Minusvalenza deducibile solo se inerente all’attività (nota a Cass. 4901/2013)
Nella sentenza n. 4901 del 2013, la Corte di Cassazione, ponendo fine ad una controversia tributaria protrattasi per diversi lustri, nega la deducibilità di una (ingente) minusvalenza da cessione di partecipazione per difetto di inerenza e violazione del divieto di abuso del diritto.
Quanto al primo profilo, la Sezione Tributaria ritiene che la sussistenza del nesso di inerenza tra la minusvalenza e l’attività della controllante sia smentita dall’antieconomicità dell’operazione complessivamente realizzata.
Pur non risolvendosi necessariamente nel rapporto con uno specifico componente attivo del reddito d’impresa, l’inerenza (cfr. l’art. 75, comma 5, Tuir, applicabile ratione temporis e oggi sostituito dall’art. 109, comma 5, Tuir) richiede che il costo sia specificamente finalizzato all’esplicazione di una attività almeno potenzialmente idonea ad incidere utilmente sulla produzione degli utili (cfr., oltre alle pronunce richiamate in motivazione, anche la sentenza n. 12622 del 2012).
Con riferimento al caso di specie, è valorizzato il collegamento tra il ripianamento delle perdite da parte della controllante per un importo oltre otto volte superiore al valore della partecipazione e la successiva immediata cessione di tale partecipazione ad altra società del medesimo gruppo: vista nel suo insieme, questa sequenza si traduce in un’operazione – già in astratto – incapace di migliorare la redditività della controllante.
Il coinvolgimento di una società appartenente al medesimo gruppo e l’assenza di un obbligo giuridico in capo alla controllante al ripianamento delle perdite della controllata sono considerati come ulteriori elementi di sospetto.
Entra qui in gioco il divieto di abuso del diritto, attraverso il mero richiamo delle massime tralatizie riguardanti il principio generale antielusivo di elaborazione pretoria (sentenze nn. 30055, 30056 e 30057 del 2008): come nella recente sentenza n. 2908 del 2013, assistiamo anche in questo caso al tentativo di rafforzare le argomentazioni “pro Fisco” attraverso l’utilizzo dello strumento generale antielusivo.
La pronuncia in rassegna lascia perplessi anche per un altro motivo.
La scelta della Cassazione di chiudere la controversia in senso sfavorevole al contribuente sembra dettata dal sospetto che l’operazione desta nel suo insieme, mentre la motivazione appare come una sua razionalizzazione a posteriori: i principi enunciati possono però dar adito a rettifiche fondatamente contestabili da parte dei contribuenti.
Nel caso di specie, l’indeducibilità della minusvalenza ruota attorno alla sua non inerenza filtrata attraverso il sindacato di congruità del corrispettivo, non essendo ritenuta conforme alla comune logica economica la scelta di alienare una partecipazione ad un valore notevolmente inferiore rispetto all’ammontare complessivo dei versamenti effettuati per ripianare le perdite della società partecipata.
In realtà antieconomicità e inerenza si muovo su piani diversi: la prima rappresenta uno strumento indiziario che consente di smascherare costi fittizi, perché in tutto o in parte inesistenti, mentre la seconda soddisfa l’esigenza di impedire la deduzione di costi sostenuti per fini personali, effettivamente sostenuti ma estranei all’attività di impresa.
Un altro equivoco sembra risiedere nella scelta di considerare l’antieconomicità come una conseguenza logica necessaria della mancanza di congruità tra i valori posti a confronto, potendo quest’ultima essere giustificata, ad esempio, da strategie commerciali o da un investimento erroneo.
(Cass., sez. trib., 27 febbraio 2013, n. 4901)
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