Cass., sez. trib., 14 ottobre 2015, n. 20628 (testo)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PICCININNI Carlo – Presidente –
Dott. CIRILLO Ettore – Consigliere –
Dott. OLIVIERI Stefano – rel. Consigliere –
Dott. TRICOMI Laura – Consigliere –
Dott. VELLA Paola – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso 13547-2008 proposto da:
I.G., elettivamente domiciliato in ROMA VIALE DEL VIGNOLA 5, presso lo studio dell’avvocato RANUZZI LIVIA, rappresentato e difeso dall’avvocato QUERCIA LUIGI giusta delega in calce;
– ricorrente –
contro
AGENZIA DELLE ENTRATE in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 123/2006 della COMM.trib.REG. di BARI, depositata il 02/04/2007;
udita la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del 16/02/2015 dal Consigliere Dott. STEFANO OLIVIERI;
udito per il controricorrente l’Avvocato GALLUZZO che ha chiesto il rigetto;
udito il P.M. in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. DEL CORE Sergio che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
Con sentenza 2.4.2007 n. 123 la Commissione tributaria della regione Puglia ha accolto l’appello dell’Ufficio di Bari della Agenzia delle Entrate ed in riforma della decisione di prime cure ha dichiarato legittimo l’avviso di rettifica emesso nei confronti di I. G. titolare dell’omonima ditta individuale (esercente commercio di frutta e verdura) avente ad oggetto la liquidazione della maggiore imposta dovuta a titolo IVA, IRAP ed IRPEF per l’anno 1998, in relazione a maggiori ricavi non dichiarati.
I Giudici territoriali rilevavano che l’atto di appello dell’Ufficio era stato proposto su autorizzazione del Dirigente dell’ufficio contenzioso ed i motivi di gravame risultavano formulati in modo specifico. Quanto al merito rilevavano come la tenuta formalmente regolare delle scritture contabili non impedisse all’ufficio di procedere ad accertamento con metodo analitico-induttivo, qualora, come nel caso di specie, i dati esposti in dichiarazione non fossero ritenuti congrui in base all’esame della documentazione commerciale:
la percentuale di ricarico applicata in concreto dalla ditta per la maggior parte dei prodotti risultava infatti superiore all’80%, dovendo in conseguenza ritenersi inattendibile quella indicata nella dichiarazione fiscale pari al 38,68%. L’accertamento dell’Ufficio era inoltre esente da vizi logici, avendo proceduto i verbalizzanti a scomporre le merci acquistate secondo la tipologia ed a formare il campione in relazione alla incidenza proporzionale così rilevata.
Essendo composto il campione da merci sostanzialmente omogenee, corretta era inoltre la determinazione della percentuale di ricarico secondo la media aritmetica, che bene poteva essere applicata anche a periodi di imposta precedenti, “data la specificità del settore e consequenziali ipotizzate sostanziali immutate condizioni” di esercizio dell’attività economica, non avendo il contribuente fornito in proposito alcuna idonea prova contraria, tenuto conto che i locali commerciali erano ubicati in zona residenziale, prevalentemente abitata da ceto medio, e non influenzata dalla presenza di altri esercizi concorrenti.
Avverso la sentenza di appello ha proposto ricorso per cassazione il contribuente, impugnando la decisione con sette mezzi, ai quali resiste con controricorso la Agenzia delle Entrate.
Motivi della decisione
P. 1 Con i motivi primo, secondo e terzo il contribuente deduce i seguenti vizi di nullità inerenti l’attività processuale svolta dal Giudice di appello:
a) primo motivo: vizio di “omessa pronuncia” in violazione dell’art. 112 c.p.c., sulla eccezione – proposta nella memoria di costituzione in grado di appello – di inammissibilità dell’atto di appello dell’Ufficio in quanto sottoscritto da soggetto non munito della rappresentanza legale dell’ufficio periferico e quindi privo di legittimazione processuale.
La censura si palesa infondata, avendo la CTR pronunciato esplicitamente sulla questione pregiudiziale.
