202302.28
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Cass., sez. III civ., 28 febbraio 2023 (ord.), n. 5984 (testo)

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA CIVILE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. TRAVAGLINO Giacomo – Presidente –

Dott. GRAZIOSI Chiara – Consigliere –

Dott. GIANNITI Pasquale – Consigliere –

Dott. DELL’UTRI Marco – Consigliere –

Dott. ROSSELLO Carmelo Carlo – rel. Consigliere –

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso iscritto al n. 33004/2019 R.G. proposto da:

AGENZIA DELLE ENTRATE, A.A., B.B., elettivamente domiciliati in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso lo studio dell’avvocato AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, (C.F.: (Omissis)), che li rappresenta e difende;

  • ricorrente –

contro

C.C., elettivamente domiciliato in ROMA VIA DELLE MEDAGLIE D’ORO 143, presso lo studio dell’avvocato RUSSO LUIGI, (C.F.: RSSLGU79C21F839J), rappresentato e difeso dall’avvocato DELL’AGLIO MARIO RAFFAELE, (C.F.: DLLMRF62R08G942X);

  • controricorrente –

avverso la SENTENZA della CORTE D’APPELLO ROMA n. 2238/2019 depositata il 02/04/2019;

Udita la relazione svolta nella Camera di consiglio del 15/12/2022 dal Consigliere Dott. CARMELO CARLO ROSSELLO.

Svolgimento del processo

  1. C.C. (odierno resistente; di seguito: “il C.C.”), nel 2009, convenne in giudizio, innanzi al Tribunale di Tivoli, l’Agenzia delle Entrate di Tivoli, A.A. e B.B. (odierni ricorrenti; di seguito: “i ricorrenti”), questi ultimi quali verificatori del medesimo Ufficio, al fine di sentirli condannare al risarcimento del danno subito a causa della ispezione fiscale, relativa agli anni d’imposta 2003 e 2004, effettuata nel (Omissis), presso la società A.R. AUTO Srl , di cui l’attore era amministratore, per la verifica dei rapporti commerciali intrattenuti con la società S.D. MOTORS Srl .

Al termine dell’ispezione fiscale, i verificatori qualificarono alcuni acquisti di autovetture usate in parte come operazioni inesistenti e in parte come operazioni intracomunitarie, in regime di margine, all’esito delle quali emerse l’omissione nelle fatture emesse della relativa I.V.A. per un ingente importo.

A seguito di ciò vennero aperti, a carico dell’attore, diversi accertamenti fiscali da parte delle competenti autorità e due procedimenti penali. Nel corso di questi ultimi vennero rilevati alcuni errori grossolani, commessi dai verificatori, relativi alla erronea qualificazione come intracomunitaria dell’acquisto di due autovetture, effettivamente risultanti di provenienza italiana.

I due procedimenti penali vennero definiti, rispettivamente, con un provvedimento di archiviazione del P.M. e con una sentenza di “non doversi procedere perchè il fatto non sussiste” del GUP. Tali vicende ebbero devastanti ripercussioni sulla salute, sulla vita lavorativa e di relazione del C.C..

  1. Il Tribunale rigettò la domanda risarcitoria, rilevando il mancato assolvimento dell’onere probatorio, gravante sull’attore, relativo al profilo soggettivo della condotta degli agenti verificatori. Il giudice di prime cure non ritenne, infatti, sufficiente, ai fini della sussistenza della responsabilità civile dei convenuti, l’esito dei due giudizi penali – favorevoli all’attore – ritenendo che questo rientrasse nella normale fisiologia delle vicende processuali.
  2. Avverso la sentenza di primo grado propose appello C.C.. In particolare, il C.C. ribadì la fondatezza della propria domanda risarcitoria, evidenziando che l’errore commesso dai verificatori, nell’includere tra le autovetture in relazione alle quali era stata ipotizzata l’applicazione del regime del margine due autovetture acquistate in Italia, aveva comportato che la contestazione dell’Iva evasa superasse la soglia di punibilità di Euro 103.291,00 prevista dal D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4.
  3. Con sentenza n. 2238/2019, depositata in data 02/4/2019, oggetto di ricorso, la Corte di Appello di Roma, in riforma della sentenza impugnata, accolse il gravame e, per l’effetto, condannò gli appellati – rimasti contumaci – al risarcimento dei danni subiti dall’appellante, oltre alla refusione delle spese di giudizio. In particolare, la Corte territoriale accertò la responsabilità colposa degli appellati per i fatti erroneamente attribuiti all’appellante all’esito dell’ispezione fiscale che diedero origine ai due procedimenti penali a suo carico, e condannò gli accertatori al risarcimento dei danni non patrimoniali, quantificati in Euro 20.000,00.
  4. Avverso la sentenza d’appello, l’Agenzia delle Entrate, A.A. e B.B., propongono ricorso per cassazione affidato a due motivi, cui C.C. resiste con controricorso.
  5. La trattazione del ricorso è stata fissata in adunanza camerale ai sensi dell’art. 380-bis.1 c.p.c.. Il Procuratore Generale non ha presentato conclusioni scritte.
  6. Parte ricorrente ha depositato memoria datata 5/12/2022.

