Cass., sez. trib., 12 giugno 2023, n. 16595 (testo)
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. NAPOLITANO Lucio – Presidente –
Dott. GIUDICEPIETRO Andreina – Consigliere –
Dott. CATALDI Michele – Consigliere –
Dott. ANGARANO Rosanna – rel. Consigliere –
Dott. PEPE Stefano – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso iscritto al n. 26982/2021 R.G. proposto da:
VA NO 1 (MONTEFELTRO) Srl , IN LIQUIDAZIONE, elettivamente domiciliata in Roma, via Sicilia, 66, presso lo studio Fantozzi & Associati e rappresentata e difesa dagli Avv. Lucia Montecamozzo e Cristina Periti;
- ricorrente –
contro
AGENZIA DELLE ENTRATE, in persona del direttore pro tempore, rappresentata e difesa dall’Avvocatura generale dello Stato, con domicilio legale in Roma, via dei Portoghesi, n. 12, presso l’Avvocatura generale dello Stato;
- controricorrente –
avverso la sentenza della COMM.TRIB.REG. LOMBARDIA n. 2427/2021 depositata il 29 giugno 2021;
udita la relazione svolta nella pubblica udienza del 28 marzo 2023 dal Consigliere Rosanna Angarano;
dato atto che il Sostituto Procuratore generale, Giuseppe Locatelli, ha chiesto il rigetto del ricorso;
sentiti l’Avv. Lucia Montecamozzo per la ricorrente e l’Avv. dello Stato Lucrezia Fiandaca per la controricorrente.
Svolgimento del processo
- Va No 1 (Montefeltro) in liquidazione Srl ricorre, con cinque motivi, nei confronti dell’Agenzia delle Entrate, che resiste con controricorso, avverso la sentenza in epigrafe. Con quest’ultima la C.t.r. ha accolto l’appello dell’Ufficio avverso la sentenza della C.t.p. di Milano che, invece, aveva accolto il ricorso della contribuente avverso il silenzio rifiuto formatosi sull’istanza di rimborso della maggiore Ires versata per l’anno di imposta 2017.
- La società, con contratto di finanziamento del 24 maggio 2007, traeva a mutuo da una consociata – Va No 1 Finco s.a.r.l. con sede in (Omissis) – la somma di dieci milioni di Euro, pattuendo interessi nella misura del 9 per cento annuo.
In data 7 luglio 2016 la società mutuante cedeva il credito residuo alla controllante e socio unico della mutuataria, Va No 1 Holdco SA, anch’essa con sede in Lussemburgo. In data 15 dicembre 2017 quest’ultima rinunciava al credito, sia per la parte in linea capitale, sia per gli interessi pari, questi ultimi, ad Euro 6.359.432,95.
In via prudenziale la contribuente, adeguandosi alle istruzioni fornite dall’Amministrazione, applicava sugli interessi che avrebbe dovuto corrispondere in assenza di rinuncia, considerandoli alla stregua di un “incasso giuridico”, l’aliquota del 26 per cento D.P.R. n. 600 del 1973, ex art. 26, comma 5, nonostante la mancanza del pagamento e, dunque, di un effettivo esborso. Conseguentemente versava ritenute per Euro 1.653.452,60.
In data 13 febbraio 2019, tuttavia, presentava istanza di rimborso della detta somma assumendo che la medesima non fosse dovuta. Rilevava, in proposito, che la ritenuta del 26 per cento di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 26, comma 5, era dovuta solo all’atto della corresponsione che, invece, non vi era stata, stante la rinuncia della creditrice. In subordine, invocava il regime di esenzione dalla ritenuta, di cui al D.P.R. n. 600 del 1973, art. 26-quater previsto per gli interessi corrisposti da società residente ad un’impresa consociata in altro Stato membro. In ulteriore subordine, limitava la domanda di rimborso invocando il trattamento più favorevole previsto dall’art. 11 della Convenzione Italia-Lussemburgo, con applicazione di una ritenuta in misura pari al 10 per cento.
Formatosi il silenzio rifiuto, la contribuente ricorreva innanzi alla C.t.p..