Il Giudice di appello ha motivato l’affermazione secondo cui l’ufficio (periferico) doveva ritenersi ritualmente costituito in giudizio ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 11, comma 2 in quanto le disposizioni del regolamento di amministrazione approvato con Delib. 30 novembre 2000 consentivano di equiparare gli uffici dell’Amministrazione statale (originariamente indicati nella norma processuale tributaria) agli uffici periferici della Agenzia fiscale i quali potevano, pertanto, assumere direttamente la difesa in giudizio, essendo attribuiti ai rispettivi dirigenti i medesimi poteri già attribuiti ai dirigenti statali. La circostanza, indicata dal Giudice di appello, che l’ufficio periferico, nella specie, fosse stato anche “debitamente autorizzato dal dirigente dell’ufficio contenzioso tributario”, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 52, comma 2 -norma peraltro non più suscettibile di applicazione dopo la soppressione degli uffici statali ed abrogata poi dal D.L. n. 40 del 2010 conv. in L. 73 del 2010: Corte cass. SU 14.1.2005 n. 604, deve, infatti, ritenersi del tutto pleonastica rispetto alla “ratio decidendi” che fonda il rigetto della eccezione pregiudiziale sull’accertamento della rituale proposizione dell’atto di appello da parte del dirigente dell’ufficio di Bari della Agenzia fiscale, in quanto titolare della relativa competenza esercitata mediante “delega di firma” conferita al funzionario che aveva materialmente sottoscritto “per il dirigente” l’atto di impugnazione.
b) secondo motivo: violazione dell’art. 75 c.p.c., comma 3, del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 11, comma 2 in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3) recte n. 4, non avendo il Giudice di appello dichiarato inammissibile l’atto di appello dell’Ufficio finanziario, in quanto sottoscritto da funzionario non legittimato a rappresentare l’ente pubblico.
Il motivo è infondato.
Lo stesso ricorrente afferma, infatti, che il ricorso in appello era stato sottoscritto “dal funzionario responsabile del procedimento “con delega di firma”…” specificando ancora che la firma del funzionario era seguita dalla annotazione “per il Direttore Titolare Dott. M.A.” (ricorso cassaz. pag. 11 e 13). Ne segue che:
b1) l’atto di appello deve intendersi proposto direttamente dal dirigente dell’ufficio periferico: ben diverso è, infatti, l’istituto di diritto pubblico della “delegazione amministrativa” di competenze (che, deve essere prevista dalla legge, e prevede, mediante adozione di un formale atto di delega, l’attribuzione ad un diverso ufficio od ente di poteri in deroga alla disciplina normativa delle competenze amministrative) dalla c.d. “delega di firma” che attua un mero decentramento burocratico e trova titolo nei poteri di ordine e direzione, coordinamento e controllo attribuiti al dirigente preposto all’ufficio (art. 11, comma 1, lett. c) e d), Statuto Ag.
Entrate – approvato con Delib. 13 novembre 2000, n. 6; art. 14, comma 2, reg. amm. n. 4 del 2000) nell’ambito dello schema organizzativo della subordinazione gerarchica tra persone appartenenti al medesimo ufficio: il “delegato alla firma” non esercita, infatti, in modo autonomo e con assunzione di responsabilità i poteri inerenti alle competenze amministrative riservate al delegante, ma agisce semplicemente come “longa manus” – e dunque in qualità di mero sostituto materiale – del soggetto persona fisica titolare dell’organo cui è attribuita la competenza. Se l’atto di “delegazione della competenza” ha, pertanto, rilevanza esterna, in quanto deve trovare necessariamente la sua fonte diretta nella legge, al contrario la “delega di firma” è espressione di atti interni di organizzazione (venendo a risolversi in una modalità di distribuzione del lavoro tra i dipendenti appartenenti al medesimo ufficio) e non è suscettibile di alterare, quindi, il regime della imputazione dell’atto, materialmente sottoscritto dal “delegato” con la formula “per il titolare dell’ufficio”, il quale ultimo rimane l’unico ed esclusivo soggetto dal quale l’atto proviene e del quale si assume la piena responsabilità verso l’esterno.
b2) da tali premesse discende che il ricorso in appello deve intendersi, nella specie, ritualmente proposto dal dirigente dell’Ufficio di Bari della Agenzia fiscale, atteso che il funzionario che lo ha materialmente sottoscritto ha chiaramente specificato di agire – in qualità di mero delegato di firma – per l’organo gerarchicamente superiore, sottoscrivendo con la formula “per il Direttore titolare…” (cfr. Corte cass. Sez. 1, Sentenza n. 1280 del 26/04/1968), con la ulteriore conseguenza che, finchè non sia eccepita e provata la non appartenenza del sottoscrittore all’ufficio appellante o, comunque, non sia fornita prova dell’eventuale usurpazione, da parte del sottoscrittore, del potere di impugnazione della sentenza di primo grado, deve presumersi che l’atto provenga dal titolare dell’ufficio e ne esprima la volontà (cfr. Corte cass. Sez. 5, Sentenza n. 874 del 15/01/2009 – con riferimento al rapporto tra Direttore generale della Agenzia fiscale e dirigenti titolari degli uffici-; id. Sez, 5, Sentenza n. 220 del 09/01/2014; id. Sez, 5, Sentenza n. 6691 del 21/03/2014; id. Sez. 5, Sentenza n. 20911 del 03/10/2014 che, in motivazione, precisa “come i rapporti organizzativi interni tra uffici dell’Agenzia delle Entrate, ente pubblico istituzionale, non si atteggiano come i rapporti di tipo intersoggettivo, non essendo dotate le singole articolazioni dell’ente di autonoma personalità giuridica, e dunque non è neppure astrattamente ipotizzarle un “negozio di procura” volto al conferimento della rappresentanza processuale tra detti uffici, potendo al più configurarsi un rapporto delegatorio avente ad oggetto l’esercizio di specifiche attività – nel caso in cui l’Ufficio sovraordinato deleghi l’Ufficio subordinato a svolgere attività di competenza del delegante – ovvero il compimento di singoli atti nell’ambito dello stesso Ufficio (similmente alla delega c.d. burocratica conferita dal direttore titolare dell’ufficio ad un impiegato subordinato)”).
