposta (c.d. modello 770) a fungere da prova del rilascio ai sostituiti delle certificazioni attestanti le ritenute effettivamente operate, esiste un contrasto giurisprudenziale. Secondo un primo indirizzo, sulla premessa che la prova delle certificazioni attestanti le ritenute operate dal datore di lavoro quale sostituto di imposta può essere fornita dal pubblico ministero mediante documenti, testimoni o indizi, si ritiene sufficiente la allegazione dei mod. 770 proveniente dallo stesso datore di lavoro”; sussisterebbe poi un secondo indirizzo “minoritario” della giurisprudenza di legittimità, per cui “la prova dell’elemento costitutivo del reato, rappresentato dal rilascio ai sostituiti delle certificazioni attestanti le ritenute effettivamente operate, non potrebbe essere costituita dal solo contenuto della dichiarazione modello 770 proveniente dal datore di lavoro poiché il modello 770 e la certificazione rilasciata ai sostituti (n.d.r.: sostituiti) sono documenti disciplinati da fonti normative distinte, rispondono a finalità non coincidenti, e non devono essere consegnati o presentati contestualmente”. Impostazione, quest’ultima, cui evidentemente il giudice d’appello non aderisce, perché poi ritiene che, nel caso in suo esame, “il modello 770 può certamente essere utilizzato come elemento di prova del reato, non avendo l’imputato mai allegato espressamente di non aver mai rilasciato il certificato ai propri sostituiti” (la seconda parte della frase non può incidere, evidentemente non spettando all’imputato contribuire all’onere probatorio che grava sul pubblico ministero).
3.3 La giurisprudenza di questa Suprema Corte, in effetti, non appare adeguatamente uniforme e stabilizzata.
L’origine dell’orientamento cui ha aderito la corte territoriale è ravvisabile in Cass. sez. 3, 15 novembre 2012-11 gennaio 2013 n. 1443, Salmistrano, così massimata: “Nel reato di omesso versamento di ritenute certificate, la prova delle certificazioni attestanti le ritenute operate dal datore di lavoro, quale sostituto d’imposta, sulle retribuzioni effettivamente corrisposte ai sostituiti, può essere fornita dal pubblico ministero mediante documenti, testimoni o indizi. (Fattispecie nella quale è stata ritenuta sufficiente la allegazione dei mod. 770 provenienti dallo stesso datore di lavoro)”.
Nella motivazione, la pronuncia rileva che il giudice d’appello aveva ritenuto che la fattispecie de qua costituisse “un reato omissivo istantaneo punibile a titolo di dolo generico”, per il quale le dichiarazioni secondo il modello 770, con cui il sostituto d’imposta comunicava all’erario gli importi trattenuti da versare, “contenevano implicitamente la certificazione (richiesta dalla norma) delle ritenute operate”, essendo pertanto pienamente idonee a provare la penale responsabilità dell’imputato. E il ricorrente questo censurava, sostenendo l’incriminazione “limitata alle sole ritenute risultanti dalle certificazioni, come emerge dalla lettera e dalla interpretazione sistematica della norma, confortata dalla giurisprudenza”, risultando “necessario quindi provare, per la configurabilità del reato, l’esistenza delle certificazioni”. Lamentava quindi il ricorrente che il giudice d’appello, “pur non essendo stato provato il rilascio di siffatte certificazioni”, si era avvalso dei modelli 770 “senza tener conto delle differenze strutturali e diverse finalità tra questi e le certificazioni” laddove “l’art. 10 bis punisce l’omesso versamento delle ritenute oggetto di certificazione e non l’omesso versamento delle ritenute indicate nella dichiarazione 770” onde “la mera presentazione della dichiarazione mod.770 non costituisce certo elemento univoco ed esaustivo per provare l’esistenza della certificazione”.