- La C.t.p. accoglieva il ricorso. Affermava che il presupposto impositivo era venuto meno in quanto gli interessi non erano stati pagati e che la tesi dell'”incasso giuridico” non era condivisibile.
- La C.t.r., in riforma della sentenza di primo grado, rigettava l’istanza. Affermava, richiamando espresso precedente di legittimità, la correttezza dell’imposizione sul presupposto dell'”incasso giuridico” in quanto la rinuncia presupponeva l’utilizzo del credito anche se non incassato. Escludeva, altresì, la sussistenza dei presupposti per la restituzione ai sensi del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 26-quater e dell’art. 11 della Convenzione Italia-Lussemburgo contro le doppie imposizioni in quanto non era stato provato il possesso dei requisiti in capo alla società erogante ed a quella beneficiaria e, in particolare, non era stato provato che i redditi fossero stati sottoposti a tassazione nello Stato della società estera.
- In data 22 marzo 2023 la ricorrente ha depositato memoria.
Motivi della decisione
- Con il primo motivo la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 26, comma 5, e 26-quater, dell’art. 88, comma 4-bis, t.u.i.r., degli artt. 23 e 53 Cost., dell’art. 1 Protocollo Addizionale CEDU. La ricorrente assume che il regime fiscale delle rinunce a crediti da parte dei soci, a seguito della riforma attuata con il D.Lgs. 15 settembre 2015, n. 147 che ha introdotto dell’art. 88, il comma 4-bis t.u.i.r. non è più compatibile con la fictio iuris dell’incasso giuridico. Assume, altresì, l’inapplicabilità del concetto di incasso giuridico a carico di un soggetto, quale la società lussemburghese tassato per competenza, non sussistendo il rischio del c.d. salto di imposta che era destinato a scongiurare. Assume, altresì, che la fictio iuris dell’incasso giuridico è contrario al principio di legalità ed al principio di capacità contributiva.
- Con il secondo motivo la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omessa valutazione di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, ossia il fatto che il credito oggetto di rinuncia era stato utilizzato per la copertura di perdite e che la partecipazione della controllante era stata ceduta con atto registrato il 1 agosto 2018 al corrispettivo di Euro 100,00.
Assume che la C.t.r., omettendo di considerare dette circostanze, non aveva valutato che, nel caso di specie, mancava l’arricchimento da parte del socio rinunciante e, dunque, il presupposto dell’imposta.
- Con il terzo motivo la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 115 c.p.c. e dell’art. 1 Protocollo 1 CEDU. Censura la sentenza impugnata nella parte in cui non ha posto a fondamento della decisione le prove che dimostravano l’allocazione del credito a copertura delle perdite.
- Con il quarto motivo la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3 la violazione e/o falsa applicazione del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, art. 26-quater dell’art. 11 della Convenzione Italia-Lussemburgo contro le doppie imposizioni, dell’art. 2697 c.c., dell’art. 1 Protocollo 1 Convenzione EDU, dell’art. 111 Cost., dell’art. 6 CEDU. Censura la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto che la prova per l’esenzione dalla tassazione, o la tassazione ridotta prevista dalla Convenzione Italia-Lussemburgo, possa essere data solo a mezzo delle scritture contabili e del bilancio della società rinunciante.
- Con il quinto motivo la ricorrente denuncia, in relazione all’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 92 c.p.c., comma 2, e del D.Lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, art. 15, comma 2, quanto alla pronuncia di condanna alle spese.
- Il primo motivo è fondato, restando assorbiti gli ulteriori.
6.1. La natura reddituale o patrimoniale della rinuncia del socio al credito vantato nei confronti della società non è univoca. Infatti, se sotto il profilo formale la rinuncia determina una sopravvenienza, dal punto di vista sostanziale l’effetto coincide con quello che si realizzerebbe ove la società pagasse il suo debito ed il socio apportasse nuovo capitale.
La teoria volta a dare rilievo fiscale, in caso di rinuncia dei soci ai crediti vantati nei confronti della società partecipata, al c.d. “incasso giuridico” riflette detta ambiguità e si fonda, pacificamente, su una fictio iuris atteso che la rinuncia, sul piano della tassazione, viene equiparata ad un incasso, pur materialmente inesistente, con conseguente imponibilità dello stesso.