Deve dunque affermarsi il principio di diritto secondo cui:
la legittimazione processuale ad agire e resistere in giudizio avanti le Commissioni tributarie in primo e secondo grado, spetta anche agli uffici periferici, individuati dall’art. 5, comma 1 del regolamento di amministrazione della Agenzia delle Entrate, approvato con Delib.
30 novembre 2000, n. 4, che hanno emesso l’atto impositivo opposto dal contribuente, come previsto dal D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 11, comma 2. L’ufficio periferico è rappresentato in giudizio dal titolare dell’organo (funzionario di livello dirigenziale) che, qualora non intenda trasferire il potere di rappresentanza processuale (in via generale o per determinati affari) ad altro funzionario dell’ufficio periferico, bene può agire in rappresentanza dell’ufficio demandando, nell’esercizio dei poteri di organizzazione e gestione delle risorse umane, la sola materiale sottoscrizione dell’atto difensivo ad un “delegato alla firma”: in tal caso il “delegato” non esercita alcun potere o competenza riservata al delegante – che pertanto rimane l’unico soggetto al quale è riferibile l’atto e del quale si assume in via esclusiva la responsabilità -, venendo ad operare quale “longa manus” del delegante e cioè come mero sostituto nella esecuzione della operazione materiale della sottoscrizione, dovendo presumersi ritualmente costituito in giudizio l’ufficio periferico, a mezzo del dirigente legittimato processualmente, laddove l’atto difensivo sia stato sottoscritto dal delegato alla firma recando chiara indicazione di tale qualità, anche espressa con la formula “per il dirigente…
“, non essendo sufficiente la mera contestazione della legittimazione processuale a fare insorgere l’onere per l’Amministrazione finanziaria di fornire la prova dell’atto interno di organizzazione adottato dal dirigente.
c) terzo motivo: vizio di nullità della sentenza per insufficiente motivazione, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, in quanto il Giudice di appello ha rigettato la eccezione pregiudiziale di inammissibilità, per difetto di specificità dei motivi, dell’atto di appello proposto dall’Ufficio, affermando che la eccezione era “priva di pregio”.
Il motivo è inammissibile.
Premesso che è errata la individuazione del parametro normativo del vizio di legittimità (la censura è rivolta a far valere un vizio attinente l’attività di svolgimento del processo, rifluendo l’apprezzamento sul livello di specificità dei motivi di gravame, sull’accesso della impugnazione all’esame del merito: trattasi quindi di vizio di nullità processuale da far valere ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4), anche a voler considerare che il vizio effettivamente dedotto, come emerge dalla esposizione e dal quesito di diritto ex art. 366 bis c.p.c., attenga in realtà alla violazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 53, comma 1 la censura incorre egualmente nella sanzione della inammissibilità. Il ricorrente ha rilevato che, con il primo motivo di appello, l’Ufficio aveva contestato la violazione da parte della CTP del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d) e, con il secondo motivo di gravame, il vizio di motivazione della sentenza di primo grado. Tuttavia il ricorrente omette di trascrivere i motivi di gravame, non consentendo quindi di apprezzare in via preliminare il contenuto dell’atto di appello, venendo meno il requisito di autosufficienza della censura (il ricorso per cassazione, ove sia denunciato un “error in procedendo”, presuppone comunque la verifica di ammissibilità del motivo di censura, onde il ricorrente non è dispensato dall’onere di specificare – a pena, appunto, di inammissibilità – il contenuto della critica mossa alla sentenza impugnata, indicando anche specificamente i fatti processuali alla base dell’errore denunciato, e tale specificazione deve essere contenuta nello stesso ricorso per cassazione, per il principio di autosufficienza di esso: cfr. Corte cass. Sez. 1, Sentenza n. 20405 del 20/09/2006; id. Sez. 3, Sentenza n. 86 del 10/01/2012; id. Sez. 5, Sentenza n. 12664 del 20/07/2012).