Questa censura viene disattesa, osservando anzitutto che l’articolo 10 bis fu inserito nel d.lgs. 74/2000 dall’articolo 1, comma 414, l. 30 dicembre 2004, n. 311 per colmare un “vuoto normativo”, dato che “l’omesso versamento delle ritenute d’acconto operate dal datore di lavoro sulle retribuzioni dei propri dipendenti, sanzionato dall’art. 2 D.L. 10 luglio 1982, n. 429, conv. in L. 7 agosto 1982, n. 516, non era più previsto dalla legge come reato a seguito dell’entrata in vigore del D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74 che ha diversamente disciplinato la materia dei reati tributari, e nel cui testo non figurano fattispecie di reato in continuità normativa rispetto a quella di cui al citato art. 2 della L. n. 516, espressamente abrogata dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 25”. Peraltro l’articolo 10 bis, “pur costituendo “una nuova fattispecie criminosa introdotta o reintrodotta dalla novella citata senza alcuna continuità normativa con le disposizioni previgenti”…, nel colmare il vuoto normativo operava indubitabilmente sullo stesso piano della norma abrogata” (che sanzionava “chiunque non versa all’erario le ritenute effettivamente operate, a titolo di acconto o di imposta, sulle somme pagate”) seguendo una ratio consistente nell’”impedire, attraverso la sanzione penale, che il datore di lavoro omettesse di versare le somme trattenute, quale sostituto di imposta, sulle retribuzioni corrisposte al lavoratori”. E “sulla stessa falsariga” si sarebbe posto pure l’articolo 2 d.l. 12 settembre 1982 n. 463, convertito nella l. 11 novembre 1983 n. 638, che penalmente sanzionava l’omesso versamento delle ritenute previdenziali ed assistenziali operate dal datore di lavoro sulle retribuzioni dei lavoratori dipendenti, reato che S.U. 28 maggio 2003 n. 27641 riconobbe non configurabile “senza il materiale esborso delle somme dovute al dipendente”. Osserva quindi la sentenza in esame che, tenuto unto di questi pregressi dibattiti, il legislatore nell’articolo 10 bis “ha inteso esplicitare in modo assolutamente chiaro che la sanzione penale trova applicazione soltanto sulle ritenute effettivamente operate sulle retribuzioni corrisposte ai dipendenti” mediante il riferimento alle “certificazioni rilasciate ai sostituiti” in luogo della più generica formula che si rinveniva nell’articolo 2 d.l. 10 luglio 1982 n. 429, convertito in l. 7 agosto 1982 n. 516 (“le ritenute effettivamente operate, a titolo di acconto o di imposta, sulle somme pagate”). E se allora l’articolo 10 bis sanziona l’omesso versamento, nel termine previsto, delle ritenute operate dal datore di lavoro quale sostituto di imposta sulle retribuzioni effettivamente corrisposte ai sostituiti, “non vi è ragione per ritenere che la prova di ciò debba ricavarsi solo dalle “certificazioni” senza possibilità di ricorrere ad “equipollenti” “; il che significa che l’onere probatorio può essere assolto dal pubblico ministero “mediante il ricorso a prove documentali o testimoniali oppure attraverso la prova indiziaria”. Si giunge pertanto ritenere corretta la valutazione dei giudici di merito nel senso che “la prova del rilascio della certificazione (e quindi della effettiva corresponsione delle retribuzioni e delle trattenute operate) potesse ricavarsi da un dato assolutamente non equivoco, in quanto proveniente dallo stesso datore di lavoro obbligato”, dato che proprio “non avrebbe senso dichiarare quello che non è stato corrisposto e, perciò stesso, certificato”.
Questa impostazione viene ribadita, per concisione limitando il richiamo agli arresti massimati, da Cass. sez. 3, 12 giugno 2013 n. 33187, Buzi, Cass. sez. 3, 6 marzo 2014 n. 20778, Leucci, Cass. sez. 3, 27 marzo 2014 n. 19454, Onofrio, e Cass. sez. 3, 30 maggio 2014 n. 27479, Gina.
3.4 Intervengono frattanto a proposito dell’articolo 10 bis le Sezioni Unite, con la sentenza 28 marzo 2013 n. 37425, Favellato, nella quale, tra l’altro, dopo avere ricostruito la sequenza normativa che ha condotto alla norma de qua, viene identificato il reato in essa previsto come integrato meramente da una condotta omissiva.
In particolare, le Sezioni Unite identificano due necessari presupposti della illecita omissione, ovvero sia l’erogazione di somme comportanti l’obbligo di effettuazione delle ritenute alla fonte (ai sensi degli articoli 23 ss. d.p.r. 29 settembre 1973 n. 600) e di versamento di esse all’Erario con le modalità normativamente stabilite (articolo 3 d.p.r. d.p.r. 29 settembre 1973 n. 602), sia il rilascio al sostituito della certificazione attestante l’ammontare complessivo delle somme corrisposte e delle ritenute operate nell’anno precedente (in forza dell’articolo 4, comma 6 ter e comma 6 quater, d.p.r. 22 luglio 1988 n. 322). Sussistendo tali due presupposti, la condotta omissiva si concretizza – insegna quindi il giudice nomofilattico – nel mancato versamento, oltre la soglia di importo rilevante, delle ritenute complessivamente operate nell’anno di imposta e risultanti dalla certificazione lasciata ai sostituiti entro il termine per la presentazione della dichiarazione modello 770, ovvero della dichiarazione annuale di sostituto d’imposta relativa all’anno precedente. E sotto il profilo dell’elemento soggettivo, “per la commissione del reato basta…la coscienza e volontà di non versare all’Erario le ritenute effettuate nel periodo considerato”; coscienza e volontà devono comunque “investire anche la soglia…, che è un elemento costitutivo del fatto, contribuendo a definirne il disvalore”. Precisano altresì le Sezioni Unite: “La prova del dolo è insita in genere nella duplice circostanza del rilascio della certificazione al sostituito e della presentazione della dichiarazione annuale del sostituto (Mod. 770), che riporta le trattenute effettuate, la loro data ed ammontare, nonché i versamenti relativi”.