Il presupposto da cui muove la teoria dell’incasso giuridico – risalente alla circolare n. 73/E/430 del 27 maggio 1994 e fatta propria dalla giurisprudenza della Corte – è che i crediti ai quali il socio rinuncia vanno portati ad aumento del costo della partecipazione e per la società partecipata non costituiscono sopravvenienze. Ne consegue che detta rinuncia, ove abbia ad oggetto (come nel caso degli interessi su finanziamenti erogati dai soci, ma anche dei compensi spettanti agli amministratori) potenziali redditi soggetti a tassazione per cassa, determina un “salto d’imposta” in quanto il credito è correlato ad un elemento reddito deducibile per il debitore secondo il principio di competenza ed è tassabile per il creditore secondo il principio di cassa. Di qui la necessità, mediante una fictio iuris, di equiparare, ai fini fiscali, la rinuncia all’incasso e di sottoporne l’ammontare a prelievo fiscale, anche mediante ritenuta d’imposta.
Secondo detta ricostruzione, la rinuncia al credito tassato per cassa determina effetti reddituali e, come tale, subisce il prelievo fiscale al pari del credito effettivamente incassato e riversato a titolo di apporto di capitale. Infatti, con la rinuncia viene meno l’incasso materiale ma non la disponibilità giuridica del credito che viene utilizzato per patrimonializzare la società (In questo senso Cass. 18/12/2014, n. 26842, Cass. 26/01/2016, n. 1335, seguite da Cass. 30 gennaio 2020, n. 2057 ed ancora da Cass. 14/04/2022, nn. 12222 e 12223 e da Cass. 19/07/2022, n. 22609).
6.2. La tesi dell’incasso giuridico, tuttavia, si giustifica in un regime fiscale – come quello in cui si innestano sia la circolare dell’Agenzia delle Entrate sia la giurisprudenza di questa Corte sopra citata – in cui la rinuncia al credito, sul versante della società debitrice, è soggetta ad un regime di non tassabilità. La fictio iuris descritta, infatti, pone rimedio al c.d. “salto di imposta” derivante da un’asimmetria di imposizione, sul versante della società e del socio, che si verificherebbe, in un regime di tal fatta, nel caso in cui alla società fosse concesso di portare in deduzione il costo del finanziamento per competenza e di non subire alcuna tassazione a seguito della rinuncia e correlativamente anche il socio non subisse alcuna tassazione, pur beneficiando dell’incremento di valore fiscale della propria partecipazione.
6.3. La descritta fictio iuris per rimediare al salto di imposta, trovava la sua ragion d’essere nel testo previgente dell’art. 55 (or 88), comma 4, t.u.i.r. – prima delle modifiche apportate con il D.Lgs. n. 147 del 2015 – che escludeva dalla nozione di sopravvenienze attive, fiscalmente rilevanti, tutte le rinunce dei soci ai crediti vantati nei confronti della società, sia di natura finanziaria che commerciale, indipendentemente dalla loro proporzionalità.
A prescindere, pertanto, dal dibattito sull’attribuzione alla rinuncia di una valenza reddituale o patrimoniale, la norma richiamata ne sanciva espressamente l’irrilevanza, ai fini della formazione del reddito; detto regime era giustificato – in questo senso si esprimevano le circolari 41/E del 5 aprile 2001 e 152/E del 22 maggio 2002 – dall’interesse del socio alle vicende della società partecipata che induceva a valutare la rinuncia al credito, non alla stregua di un atto di liberalità o della rimessione del debito da parte di un terzo, ma come espressione della volontà di patrimonializzare la società.
Va aggiunto che l’art. 55 cit. non prevedeva un limite alla detassazione della sopravvenienza realizzatasi attraverso la rinuncia del socio che, pertanto, avveniva in ragione del valore nominale del credito estinto, a prescindere dal valore fiscale del credito in capo al socio.
Dal lato del creditore operavano, armonicamente l’art. 94, comma 6, e art. 101, comma 7, t.u.i.r., sempre ante riforma, che escludevano gli effetti reddituali della rinuncia anche per il creditore.