Il ricorrente, peraltro, da un lato sembra individuare il difetto di specificità del gravame nella circostanza della riproposizione degli stessi argomenti svolti dall’Ufficio nelle difese in primo grado, fatto in sè privo di alcuna rilevanza decisiva, atteso che nel processo tributario la riproposizione in appello delle stesse argomentazioni poste a sostegno della domanda disattesa dal giudice di primo grado – in quanto ritenute giuste ed idonee al conseguimento della pretesa fatta valere – assolve l’onere di specificità dei motivi di impugnazione imposto dal D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 53 ben potendo il dissenso della parte soccombente investire la decisione impugnata nella sua interezza, in quanto il ricorso in appello deve contenere “i motivi specifici dell’impugnazione” e non già “nuovi motivi”, atteso il carattere devolutivo pieno dell’appello, che è un mezzo di impugnazione non limitato al controllo di vizi specifici della sentenza di primo grado, ma rivolto ad ottenere il riesame della causa nel merito (cfr. Corte cass. Sez. 5, Sentenza n. 14031 del 16/06/2006; id. Sez. 5, Sentenza n. 3064 del 29/02/2012; id. Sez. 5, Sentenza n. 3Q64 del 29/02/2012 Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 14908 del 01/07/2014); dall’altro lato la censura si palesa scarsamente comprensibile, laddove vorrebbe fare intendere che la critica svolta dall’Ufficio appellante alla decisione della CTP, con il primo motivo di gravame, era da ritenersi inconferente: lo stesso ricorrente riporta, infatti, che i primi Giudici avevano annullato l’atto impositivo statuendo che “mancavano nel caso di specie i presupposti di legge per procedere all’accertamento induttivo del reddito” (cfr. ricorso cassaz. pag. 24), di tal che il motivo di gravame, con il quale si impugnava tale statuizione per errata individuazione del metodo di accertamento in concreto applicato – in quanto il metodo seguito dall’Ufficio non era induttivo puro, ma analitico – extracontabile – appare del tutto pertinente alla “ratio decidendi” della statuizione impugnata.
p. 2 Con il quarto, quinto e sesto motivo il ricorrente impugna la sentenza di appello per vizi di “errores in judicando” deducendo: 1) la violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d) e dell’art. 2697 c.c., in quanto la CTR avrebbe fatto gravare sul contribuente l’onere della prova contraria, ritenendo erroneamente raggiunta la prova dei maggiori ricavi in base alla mera applicazione da parte dei verbalizzanti della percentuale di ricarico sul costo del venduto (quarto motivo); 2) la violazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 39, comma 1, lett. d) avendo la CTR ritenuto sussistenti i requisiti della prova presuntiva dei maggiori ricavi, nonostante i macroscopici errori commessi dai verificatori e consistenti nella applicazione della media aritmetica in luogo della media ponderata, nonchè nella omessa applicazione di correttivi in considerazione degli sconti comunemente praticati alla clientela e degli sfridi che subisce la merce (quinto motivo); 3) nell’avere applicato la medesima percentuale media di ricarico, rilevata in base agli acquisti ed alle vendite effettuate nell’anno 2002, anche ad un precedente periodo di imposta (sesto motivo).
a) Il quarto motivo è inammissibile, non investendo la censura una autonoma “ratio decidendi” ma soltanto un passaggio argomentativo della motivazione della sentenza di appello.
La CTR, infatti, non ha risolto la controversia in base alla applicazione della regola dei riparto dell’onere probatorio, ma ha operato una valutazione di merito delle risultanze istruttorie, rilevando che alla formale regolarità delle scritture contabili non corrispondeva la veridicità dei dati esposti in dichiarazione, che apparivano incongrui in relazione al criterio di economicità della gestione d’impresa, sicchè era da ritenersi legittimo l’accertamento del maggior reddito dell’Ufficio finanziario, condotto con metodo analitico-induttivo, mediante applicazione della percentuale di ricarico applicata alle merci vendute, con conseguente rettifica del reddito e del volume di affari. L’affermazione secondo cui gravava sul contribuente l’onere della prova contraria non costituisce, pertanto, un derivato del riconoscimento del corretto utilizzo da parte dell’Ufficio del metodo di accertamento (analitico – extracontabile), quanto piuttosto una logica conseguenza della valutazione probatoria degli indizi emersi dalla verifica, ed in particolare della rilevata divergenza tra la percentuale di ricarico indicata nella dichiarazione fiscale e quella, invece, risultante dal confronto tra i corrispettivi delle fatture passive relative all’acquisto delle merci ed i prezzi delle merci dello stesso tipo rivendute al dettaglio.