Tiene ben conto dell’apporto delle Sezioni Unite, la motivazione della già citata Cass. sez. 3, 6 marzo 2014 n. 20778, Leucci, che, a fronte di una censura, avanzata nel ricorso, che non è configurabile il reato di cui all’articolo 10 bis se non è provato che l’imputato, nella qualità sostituto d’imposta, non ha rilasciato ai sostituiti la certificazione delle ritenute, ricostruisce la struttura del reato in adesione alla conformazione dettata dal giudice nomofilattico. Si osserva, dunque, che le Sezioni Unite hanno evidenziato “le caratteristiche del meccanismo di riscossione dell’imposta mediante sostituzione, che è uno strumento impositivo con il quale l’Amministrazione finanziaria, in luogo della riscossione dell’imposta direttamente dal percettore del reddito, incassa il tributo da un altro soggetto, che è quello che eroga gli emolumenti, il quale assume la qualifica di “sostituto” d’imposta ed è tenuto al pagamento del tributo in luogo dell’altro (normale soggetto passivo, c.d. “sostituito”), previo l’obbligatorio prelievo di una percentuale (c.d. “ritenuta alla fonte”). da versare all’Erario (generalmente entro i primi sedici giorni del mese successivo a quello di effettuazione delle ritenute: v. D.P.R. n. 600 del 1973, art. 8), della somma oggetto di erogazione (costituente reddito). L’operatività del meccanismo di sostituzione d’imposta comporta l’adempimento di alcuni obblighi strumentali a carico del sostituto, il quale deve:
1) rilasciare al sostituito (D.P.R. 22 luglio 1998, n. 322, art. 4, commi 6 ter e 6 quater; D.L. 4 luglio 2006, n. 223, art. 37, comma 10, convertito dalla L. 4 agosto 2006, n. 248) una certificazione attestante l’ammontare complessivo delle somme corrisposte e delle ritenute operate in modo da permettere al soggetto passivo di documentare e di dimostrare il prelievo subito;
2) presentare annualmente una dichiarazione unica di sostituto d’imposta dalla quale risultino tutte le somme pagate e le ritenute operate nell’anno precedente (modello 770)”.
Da quanto esposto la sentenza Leucci deduce che il rilascio della certificazione ai sostituiti da parte del sostituto d’imposta non è elemento costitutivo del reato di cui all’articolo 10 bis: “La ragione di ciò risiede nella struttura dell’elemento oggettivo della fattispecie incriminatrice in relazione alla ratio che la sostiene ed all’interesse protetto dall’incriminazione. La fattispecie penalmente rilevante è integrata da una condotta omissiva che si realizza con il mancato versamento entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta delle ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti… Come hanno precisato le Sezioni Unite Favellato, si tratta di reato omissivo proprio, istantaneo e di mera condotta, integrato dal mero mancato compimento di un’azione dovuta.” E quindi nel reato di cui all’articolo 10 bis “la condotta omissiva si concretizza nel mancato versamento… delle ritenute complessivamente operate nell’anno di imposta e risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti; il termine per l’adempimento è individuato in quello previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta relativa all’anno precedente. Il rilascio della certificazione non è quindi un elemento costitutivo del reato, ma mero presupposto della condotta omissiva; diversamente il rilascio della certificazione dovrebbe comporre il fatto tipico, la cui materialità risulterebbe inevitabilmente costituita da una condotta mista (omissiva quanto al mancato versamento ed attiva quanto alla circostanza che deve essere rilasciata una certificazione)”.
Dato atto, poi, che, “se anche presupposto del fatto”, è necessario il rilascio della certificazione per integrare il reato de quo, la pronuncia in esame si connette all’orientamento giurisprudenziale che ha preso le mosse dalla sentenza Salmistrano, e sempre, pur implicitamente, tenendo in conto il principio del libero convincimento: si condivide l’avere il giudice di merito “ritenuto che il rilascio delle certificazioni da parte del sostituto ai sostituiti fosse, nel caso di specie, provato dalla testimonianza resa dal funzionario erariale che ha relazionato sul contenuto delle dichiarazioni annuali, ossia dal c.d. modello 770 che il sostituto di imposta deve presentare nel termine stabilito, attribuendone espressamente la paternità all’imputato”, essendo in tale modello “comunicati in via telematica all’Agenzia delle Entrate i dati fiscali relativi alle ritenute operate nell’anno precedente nonché gli altri dati contributivi ed assicurativi richiesti, tra cui i dati relativi alle certificazioni rilasciate ai soggetti cui sono stati corrisposti in tale anno redditi di lavoro dipendente, equiparati ed assimilati o indennità di fine rapporto”; e si puntualizza pure che, quanto alle attestazioni contenute nella dichiarazione annuale costituente il modello 770 e provenienti dallo stesso sostituto d’imposta, “nelle quali sono puntualmente indicate le certificazioni rilasciate ai sostituiti e sono riportati i dati circa le ritenute operate”, quel che si pone non è tanto “una questione di mancato rilascio delle certificazioni”, bensì piuttosto “di ripartizione degli oneri probatori, incombendo al pubblico ministero di provare i fatti costitutivi dell’addebito contestato, tra cui, per quanto qui interessa, il rilascio delle certificazioni (onere che può assolvere per via documentale, testimoniale o indiziaria)”. All’imputato invece incombe, se il pubblico ministero ha adempiuto al proprio onere, l’ulteriore onere di provare “i fatti (estintivi o modificativi) che paralizzino la “pretesa punitiva”, con la conseguenza che la pura e semplice affermazione di non avere rilasciato le certificazioni ai sostituiti o di non aver retribuito i dipendenti, e di conseguenza neppure operato le ritenute, non è idonea all’assolvimento dell’onere probatorio a suo carico “e dunque non lo esonera dalle responsabilità, al cospetto di prove documentali provenienti dallo stesso imputato o testimoniali, che a queste si riferiscano, che comprovino l’esatto il contrario”.