Motivi della decisione

  1. Il primo motivo di ricorso denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, “Violazione degli artt. 1223 e 2043 c.c., anche in combinato disposto con l’art. 331 c.p.p., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1”. I ricorrenti lamentano che la Corte territoriale avrebbe erroneamente attribuito alla colpa grave e alla negligenza degli agenti verificatori le gravi conseguenze derivanti dall’apertura dei due procedimenti penali a carico del C.C.. A parere dei ricorrenti, la sussistenza della responsabilità non è riconducibile alla mera presentazione della denuncia a carico del controricorrente, poichè tale atto riveste la natura di atto dovuto, per i pubblici ufficiali – gli agenti verificatori – ai quali l’art. 361 c.p., impone un obbligo di denuncia per i fatti di reato, appresi nell’esercizio o a causa delle funzioni, il cui ritardo od omissione è penalmente sanzionato.

Più specificamente, i ricorrenti espongono che nei casi in cui la polizia tributaria, nell’esercizio delle funzioni amministrative, rilievi la presenza di violazioni costituenti reato, su di essa ricade l’obbligo di comunicare, senza ritardo, all’Autorità giudiziaria la notizia del reato ai sensi dell’art. 347 c.p.p., e tale obbligo ricade, ugualmente, in capo ai funzionari civili dell’Amministrazione finanziaria, ai sensi del combinato disposto degli artt. 331 c.p.p., del D.P.R. n. 633 del 1972, art. 51 e del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 31 (così a p. 11, ultimo p., e 12, 1 rigo, del ricorso).

  1. Il secondo motivo di ricorso denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, “Violazione dell’art. 1223 c.c. e art. 2967 c.c., con riferimento al D.Lgs. 10 marzo 2000, n. 74, art. 4 e all’art. 331 c.p.p., in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1”. I ricorrenti deducono che la Corte territoriale avrebbe errato nel ritenere rilevante l’errore dei verificatori ai fini della sussistenza del danno provocato al C.C. dall’apertura dei procedimenti penali a suo carico. Infatti, a parere dei ricorrenti, manca, a tal fine, la prova del nesso causale tra l’errore e il fatto causativo del danno e/o la prova del medesimo. Ciò, essenzialmente, in quanto la consistenza finale del loro errore sarebbe rimasta comunque superiore alla soglia di punibilità prevista, a norma del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4, per la dichiarazione infedele resa dalla società (argomento sul quale si tornerà infra, ai punti 4 e ss.).

A tale riguardo, i ricorrenti espongono che dalla richiesta di rinvio a giudizio riprodotta nella sentenza di non luogo a procedere n. 79/2010 emessa dal Gip di Tivoli risulta che l’intimato è stato indagato per il “reato p. e p. dal D.Lgs. 10 marzo 2000, art. 4, perchè, nella qualità di rappresentante legale della società AR AUTO Srl al fine di evadere le imposte sui redditi e sul valore aggiunto indicava nella dichiarazione annuale 2003 elementi passivi fittizi, omettendo di versare le seguenti maggiori imposte (..) IVA per Euro 130.445,00 per un ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione pari ad Euro 586.225,99, superiore al 10% del volume d’affari indicato in dichiarazione pari ad Euro 584.154,00” (p. 12, n. 18 del ricorso).