b) Il quinto motivo è inammissibile in quanto il ricorrente, attraverso il vizio di “errore di diritto” ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, viene a censurare la omessa valutazione da parte dei Giudici di appello di fatti, dimostrati in giudizio, e dunque contesta un errore di fatto, ricadente sul giudizio di selezione e prevalenza delle prove (per omessa considerazione di prove determinanti, tali che avrebbero portato con certezza ad una diversa decisione: nella specie – secondo il ricorrente – la CTR non avrebbe tenuto conto di fatti provati in giudizio, quali gli “sconti applicati alla clientela” ed i “cali di peso” della merce determinati dagli scarti e da deterioramento), che doveva allora essere censurato in relazione al diverso paradigma normativo del vizio logico della motivazione, ex art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5) c.p.c. (cfr. Corte cass. Sez. 1, Sentenza n. 1404 del 01/02/2001; id. Sez. 1, Sentenza n. 20671 del 25/10/2005; id. Sez. 3, Sentenza n. 10847 de/ 11/05/2007; id. Sez. 1, Sentenza n. 28224 del 26/11/2008; id. Sez. 3, Sentenza n. 8023 del 02/04/2009; id. Sez. 2, Sentenza n. 21961 del 27/10/2010; id. Sez, 3, Sentenza n. 22801 del 28/10/2014), essendo appena il caso di osservare che “la incompatibilità tra i due vizi di legittimità è stata ripetutamente affermata da questa Corte in considerazione del diverso oggetto della attività del Giudice cui si riferisce la critica: attività interpretativa della fattispecie normativa astratta che va distinta dalla attività valutativa della fattispecie concreta emergente dalle risultanze probatorie (cfr. Corte cass. 1 sez. 11.8.2004 n. 15499; id. sez. lav. 16.7.2010 n. 16698). Tale incompatibilità ontologica priva, pertanto, la censura di violazione o falsa applicazione di norme di diritto del necessario supporto argomentativo a sostegno del motivo di ricorso, richiesto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 4) a pena di inammissibilità (cfr. Corte cass. 2 sez. 29.4.2002 n. 6224, id. 3 sez. 18.5.2005 n. 10385, id. 5 sez. 21.4.2011 n. 9185 sulla inammissibilità del ricorso con cui si denuncia violazione di norma di diritto deducendo nella esposizione del motivo argomenti a fondamento del vizio motivazionale della sentenza; id. 3 sez. 7.5.2007 n. 10295 sulla antinomia tra “error in judicando” e vizio di motivazione).
c) Il sesto motivo, con il quale il contribuente deduce il vizio di violazione e falsa applicazione del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 1 e art. 39, comma 1, lett. d) è inammissibile in quanto inconferente rispetto alla statuizione impugnata.
La CTR ha, infatti, ritenuto estendibile anche al precedente anno 1998 la percentuale media di ricarico rilevata nel corso della verifica fiscale svoltasi nell’anno 2002 in considerazione delle peculiarità dello specifico settore commerciale ed in quanto risultavano sostanzialmente immutate nel tempo la organizzazione aziendale e le condizioni di esercizio della impresa.
La critica del contribuente secondo cui la percentuale di ricarico, rilevata per un determinato anno d’imposta, non potrebbe trovare applicazione ad altri anni d’imposta, non coglie il nucleo dell’accertamento compiuto in concreto, sulla base degli elementi circostanziali esaminati, dai Giudici di appello. Osserva il Collegio che questa Corte ha affermato il principio di diritto secondo cui, una volta stabilita con esattezza – per un determinato esercizio di bilancio – la percentuale di incidenza di una particolare materia prima sul totale degli acquisti, tale percentuale può essere utilizzata anche per la determinazione del volume d’affari relativo a diversi anni d’imposta, se la natura dell’attività imprenditoriale nel corso degli anni non sia cambiata (cfr. Corte cass. Sez. 1, Sentenzia n. 3 del 22/12/1998 – richiamata anche nella sentenza della CTR -; id. Sez, 5, Sentenza n. 6253 del 18/04/2003; id. Sez. 5, Sentenza n. 1647 del 27/01/2010), dovendo intendersi riferita la sostanziale corrispondenza nel tempo dei fattori economici, tanto alle dimensioni organizzative della azienda, quanto al mercato di riferimento in cui l’impresa opera, quanto ancora alla tipologia e quantità di merci che risultano commercializzate.