3.5 In questa linearità, confortata entro certa misura, a proposito della conformazione costitutiva del reato, dall’intervento delle Sezioni Unite, viene a introdursi la divergente Cass. sez. 3, 8 aprile 2014 n. 40526, Gagliardi, che in primis si distoglie dalla conformazione della fattispecie individuata dalla sentenza Favellato.
Massimata infatti nel senso che l’articolo 10 bis, “presenta una componente omissiva, rappresentata dal mancato versamento nel termine delle ritenute effettuate, ed una precedente componente commissiva, consistente, a sua volta, in due distinte condotte, costituite dal versamento della retribuzione con l’effettuazione delle ritenute e dal rilascio ai 5 sostituiti delle certificazioni prima dello spirare del termine previsto per la presentazione della dichiarazione quale sostituto d’imposta”, esamina un caso in cui il ricorrente contestava la sufficienza individuata dal giudice d’appello nella presentazione della dichiarazione secondo il modello 770 “al fine di provare l’effettiva avvenuta certificazione delle ritenute operate”, adducendo che il rilascio delle certificazioni fosse proprio l’elemento essenziale costitutivo del reato, per cui sarebbe indispensabile la prova della emissione delle certificazioni da cui risultino le ritenute non versate, trattandosi di un “reato a formazione progressiva, in quanto alla condotta omissiva di mancato versamento delle ritenute si unisce inderogabilmente la condotta commissiva della emissione della relativa certificazione”. La sentenza aderisce a questa impostazione, dedicandovi ampia motivazione per illustrarla, giungendo così ad affermare: “In sostanza, secondo l’interpretazione fatta propria dalle Sezioni Unite e dalla prevalente dottrina l’elemento specializzante che determina il configurarsi della natura delittuosa della fattispecie è costituito dal rilascio della certificazione al sostituito…I due presupposti, o meglio gli elementi costitutivi della fattispecie, necessari per attribuire rilevanza penale alla condotta omissiva sono invero costituiti dalle parti di condotta attiva comprendenti sia l’effettuazione della ritenuta e sia la successiva emissione della certificazione. Trattandosi di elementi costitutivi del reato (ma le conseguenze non cambierebbero anche se si volesse parlare di presupposti del reato) per ritenere sussistente il delitto è necessario che l’accusa fornisca la prova di tali elementi e, in particolare… che il sostituto abbia rilasciato ai sostituiti la certificazione (o le certificazioni) da cui risultino le ritenute il cui versamento è stato poi omesso”. E la dichiarazione modello 770 “non può costituire di per sé sola prova dell’avvenuto rilascio e della effettiva consegna agli interessati della certificazione”. Richiamata allora la “consolidata giurisprudenza” che viene definita come orientamento per cui “il PM non deve necessariamente fornire la prova del rilascio delle certificazioni documentalmente, ma può fornirla anche mediante altri documenti, testimoni o indizi”, si osserva che, “peraltro, gli indizi devono essere plurimi, nonché gravi, precisi e concordanti” e che comunque il suddetto orientamento non è condivisibile “basandosi sostanzialmente su un presupposto fallace, e cioè che tutto quello che è stato dichiarato, sarebbe stato per ciò stesso necessariamente anche certificato… la presentazione del modello 770 può costituire indizio sufficiente o prova dell’avvenuto versamento delle retribuzioni e della effettuazione delle ritenute, in quanto con tale modello il datore di lavoro dichiara di averle appunto effettuate. Non può invece costituire altresì indizio sufficiente o prova di avere anche rilasciato le certificazioni ai sostituiti prima del termine previsto per presentare la dichiarazione, dal momento che tale modello non contiene anche la dichiarazione di avere tempestivamente emesso le certificazioni”. Aggiunge poi la sentenza Gagliardi che “va anche considerato che tra i due atti (dichiarazione modello 770 e certificazione rilasciata ai sostituiti) vi sono differenze sostanziali tali da non consentire di ritenere, automaticamente, che l’uno non possa risultare indipendente dall’altro. Si tratta di documenti disciplinati da fonti distinte, rispondenti a finalità non coincidenti e che non devono essere consegnati o presentati contestualmente”; inoltre non vi è “una regola di esperienza nel senso che le ritenute risultanti dal modello 770 “devono ritenersi per ciò stesso certificate, dal momento che non avrebbe senso dichiarare quello che non è stato corrisposto e, perciò stesso, certificato”. Se esistesse…ossia se davvero la presentazione della dichiarazione di sostituto presupponesse, secondo il criterio dell’id quod plerumque accidit, sempre e comunque la formazione e consegna dei certificati ai sostituiti, il legislatore ne avrebbe certamente tenuto conto ed avrebbe, con notevole semplificazione probatoria, punito unicamente il mancato versamento delle ritenute riportate nella dichiarazione modello 770″.