A detta dei ricorrenti, la Corte territoriale, recependo acriticamente le deduzioni di cui alle pagg. 2-3 dell’atto di citazione in appello, ha stigmatizzato il “ben più grave errore commesso nella individuazione di due autovetture (una BMW ed una Ford Glia), in realtà acquistate in Italia” ha comportato l’instaurazione del secondo dei due processi. La Corte afferma infatti che “ove gli accertatori avessero usato maggiore diligenza e avessero effettivamente rilevato l’origine dell’acquisto dei due automezzi, avrebbero certamente dovuto detrarre dal prezzo determinato ai fini IVA (stante il particolare regime fiscale del c.d. “margine globale”) l’importo complessivo di Euro 15.000,00. Di contro gli accertatori hanno applicato la presunta imposta I.V.A. evasa su un imponibile di Euro 566.225,00 rappresentante il prezzo totale delle vetture complessivamente in contestazione, senza neanche tener conto dell’imposta effettivamente liquidata dalla società in applicazione del predetto regime speciale per Euro 8.465,00. Ove in sostanza gli accertamenti fossero stati compiuti in modo diligente e fossero stati fatti quindi i calcoli in modo corretto, ne sarebbe scaturita una supposta I.V.A. evasa di Euro 101.600,00, inferiore alla prescritta soglia di punibilità di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4, con la ovvia conseguenza che il C.C. avrebbe potuto evitarsi un ingiusto processo” (così a p. 4, 3 p., della sentenza).

I ricorrenti espongono che, posto che l’Iva di cui era contestata l’evasione ammontava pacificamente ad Euro 130.445,00, “appare evidente che anche computando in diminuzione l’importo dell’Iva riferita alle due autovetture, pari ad Euro 8.465,00, l’importo sarebbe risultato pari a Euro 121.980,00, e quindi sarebbe stato superiore alla soglia di punibilità di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4, con conseguente permanenza dell’obbligo di denuncia” (così a p. 13, punto 20, del ricorso).

Del resto, continuano i ricorrenti, il GIP, nella sentenza n. 79/2010, ha motivato la decisione di non luogo a procedere unicamente sul fatto che “la pubblica accusa non ha fornito prova alcuna che il C.C. fosse in grado di sindacare, utilizzando la normale diligenza, il regime impositivo adottato dalle ditte fornitrici”, senza fare riferimento alcuno al non superamento della soglia di punibilità di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4.

Inoltre, se davvero la richiesta di rinvio a giudizio avesse avuto come presupposto un errore così marchiano come quello stigmatizzato dalla Corte di Appello, la difesa dell’imputato non avrebbe avuto alcuna necessità di produrre la “relazione consulenziale” cui si fa cenno nella motivazione della sentenza di non luogo a procedere.

A fronte di evidenze documentali, sarebbe irrilevante l’asserita mancata difesa sul punto degli odierni ricorrenti, che ben potevano limitarsi ad affermare che la ricostruzione dei fatti offerta da controparte era “suggestiva” e “infondata”.

Conseguentemente, pur volendo condividere l’asserzione di parte e considerare, nel caso, le cessioni come rientranti nel regime del margine, permane il mancato versamento dell’imposta di riferimento pari ad Euro 8.465,00 e, conseguentemente l’entità dell’omesso versamento Iva (così a p. 13, nota n. 13, del ricorso).

Alla stregua delle considerazioni che precedono, la sentenza della Corte territoriale, nell’affermare che l’errore ha dato luogo al procedimento penale, avrebbe violato l’art. 1223 c.c. e art. 2697 c.c., non sussistendo il nesso causale tra l’errore e il fatto causativo del danno e/o la prova dello stesso nesso causale, e ciò anche in quanto, per effetto di un’erronea applicazione del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4, ha implicitamente ritenuto che in assenza dell’errore l’Amministrazione non avrebbe dovuto procedere alla denuncia criminis e/o che il procedimento penale sarebbe stato archiviato.

  1. Sul primo motivo di ricorso. A titolo di premessa, deve, innanzitutto, rilevarsi che “l’attività della pubblica amministrazione, anche nel campo della pura discrezionalità, deve svolgersi nei limiti posti dalla legge e dal principio primario del neminem laedere, codificato nell’art. 2043 c.c., per cui è consentito al giudice ordinario accertare se vi sia stato da parte della stessa pubblica amministrazione, un comportamento doloso o colposo che, in violazione di tale norma e tale principio, abbia determinato la violazione di un diritto soggettivo. Infatti, stanti i principi di legalità, imparzialità e buona amministrazione, di cui all’art. 97 Cost., la pubblica amministrazione è tenuta a subire le conseguenza stabilite dall’art. 2043 c.c., atteso che tali principi si pongono come limiti esterni alla sua attività discrezionale” (così Cass., Sez. III, 3/3/2011, n. 5120; come del resto pacifico nella giurisprudenza di questa Corte: cfr., tra le altre, Cass., Sez. Un., 26108/2007; Cass., Sez. III, 19/12/2013, n. 28460; Cass., 7531/2009; Cass., n. 1191/2003).