Pertanto, se il principio di competenza dei costi e ricavi imputabili ad un determinato e specifico periodo di imposta ed il principio di effettività della capacità contributiva, escludono in via generale la legittima “supposizione della costanza del reddito” in anni diversi da quello in cui è stata accertata la produzione, tuttavia gli stessi principi non precludono all’Amministrazione finanziaria di avvalersi, nell’accertamento del reddito (o del maggior reddito), di dati o notizie comunque raccolti, con la conseguenza che la percentuale di ricarico può essere legittimamente rideterminata, con riferimento alla dichiarazione del contribuente relativa al “periodo di imposta precedente”, a fronte del volume di vendite accertato sulla base di dati afferenti ali1 “esercizio in corso” (cfr. Corte cass. Sez, 5, Sentenza n. 5049 del 02/03/2011).
Orbene la CTR ha ritenuto estendibile la percentuale di ricarico rilevata dai verbalizzanti anche agli anni d’imposta precedenti, asserendo che erano rimaste immutate le condizioni di svolgimento dell’attività imprenditoriale, e la critica svolta dal ricorrente, fondata su di un preteso errore di diritto, appare pertanto del tutto inidonea ad inficiare tale accertamento in fatto, risultando inconferente e quindi inammissibile la censura.
p. 3 Le medesime censure rivolte alla sentenza di appello con i precedenti motivi quarto, quinto e sesto, vengono nuovamente formulate con il settimo motivo, in relazione al diverso vizio di legittimità della “insufficiente motivazione” su fatto controverso e decisivo ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5).
Il ricorrente critica la efficacia probatoria presuntiva riconosciuta dalla CTR agli indizi emergenti dal PVC redatto dalla Guardia di Finanza in data 1.7.2002.
Gli elementi probatori addotti dal ricorrente non appaiono, tuttavia, affatto “decisivi” ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), osservando in proposito il Collegio quanto segue:
1 – quanto agli sconti comunemente praticati alla clientela, alcuna dimostrazione risulta fornita dal contribuente in ordine a tale prassi ed alla misura delle riduzioni di prezzo, non essendo peraltro attribuibile a scelte discrezionali rimesse all’imprenditore la valenza di “fatto notorio”, laddove il ricorso alle nozioni di comune esperienza (fatto notorio), comportando una deroga al principio dispositivo ed al contraddittorio ed introducendo nel processo civile prove non fornite dalle parti e relative a fatti dalle stesse non vagliati nè controllati, impone di intendere in senso rigoroso la nozione di “fatto notorio”, come fatto acquisito alle conoscenze della collettività con tale grado di certezza da apparire indubitabile ed incontestabile, rimanendo escluso quindi qualsiasi margine di apprezzamento valutativo (cfr. Corte cass. Sez. 2, Sentenza n. 13234 del 31/05/2010; id. Sez. 5, Sentenza n. 16959 del 05/10/2012; id. Sez, 1, Sentenza n. 6299 del 19/03/2014; id. Sez. 5, Sentenza n. 22950 del 29/10/2014).
2 – quanto alle diverse quantità di merce acquistate rispetto a quelle rivendute, dipendenti dai noti fenomeni degli sfridi e deperimenti, la indicazione degli elementi probatori è del tutto generica non essendo stata specificata, neppure in via ipotetica, quale fosse la incidenza quantitativa del fenomeno ed il conseguente diverso esito sulla percentuale del ricarico media determinata dall’Ufficio.
3 – l’erronea applicazione da parte dei verbalizzanti del criterio della media aritmetica anzichè del criterio della media ponderata, è meramente allegata dal ricorrente ma non dimostrata. Il ricorrente si è limitato, infatti, a riassumere il contenuto del PVC in data 1.7.2002, riferendo che i verificatori avevano messo a confronto “i prezzi esposti in vendita alla data di accesso (25.6.2002)….con il costo dei prodotti risultante dalle fatture di acquisto, determinando la percentuale del ricarico mediamente applicata…sul costo del venduto il giorno 25.6.2002”, aggiungendo che “successivamente hanno raggruppato la merce acquistata in base all’affinità merceologica, ed hanno determinato per ciascun gruppo la percentuale media applicata al costo del venduto, calcolando per ognuno di essi la c.d.
media aritmetica delle diverse percentuali, alcun elemento di critica viene, quindi, addotto a fondamento della censura, salvo la apodittica ed indimostrata affermazione secondo cui il criterio della media ponderata sarebbe in assoluto più rappresentativo del criterio della media aritmetica.