Questa impostazione, che evidentemente viene a miscelare l’aspetto sostanziale con l’aspetto processuale della cognizione, pervenendo ad una sorta di prova legale negativa che deriverebbe dalla conformazione della fattispecie penale – poiché l’articolo 10 bis si riferisce alle ritenute certificate, la dichiarazione secondo modelle 770 non può avere nessuna incidenza probatoria sulla intervenuta certificazione -, è stata seguita a sua volta da altri arresti (sempre considerando solo quelli massimati): Cass. sez. 3, 9 ottobre 2014 n. 10475, Calderone, Cass. sez. 3, 15 ottobre 2014 n. 11335, Pareto, e Cass. sez.3, 29 ottobre 2014-11 febbraio 2015 n. 6203, Rispoli. Sentenze, quindi, pronunciate a breve distanza temporale da quelle che avevano seguito ancora l’orientamento originario.
3.6.1 Anche il secondo orientamento, tuttavia, non viene a sedare il dibattito giurisprudenziale, come emerge dalla successiva Cass. sez. 3, 7 gennaio 2316 n. 10104, Grazzini, che lo affronta ex professo, creando, come si vedrà, dal punto di vista della soluzione adottata, una sottospecie del secondo orientamento, fondata peraltro su basi del tutto diverse.
Nella motivazione, questa pronuncia rileva che nessuno dei due orientamenti “si sofferma analiticamente sulla natura della dichiarazione” contenuta nel modello 770 e sulla eventuale assoggettabilità di tale dichiarazione, una volta sottoscritta e inviata all’ente finanziario, al combinato disposto degli articoli 46 e 76 d.p.r. 28 dicembre 2000 n. 445: ovvero, non è stato vagliato se la dichiarazione rientri nella categoria delle dichiarazioni sostitutive di certificazioni e precisamente nell’ipotesi di cui all’articolo 46, lettera p), del suddetto testo normativo (“assolvimento di specifici obblighi contributivi con l’indicazione dell’ammontare corrisposto”; l’articolo 76 prevede la sanzione penale per dichiarazione di tal genere che non sia veritiera). Rileva altresì la pronuncia in esame che un “utile paragone” sarebbe con la dichiarazione rilasciata dal datore di lavoro all’Inps nei cosiddetti modelli D.M. 10, i quali provano il pagamento delle retribuzioni: e la falsa dichiarazione di corresponsione di prestazioni previdenziali giammai effettuate e però detratte contabilmente a conguaglio dei contributi dovuti all’Inps è stata sussunta in varie fattispecie penali dalla giurisprudenza di legittimità. Quindi “questa Sezione aveva rimesso la questione alle Sezioni Unite, al fine di risolvere il dubbio” se in riferimento al reato di cui all’articolo 10 bis sia attribuibile valore di prova indiziaria decisiva ex articolo 192, secondo comma, c.p.p. alla dichiarazione fiscale di modello 770, “chiarendone la portata e le conseguenze nascenti da una eventuale inveridicità” o se sia comunque “indispensabile acquisire altri riscontri, ed in particolare la certificazione rilasciata dal sostituto di imposta ai singoli sostituiti”; ma all’udienza del 24 settembre 2015 le Sezioni Unite non affrontarono la questione, trovandosi dinanzi ad un reato estinto.