6.4. L’Assetto normativo sopra descritto è mutato in virtù delle modifiche apportate dal D.Lgs. n. 147 del 2015, art. 13.
Con la modifica, il trattamento della rinuncia del socio non trova più collocazione nell’art. 88, comma 4, t.u.i.r., ma nel successivo comma 4-bis il quale prevede, nel testo applicabile alla fattispecie, che la rinuncia dei soci ai crediti si considera sopravvenienza attiva solo per la parte che eccede il relativo valore fiscale. Inoltre, il nuovo testo impone al socio di comunicare il valore del credito alla partecipata mediante apposita dichiarazione sostitutiva di atto notorio; in assenza di comunicazione, il valore assunto è pari a zero, con conseguente tassazione dell’intera rinuncia, fiscalmente qualificata come sopravvenienza attiva.
Correlativamente, l’art. 94, comma 6, e art. 101, comma 7, t.u.i.r. hanno previsto, sul versante del socio, che l’ammontare della rinuncia al credito che si aggiunge al costo della partecipazione è nei limiti del valore fiscale del credito oggetto di rinuncia; che la rinuncia non è ammessa in deduzione e che il relativo ammontare si aggiunge al costo della partecipazione sempre nei limiti del valore fiscalmente riconosciuto del credito.
Il nuovo regime, pertanto, ha posto in correlazione il valore fiscale del credito oggetto di rinuncia e la detassazione.
A seguito della rinuncia, il socio aumenta il costo della partecipazione solo nei limiti del valore fiscale del credito e la società beneficia di una sopravvenienza non tassabile solo nei limiti di detto valore.
Accade, pertanto, che la rinuncia di un credito avente valore fiscale pari a zero, come per i crediti legati ad un reddito tassato per cassa, non incrementa il valore fiscale della partecipazione, diversamente da quanto prospettato nel precedente regime sia dalla Agenzia delle Entrate che da questa Corte a sostegno della teoria dell’incasso giuridico. Di contro, detta rinuncia comporta la tassazione integrale della sopravvenienza attiva in capo alla società partecipata.
Le asimmetrie cui la regola dell’incasso giuridico intendeva porre rimedio sono state, pertanto, risolte dal legislatore mutando la disciplina dell’art. 88 t.u.i.r. sul versante della società partecipata e degli artt. 94 e 101 sul versante del socio creditore.
6.5. Può affermarsi, pertanto, il seguente principio di diritto: “In tema di imposte sui redditi di capitale – in ragione di quanto previsto dall’art. 88, comma 4-bis, art. 94, comma 6, art. 101, comma 5, t.u.i.r. a seguito delle modifiche di cui alla L. 14 settembre 2015, n. 147, art. 13 – la rinuncia, operata da un socio nei confronti della società, al credito avente ad oggetto interessi maturati su finanziamenti erogati nei confronti di una società partecipata, non comporta l’obbligo di sottoporne a tassazione il relativo ammontare, con applicazione, ai sensi del D.P.R. n. 600 del 1973, art. 26, comma 5, della ritenuta fiscale, cui la società è tenuta quale sostituto d’imposta, avendo le nuove disposizioni rimediato all’asimmetria fiscale o “salto d’imposta” di cui al precedente regime”.
6.6. La C.t.r. non si è attenuta a questi principi in quanto ha recepito la tesi dell’incasso giuridico sebbene la fattispecie in esame si collocasse nel regime fiscale di cui alle modifiche apportate dal D.Lgs. n. 147 del 2015, art. 13.
- In conclusione, il ricorso va accolto e la sentenza impugnata va cassata. Non essendovi ulteriori accertamenti di fatto, la causa può essere decisa nel merito, ex art. 384 c.p.c., accogliendo l’originario ricorso del contribuente.
- Le spese dell’intero giudizio restano compensate in ragione della novità delle questioni trattate.
P.Q.M.
La Corte accoglie il ricorso nei termini di cui in motivazione; cassa la sentenza impugnata e, decidendo la causa nel merito, accoglie l’originario ricorso della società contribuente. Dichiara compensate tra le parti le spese dell’intero giudizio.
Così deciso in Roma, il 28 marzo 2023.
Depositato in Cancelleria il 12 giugno 2023