I Giudici di appello hanno specificamente motivato sul punto, rilevando che “previa scomposizione degli acquisti secondo i settori merceologici e tenuto conto della incidenza proporzionale delle merci acquistate, era stata correttamente calcolata la percentuale media attraverso la media aritmetica, attesa “la sostanziale omogeneità merceologica e la rappresentatività della base di calcolo”.
Orbene, dal raffronto tra la statuizione impugnata e la censura formulata alla sentenza, non emerge quale sia l’errore, denunciato dal ricorrente, derivante dall’applicazione della “media aritmetica” in luogo della “media ponderata”, tenuto conto che l’impiego del criterio della media aritmetica semplice in luogo della media ponderale deve ritenersi corretto laddove i prodotti commercializzati risultino tra loro omogenei (e dunque non presentino rilevanti scostamenti in ordine alla quantità delle altre merci vendute ovvero ai prezzi praticati alla vendita): in tal caso la percentuale di ricarico determinata con il criterio della “media aritmetica semplice” non è da ritenersi arbitraria ma risponde alla esigenza di ricostruire i margini di guadagno delle vendite effettuate “in nero”, spettando al contribuente provare che il campione di merce, definito come “gruppo omogeneo”, non è invece rappresentativo, in quanto l’attività sottoposta ad accertamento ha ad oggetto prodotti con notevole differenza di valore ovvero che i prodotti maggiormente venduti presentano una percentuale di ricarico molto inferiore a quella risultante dal ricarico medio delle altre merci vendute (cfr.
Corte cass. Sez, 5, Sentenza n. 14328 del 19/06/2009; id. Sez, 5, Sentenza n. 26312 del 16/12/2009; id. Sez, 5, Sentenza n. 10148 del 28/04/2010; id. Sez. 6 – 5, Ordinanza n. 27568 del 10/12/2013).
Il ricorrente ha contestato il criterio matematico applicato dall’Ufficio, omettendo tuttavia di fornire le ragioni per cui nel caso specifico tale criterio dovesse considerarsi errato, tenuto conto che dagli atti e dalla sentenza di appello risulta che il criterio della media aritmetica è stato applicato all’interno di ciascun “gruppo merceologico omogeneo” (media aritmetica delle percentuali di ricarico rilevate per ogni singolo prodotto facente parte del gruppo), ed alcun rilievo critico viene mosso alla rappresentatività ed omogeneità delle merci che venivano a comporre ciascun gruppo.
Non appaiono “decisivi”, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), alcuni errori di rilevazione, in cui sarebbero incorsi i verbalizzanti, contestati “in via esemplificativa” dal ricorrente con riferimento ai prezzi di acquisto di alcuni prodotti ( nel “Gruppo Verdure”, i erano stati inseriti l'”insalata romanella” o “radicchio” il costo dei quali di Euro 1,03 era indicato nel PVC in Euro 0,34 ed il “sedano” acquistato al costo di Euro 0,77 ma indicato nel PVC in Euro 0,26, errori che in relazione a tali prodotti determinavano, rispettivamente, un irrealistico ricarico del 148,87% e del 184,76% – cfr. pag. 43, 44, 56, 57e 62 del ricorso). Indipendentemente dalle incongruenze che emergono dalla esposizione degli elementi in fatto a supporto della censura (per il “sedano” vengono forniti dati incongruenti: si afferma che la fattura recava il prezzo di acquisto di Euro 0,77 e che i verbalizzanti avevano annotato, invece, un “prezzo di acquisto netto” di Euro 0,26; successivamente si viene a riferire – pag. 62 ricorso – che il prezzo di vendita esposto al pubblico era di Euro 0,77, ma se così fosse dovrebbe allora concludersi che la vendita del prodotto era effettuata senza alcun margine di guadagno, ipotesi contraria ai principi di corretta gestione aziendale ed in ordine alla quale non è stata, peraltro, addotta alcuna giustificazione), ed in disparte dal rilievo di non autosufficienza del motivo, non avendo il ricorrente provveduto a trascrivere il contenuto rilevante del PVC, osserva il Collegio che gli errori indicati, considerati in modo avulso dall’intero procedimento di rideterminazione dei maggiori ricavi seguito dai verbalizzanti, appaiono privi di capacità dimostrativa dell’errore logico imputato alla CTR, non essendo stata evidenziata dal ricorrente, che ha omesso qualsiasi riferimento alle quantità di mercè venduta ed al numero delle fatture di acquisto dei prodotti esaminate dai verbalizzanti, quale sia stata in concreto la incidenza di tali inesatte rilevazioni sulla “percentuale media di ricaricò” calcolata dall’Ufficio finanziario su tutti i prodotti commercializzati, e quale esito diverso avrebbe avuto la controversia qualora la CTR avesse considerato tali inesattezze.