3.6.2 Sul presupposto, allora, che non mostravano esaustivo fondamento entrambi gli orientamenti, rendendo il loro insufficiente contenuto, se non necessario, quanto meno opportuno attingere alla chiarificazione del giudice nomofilattico, la sentenza Grazzini ha poi ritenuto di rinvenire una soluzione per dissipare tale intrinseca parità di insufficienza grazie all’appena avvenuto intervento legislativo. Osserva quindi che l’articolo 7 d. lgs. 24 settembre 2015 ha inserito nell’articolo 10 bis l’inciso “dovute sulla base della stessa dichiarazione”. Effettivamente, sin d’ora deve darsi atto che così è stato modificato il dettato: “É punito…chiunque non versa entro il termine previsto per la presentazione della dichiarazione annuale di sostituto di imposta ritenute dovute sulla base della stessa dichiarazione o risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti, per un ammontare superiore a centocinquantamila Euro per ciascun periodo d’imposta” (la stessa novella ha infatti pure triplicato l’originaria soglia di rilievo penale di cinquantamila Euro). Si pone, allora, la sentenza in esame il problema se la modifica consistita nell’inserimento dell’inciso integra una norma di interpretazione autentica, coinvolgente pertanto anche i fatti antecedenti alla sua entrata in vigore: e lo esclude, alla luce delle pronunce emesse dalla Consulta (sentenze nn. 525/2000, 311/1995, 317/1994 e 480/1992) per cui il legislatore non può schermare sotto la forma di una norma di interpretazione autentica “norme effettivamente innovative dotate di efficacia retroattiva”. Pertanto, “oltre alle perplessità derivanti da una modifica normativa che avesse esclusivo valore probatorio, in sostanziale violazione del principio del libero convincimento del giudice e del principio dell’assenza di prove legali nel processo penale”, alla riforma non può attribuirsi un tale significato.
Giunge allora al risultato del suo percorso argomentativo la motivazione della sentenza de qua affermando che, se la riforma non può assumere effetto normativo di interpretazione autentica dell’articolo 10 bis d.lgs. 74/2000, può tuttavia averlo “interpretativo”, ovvero “nel senso che, se il legislatore ha inteso estendere la tipicità del reato anche alle ipotesi di omesso versamento delle ritenute dovute sulla base della dichiarazione (c.d. Mod. 770), non soltanto la precedente formulazione racchiudesse nel proprio perimetro di tipicità soltanto l’omesso versamento di ritenute risultanti dalle certificazioni rilasciate ai sostituiti – rilievo sostanzialmente pacifico nella giurisprudenza di legittimità -, ma richiedesse, sotto il profilo probatorio, la necessità di una prova del rilascio delle certificazioni ai sostituiti”; e “il criterio logico dell’argumentum a contrario, desunto dalla novella normativa che ha esteso la rilevanza normativa all’omesso versamento di ritenute dovute sulla base della dichiarazione, infatti, impone di escludere dalla portata applicativa della norma quanto non vi era espressamente compreso in precedenza”. Pertanto, l’arresto, avendo in esame un caso in cui la prova era stata identificata nella dichiarazione secondo il modello 770 e nella testimonianza del funzionario della Agenzia delle Entrate, ha ritenuto che tale compendio probatorio fosse insufficiente per il mutato quadro normativo e i suoi “riflessi interpretativi”.
3.6.3 Questa posizione è stata condivisa, sempre tra gli arresti massimati, dalla successiva Cass. sez. 3, 16 dicembre 2016-3 marzo 2017 n. 10509, Pisu (che menziona altresì – si nota per completezza – alcuni arresti non massimati nello stesso senso), per cui “pare indiscutibile” che il legislatore del 2015 “ha inteso…, in particolare laddove ha inserito la dichiarazione annuale di sostituto accanto alle certificazioni rilasciate ai sostituiti, estendere la tipicità del reato anche alle ipotesi di omesso versamento di ritenute dovute sulla base della dichiarazione mod. 770”. Quindi anche questa pronuncia ritiene che “la precedente formulazione racchiudesse nel proprio perimetro di tipicità soltanto l’omesso versamento di ritenute risultanti dalla certificazione rilasciata ai sostituiti”, e che, sempre come conseguenza della novella del 2015, tale precedente formulazione “richiedesse anche, sotto il profilo probatorio, la necessità di una prova del rilascio della certificazione ai sostituiti”, ancora sulla base dell’argomento a contrario. In sostanza, dalla “novella che ha esteso la rilevanza normativa all’omesso versamento di ritenute dovute sulla base anche della dichiarazione” deve desumersi l’irrilevanza normativa di quanto nell’articolo 10 bis non era “espressamente compreso in precedenza”. Il che significa “la riconosciuta validità, da parte dello stesso legislatore, del secondo dei due indirizzi” (ovvero quello per cui la dichiarazione modello 770 era inidonea a dimostrare l’intervenuto rilascio delle certificazione). E questo arresto precisa che non può “evidentemente” portare a diverse conclusioni “il solo fatto che, nella relazione illustrativa al d.lgs. n. 158 del 2015, si sia affermato che la modifica ha “chiarito” la portata del precedente modello legale della fattispecie incriminatrice, stante, a fronte comunque dell’oggettivo precipitato della norma così come positivizzata, la equivocità di una simile locuzione”. Precisa altresì che comunque “la portata innovativa della novella non può avere efficacia retroattiva quanto alle condotte… poste in essere in precedenza, attesa la portata estensiva dell’area di incriminazione operata con la menzionata modifica”.
7. Il collegio ritiene che quest’ultima svolta della tormentata lettura dell’articolo 10 bis, in luogo di rinvenire infine una soluzione dirimente, venga ad introdurre pure nelle due sentenze appena richiamate profili di criticità.