3.1 La Corte territoriale, sulla base del discrezionale potere valutativo ad essa spettante, ha ritenuta sussistente la violazione dell’art. 2043 c.c., affermando, con motivazione congrua e logica, che l’errore commesso dagli accertatori dell’ufficio, al quale era stata anche rivolta formale istanza di provvedimento in autotutela da parte dell’Ufficio competente, ma senza alcun esito, ha concretizzato i presupposti della colpa grave.

3.2 Va ulteriormente precisato che gli odierni ricorrenti non sono stati ritenuti responsabili ex art. 2043 c.c., per la denuncia in sè, bensì per le risultanze dei loro accertamenti, che, se fossero stati effettuati correttamente, non avrebbero indotto il P.M. ad esercitare l’azione penale. Nè, come rilevato dalla sentenza gravata, ad esimente di tale responsabilità può valere la circostanza che le conclusioni degli accertatori sono state avallate dall’Ufficio del P.M., considerato che quest’ultimo è stato tratto in errore proprio dalla erroneità degli accertamenti effettuati dagli accertatori e dalle loro conclusioni (così a p. 5, 1 p. della sentenza).

3.3 Il motivo in esame, per come concretamente argomentato, si rivela essere, sostanzialmente, una critica al complessivo accertamento fattuale operato dalla Corte territoriale, così dimostrando di voler sollecitare, attraverso l’apparente deduzione del vizio di violazione di legge, una rivisitazione altrettanto fattuale del giudizio, non consentita a questa Corte, alla quale non spetta il riesame della vicenda processuale, ma solo il controllo della correttezza giuridica e della coerenza logica delle argomentazioni svolte dal giudice di merito, cui competono, in via esclusiva, l’individuazione delle fonti del proprio convincimento ed il controllo della loro attendibilità e concludenza, nonchè la scelta, tra le complessive risultanze processuali, di quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi (cfr., ex plurimis, Cass., n. 12568 del 2019, in motivazione; Cass., n. 13881 de12015; Cass., n. 24679 del 2013; Cass. n. 27197 del 2011; Cass. n. 6694 del 2009).

3.4 n motivo è pertanto inammissibile.

  1. Sul secondo motivo di ricorso. Con il motivo in esame i ricorrenti contestano i calcoli effettuati dalla Corte territoriale in relazione all’importo dell’Iva contestata al C.C., rilevando come detto importo fosse “pacificamente” riconosciuto in Euro 130.445,00, per cui, “anche computando in diminuzione l’importo dell’Iva riferita alle due autovetture (in più individuate dagli accertatori, n.d.r.), pari ad Euro 8.465,00, l’importo sarebbe risultato pari ad Euro 121.980,00, e quindi sarebbe stato superiore alla soglia di punibilità di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 4, con conseguente permanenza dell’obbligo di denuncia” (così a p. 13, punto 20, del ricorso).

4.1 Appare evidente come anche tale censura impinga nel merito della valutazione della sentenza gravata, risultando di conseguenza inammissibile per le stesse ragioni esposte con riferimento al primo motivo, in quanto, come correttamente rilevato dai controricorrenti, esso – oltre ad afferire ad insindacabili valutazioni di merito introduce nel presente giudizio di legittimità nuovi dati, mai contestati nei precedenti gradi di giudizio, i quali, oltretutto, non risultano nè coerenti nè comprensibili.

  1. Il ricorso è pertanto inammissibile, stante l’inammissibilità di entrambi i motivi.
  2. Le spese seguono la soccombenza, e vengono liquidate in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte dichiara inammissibile il ricorso. Condanna i ricorrenti al pagamento, in favore del controricorrente C.C., delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 2.000,00, oltre agli esborsi, liquidati in Euro 200,00, oltre accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, il 15 dicembre 2022.

Depositato in Cancelleria il 28 febbraio 2023