4 – la prospettata divergenza tra le percentuali di ricarico medio determinate dall’Ufficio finanziario ed i livelli parametrici di reddito desumibili dagli studi di settore previsti dal D.L. n. 331 del 1993, art. 62 sexies, comma 3, non può costituire valido metro di verifica per escludere i requisiti di gravità e concordanza di cui all’art. 2729 c.c. richiesti per la prova presuntiva dei maggiori redditi/ricavi, non essendo comparabili stime statistiche riferibili a “medie di settore”, che prescindono quindi dalla concreta condizione aziendale e dai risultati economici realizzati dalla singola impresa (cfr. Corte cass. Sez. 5, Sentenza n. 7914 del 30/03/2007 secondo cui: “i valori percentuali medi del settore non rappresentano un fatto noto storicamente provato, ma costituiscono il risultato di una estrapolazione statistica di una pluralità di dati disomogenei; id. Sez. 5, Sentenza n. 26459 del 04/11/2008), con le percentuali di ricarico desunte dall’esame dei documenti commerciali e dalle quantità di merci effettivamente acquistate e rivendute nel corso dell’esercizio commerciale oggetto di verifica. La completa autonomia dei due differenti metodi di verifica fiscale è stata rimarcata da questa Corte che ha ripetutamente affermato come la procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema unitario che non si colloca all’interno della procedura di accertamento di cui al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 39 ma la affianca, essendo indipendente dall’analisi dei risultati delle scritture contabili, con la conseguenza che la corrispondenza del reddito dichiarato agli indici desumibili dagli studi di settore non impedisce all’erario di procedere all’accertamento di maggiori redditi (cfr. Corte cass. Sez, U, Sentenza n. 26635 del 18/12/2009;
id. Sez. 5, Sentenza n. 23096 del 14/12/2012; id. Sez. 5, Sentenza n. 20060 del 24/09/2014) 5 – Gli elementi dedotti dal ricorrente come “fatti notori” individuati nella stagionalità dei prezzi della frutta e delle verdure e nell’incremento dei prezzi al consumo determinato dalla introduzione della nuova moneta (Euro), non appaiono rilevanti e non risultano assistiti dal requisito di “decisività” richiesto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, tenuto conto che il ricorrente non ha fornito alcun elemento a supporto della variazione stagionale (e della entità della stessa) dei prezzi intervenuta nel mese di giugno 2002 (in cui è stato eseguito l’accesso e sono rilevati i prezzi esposti al pubblico), e neppure dell’incremento delle percentuali di ricarico applicate nel 2002 rispetto a quelle applicate nei precedenti anni d’imposta. Come già in precedenza rilevato, nessuno dei due elementi probatori indicati assurge a valenza di “fatto notorio”, dovendo questo intendersi in senso rigoroso, e cioè come fatto acquisito alle conoscenze della collettività con tale grado di certezza da apparire indubitabile ed incontestabile, che non richiede, pertanto, alcun apprezzamento valutativo (cfr. Corte cass. Sez, 2, Sentenza n. 13234 del 31/05/2010; id. Sez. 5, Sentenza n. 16959 del 05/10/2012; id. Sez. 1, Sentenza n. 6299 del 19/03/2014; id. Sez. 5, Sentenza n. 22950 del 29/10/2014): nella specie la asserzione secondo cui la introduzione dell’Euro ha determinato “genericamente” un incremento dei prezzi al consumo, non ha per oggetto un “fatto storico” determinato, ma una valutazione al più statistica concernente la rilevazione di un fenomeno sociale, che per esplicare efficacia probatoria ai fini della corretta determinazione della percentuale di ricarico, necessità di ulteriori accertamenti valutativi (diretti a verificare se l’incremento dei prezzi si è verificato e con quale frequenza anche nello specifico settore merceologico in cui opera la impresa, nonchè la misura in concreto di detto incremento) incompatibili con la nozione stessa del notorio ex art. 115 c.p.c. p. 4 In conclusione il ricorso deve essere rigettato e la parte ricorrente condannata alla rifusione delle spese di lite liquidate in dispositivo.
P.Q.M.
La Corte:
– rigetta il ricorso e condanna la parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità liquidate in Euro 8.000,00 per compensi, oltre le spese prenotate a debito.
Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 16 febbraio 2015.
Depositato in Cancelleria il 14 ottobre 2015