7.1 L’”entrata in gioco” della novella del 2015 è stata anzitutto prospettata, nella sentenza Grazzini, come necessitante di vaglio in ordine all’eventuale significato di norma di interpretazione autentica. Si è posto, cioè, il quesito se (articolo 7, comma 1, lettera b), d.lgs. 24 settembre 2015 n. 158, inserendo, accanto al riferimento alla certificazione rilasciata ai sostituiti, l’inciso relativo alla dichiarazione annuale di sostituto d’imposta, avesse “chiarito” come, non certo in modo del tutto insignificante, aveva enunciato la relazione illustrativa della novella – il dettato dell’articolo 10 bis che, in poco più di dieci anni di vita, aveva suscitato intense discussioni ermeneutiche, anche a livello di giurisprudenza di legittimità. La sentenza Grazzini per prima ha, allora, escluso che l’intento e il contenuto effettivo della norma fossero di interpretazione autentica, ma lo ha fatto in modo assertivo, richiamando le pronunce del giudice delle leggi che hanno evidenziato la illegittimità del mascherare in norme di interpretazione autentica norme innovative retroattive, senza peraltro indicare expressis verbis perché si debba ritenere che, in concreto, la novella avrebbe costituzionalmente abusato dell’istituto, pur previsto nell’ordinamento, dell’interpretazione autentica nel caso in cui alla modifica de qua si dovesse attribuire tale ruolo.
Implicitamente, l’arresto pare tuttavia aver identificato la ragione di ciò, in sostanza, nell’adesione al primo orientamento, quello sortito dalla sentenza Salmistrano. Negato allora che l’adesione suddetta possa generare una norma di interpretazione autentica, effettua dell’articolo 7, comma 1, lettera b), della novella una lettura che presuppone invece adesione all’orientamento introdotto dalla sentenza Gagliardi, come poi ammette apertamente il successivo conforme arresto, la sentenza Pisu, per la quale dalla norma si evince “la riconosciuta validità, da parte dello stesso legislatore, dei secondo dei due indirizzi”. L’adesione del legislatore, sempre in questa lettura, si unisce peraltro a un contemporaneo “licenziamento” di tale insegnamento giurisprudenziale, attuato sotto forma di estensione della portata della fattispecie penale. In questo modo, i due arresti in questione hanno ravvisato nel testo novellato dell’articolo 10 bis non solo una estensione di portata sostanziale, ma pure una norma probatoria, questa sì, a ben guardare, retroattiva: la inidoneità della dichiarazione annuale di sostituto d’imposta a costituire una prova, neppure indiziaria, del rilascio della certificazione ai sostituiti per i reati commessi prima della estensione della fattispecie sostanziale. Ciò potendo comportare, tuttavia, seguendo un iter logico, che sovente prima della riforma gli imputati siano stati condannati per avere i giudici di merito operato non una semmai erronea valutazione del compendio probatorio per accertare il reato, bensì, alla luce di un espresso orientamento di questa Suprema Corte, una vera e propria interpretazione estensiva – e quindi illegittima – del contenuto della fattispecie penale dettata dall’articolo 10 bis. Il che, naturalmente, suscita notevoli perplessità in ordine alla soluzione adottata dalle sentenze in esame.
Peraltro, è molto agevole, partendo dal presupposto apodittico che la norma estenda anziché chiarificare, far rientrare nella norma stessa una valenza, di fatto, anche di interpretazione autentica, e lo strumento è l’argomento a contrario: se quel che introduce il legislatore è un novum (ma il problema rimasto in questo caso, come si è visto, è la certezza che si tratti davvero di un novum) significa che prima la norma non lo copriva. E ciò esclude pure criticità rispetto all’articolo 2, quarto comma, c.p.c. in relazione all’effetto retroattivo di tale valenza interpretativa (id est, criticità rispetto ai limiti che il legislatore ordinario deve rispettare nel fornire interpretazione autentica, così come evidenziati dalla Corte Costituzionale), poiché la norma che succede nel tempo a quella precedente, essendo la più ampia, è la meno favorevole al reo: pertanto, invertendo il suo contenuto (questo è l’argomento a contrario) ai fini interpretativi, l’interpretazione della norma precedente insita nella scelta di riformarla può ben essere retroattiva, perché disegna una norma più favorevole al reo.
7.2 Come si è visto sopra, le due sentenze che hanno dato luogo a quest’ultimo orientamento non spiegano la scelta, invece che di un intervento autenticamente interpretativa, di un intervento “riformante” come rappresentato dall’inserimento dell’inciso nell’articolo 10 bis, tale cioè da creare una fattispecie nuova, più estesa e quindi più severa.
Non sembra essere stato tenuto in conto il contesto della novella del 2015, che in un’ottica globale non ha per nulla inasprito la repressione penale degli illeciti tributari, al contrario sovente posticipando in termini quantitativi il rilievo dell’evasione o della condotta che possa esservi finalizzata, o comunque attenuando l’impostazione del testo precedente (si vedano del d.lgs. 74/2000 l’articolo 3 – sostituito, che nel primo comma è passato, nella soglia dell’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione, da Euro 1.000.000 a Euro 1.500.000, e che ha ricevuto un secondo e un terzo comma, quest’ultimo espressamente escludente che sia mezzo fraudolento l’indicazione nelle fatture o nelle annotazioni di elementi attivi inferiori a quelli reali -; l’articolo 4 – in cui viene elevata la soglia di rilievo penale del primo comma, lettera a), da Euro 50.000 a Euro 150.000; e, quanto alla lettera b) dello stesso primo comma, l’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione viene elevato a un importo “superiore a Euro tre milioni” in luogo dei precedenti due milioni; all’articolo inoltre vengono aggiunti i commi 1 bis e 1 ter, che rigorosamente circoscrivono il rilievo penale della dichiarazione infedele -; l’articolo 5 – sostituito nel primo comma, elevando il rilievo penale della omessa dichiarazione alla soglia di Euro 50.000, pur aumentando la pena detentiva -; l’articolo 10 bis – dove appunto la soglia del rilievo penale da Euro 50.000 è passata a Euro 150.000 -; l’articolo 10 ter – sostituito con un testo che introduce una soglia di Euro 250.000 per ciascun periodo d’imposta -; l’articolo 10 quater – a sua volta sostituito con un testo che sia nel primo che nel secondo comma prevede soglie di rilievo per importo annuo -; l’articolo 13 – sostituito con un testo che dalla diminuente passa alla causa di non punibilità in relazione al pagamento del debito tributario -). Se è pur vero che, appunto, talora sono stati aumentati il minimo e il massimo della sanzione e che è stato inserito l’articolo 12 bis – non novità assoluta, peraltro -, è altrettanto vero che una visione complessiva della novella potrebbe senza difficoltà condurla alla qualificazione di lex mitior, in nessun caso – tranne, appunto, l’articolo 10 bis se interpretato come prospettano gli arresti in esame – sembrando incidere in senso estensivo sul contenuto delle condotte penalmente rilevanti. D’altronde, ogni interpretazione dovrebbe essere sistemica.
Appare difficile, inoltre, qualificare – laddove siano configurabili interpretazioni alternative del precipitato normativo – del tutto inconferente quel che emerge dai lavori parlamentari, e quindi, nel caso in esame, pure dalla relazione illustrativa della novella.
Quest’ultima, come si è visto, afferma che la modifica ha “chiarito” la portata del testo previgente: e lascia una qualche perplessità definire ciò equivoco visto il testo effettivo della norma. Se quest’ultimo fosse, invero, così evidente nel suo contenuto, non sarebbe mai stata posta in discussione la sua natura di norma di interpretazione autentica: eppure, l’orientamento in esame prende le mosse proprio da tale eventualità, pur giungendo a rifiutarla. Peraltro, non si può non rilevare che l’affermazione di una ratio di chiarimento, di per sé, ben difficilmente assume una funzione equivoca, poiché ciò che è chiaro è esattamente l’opposto di ciò che è equivoco. Si stenta, allora, a ritenere che il legislatore abbia nel caso in esame tenuto una condotta in toto intrinsecamente opposta: da un lato manifestando una intenzione di chiarire, dall’altro ponendo in essere un elemento equivoco.
In conclusione, ritiene questo collegio che il sostegno travato dall’orientamento in esame nella novella del 2015 non sia sufficiente a risolvere il problema interpretativo dell’articolo 10 bis nel testo ad essa antecedente, che lo stesso orientamento ha riconosciuto essere ancora presente prima dell’entrata in vigore della novella (e qui si richiama pure quanto nella sentenza Grazzini è stato evidenziato in ordine all’approfondimento della natura della species di dichiarazione resa con il modello 770). Valutando quindi non superati gli elementi incerti che animano la suddetta interpretazione, sia sotto il profilo sostanziale – la sentenza Favellato riscontra una fattispecie omissiva istantanea, mentre sembrerebbe attualmente maggioritaria la qualificazione come fattispecie in forma progressiva composta da un elemento omissivo e un elemento omissivo -, sia, e conseguentemente almeno entro certi limiti, sotto il profilo probatorio, si ritiene pertanto di dovere rimettere gli atti, ai sensi dell’articolo 618 c.p.p., alle Sezioni Unite per chiarire se, ai fini dell’accertamento del reato di cui all’articolo 10 bis d.lgs. 10 marzo 2000 n. 74 nel testo anteriore all’entrata in vigore dell’articolo 7, primo comma, lettera b), d.lgs. 24 settembre 2015 n. 158, per integrare la prova dell’avvenuta consegna ai sostituti d’imposta delle certificazioni delle ritenute fiscali possa essere sufficiente la dichiarazione modello 770 proveniente dal datore di lavoro oppure occorrano allo scopo ulteriori elementi probatori.
P.Q.M.
Rimette il ricorso alle Sezioni Unite.