201910.30
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Cass., sez. III pen, 30 ottobre 2019, n. 44293 (testo)

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 18 giugno – 30 ottobre 2019, n. 44293
Presidente Izzo – Relatore Liberati

Ritenuto in fatto

1. Con sentenza del 11 gennaio 2019 la Corte d’appello di Firenze, provvedendo sulla impugnazione proposta dall’imputato nei confronti della sentenza del 16 settembre 2015 del Tribunale di Firenze, con cui L.G. era stato dichiarato responsabile del reato di cui al D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 ter (per avere, quale amministratore della S.r.l. P. e L. , omesso di versare alla scadenza del 27 dicembre 2012 l’imposta sul valore aggiunto relativa al periodo d’imposta 2011, pari a Euro 290.438,00), ha ridotto la pena inflitta all’imputato a quattro mesi di reclusione, considerando quale base di computo il minimo edittale di sei mesi di reclusione, e ha confermato nel resto la sentenza impugnata, così respingendo gli altri motivi di appello.
È stata, in particolare, ritenuta non fondata la tesi della insussistenza dell’elemento psicologico, in considerazione della volontarietà della scelta dell’imputato di proseguire l’attività d’impresa pur in presenza dell’andamento negativo della stessa manifestatosi sin dal 2008, che avrebbe imposto la cessazione di tale attività, con la conseguente insufficienza delle iniziative adottate tardivamente dall’amministratore per fare fronte a tale situazione di crisi (un finanziamento a favore della società nel luglio 2012, la riduzione del personale e la alienazione di parte del patrimonio immobiliare), che non avevano consentito nè di superare tale stato di crisi, nè di provvedere al pagamento dell’imposta dovuta. È stata, poi, in considerazione dell’ammontare dell’imposta non versata, esclusa l’esiguità del danno e, con essa, l’applicabilità della causa di non punibilità di cui all’art. 131 bis c.p., richiesta dall’imputato con il secondo motivo di appello.
2. Avverso tale sentenza l’imputato ha proposto ricorso per cassazione, affidato a due motivi.
2.1. Con un primo motivo ha lamentato l’errata applicazione del D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 ter e artt. 40, 42, 43, e 45 c.p., l’insufficienza e l’illogicità della motivazione e la violazione e l’errata applicazione anche degli artt. 125 e 546 c.p.p., per la mancata, o comunque insufficiente, considerazione della crisi che aveva colpito l’impresa amministrata dal ricorrente e anche dei finanziamenti eseguiti dallo stesso amministratore per ricapitalizzarla e far fronte a tale crisi, allo scopo di superarla, con la conseguente illogicità della motivazione, quanto meno nella parte relativa alla affermazione della sussistenza dell’elemento psicologico del reato.
Ha esposto che la S.r.l. P. e L. amministrata dal ricorrente, fondata nel 1958 e avente quale oggetto la lavorazione di metalli preziosi, era stata posta in liquidazione con delibera del 28 giugno 2013 e, dopo essere stata ammessa al concordato preventivo, era stata dichiarata fallita il 14 luglio 2014, a causa, come accertato dal curatore fallimentare, della crisi del settore di mercato in cui tale società operava e della sua struttura aziendale sovradimensionata, oltre che onerosa e rigida. Per fare fronte a tale situazione di difficoltà l’amministratore aveva a più riprese finanziato con risorse proprie la società (depositando titoli a favore della società per complessivi Euro 100.000,00 il 4 aprile e il 3 maggio 2012 e versamento la somma di Euro 350.000,00 il 30 luglio 2012 allo scopo di consentire il pagamento delle ritenute di acconto sui compensi corrisposti a dipendenti e collaboratori) e aveva cercato di ridurre i costi di lavoro e di gestione del complesso immobiliare di proprietà della società, ponendo in vendita una parte dello stabilimento industriale di proprietà della società.
Tali elementi non erano, però, stati correttamente considerati dalla Corte d’appello, che aveva erroneamente affermato la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato contestato pur ritenendo l’omissione dovuta solamente a una scelta imprenditoriale errata, quindi a una condotta colposa, neppure sufficientemente illustrata, essendo solamente stato affermato, in modo generico e indeterminato, che l’amministratore avrebbe dovuto adottare scelte gestionali più traumatiche rispetto a quelle in concreto poste in essere, peraltro volte a salvaguardare la sopravvivenza dell’impresa, nella convinzione di riuscire a onorare anche il debito tributario. Risultava, dunque, erronea l’affermazione della configurabilità dell’elemento soggettivo del reato, in quanto fondata esclusivamente su un generico addebito di colpa, privo anche della indicazione della condotta doverosa omessa, avendo la Corte d’appello affermato solamente che l’amministratore avrebbe dovuto adottare scelte gestionali più traumatiche, senza indicarne il momento e il contenuto, con la conseguente insufficienza della motivazione su tale punto.
2.2. Con un secondo motivo ha lamentato la violazione e l’errata applicazione dell’art. 131 bis c.p., ulteriore carenza, contraddittorietà e illogicità della motivazione, nonché violazione degli artt. 125 e 546 c.p.p., con riferimento alla esclusione della configurabilità della causa di non punibilità della condotta per la particolare tenuità del fatto, nonostante l’indicata attivazione dell’amministratore per far fronte a detta crisi finanziaria dell’impresa, considerata sia dal Tribunale sia dalla Corte d’appello nella determinazione del trattamento sanzionatorio, con la conseguente contraddittorietà della motivazione nella parte relativa alla esclusione della configurabilità di detta causa di non punibilità.

Considerato in diritto

1. Il ricorso, peraltro largamente riproduttivo del primo e del secondo motivo d’appello, non è fondato.
2. Il primo motivo, mediante il quale è stata lamentata l’errata applicazione di norme sostanziali e processuali e l’insufficienza della motivazione, nella parte relativa alla affermazione della volontarietà della omissione del pagamento dell’imposta sul valore aggiunto dovuta per l’anno 2011 dall’impresa amministrata dall’imputato, nonostante l’attivazione dell’imputato medesimo, mediante l’immissione di risorse proprie nel patrimonio aziendale e il tentativo di ridurre i costi di gestione dell’impresa da lui amministrata, allo scopo di ovviare allo stato di crisi in cui la stessa era venuta a trovarsi, non è fondato.
Giova rammentare che il D.Lgs. n. 74 del 2000, art. 10 ter (omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto) prevede come reato il fatto di chi non versa l’imposta sul valore aggiunto, dovuta in base alla dichiarazione annuale, entro il termine per il versamento dell’acconto relativo al periodo di imposta successivo. Il reato si consuma nel momento in cui scade il termine previsto dalla legge per il versamento dell’acconto relativo al periodo di imposta successivo (Sez. U., n. 37424 del 28/03/2103, Romano, Rv. 25575); ciò che rileva è, quindi, l’indicazione nella dichiarazione di un debito d’imposta e l’inadempimento alla conseguente e corrispondente obbligazione di pagamento, rimanendo prive di rilievo, ai fini della configurabilità del reato e del superamento della soglia di punibilità, sia l’effettiva riscossione delle somme-corrispettivo relative alle prestazioni effettuate (tranne i casi di applicabilità del regime di “Iva per cassa”, cfr. Sez. 3, n. 6220 del 23/01/2018, Ventura, Rv. 272069; Sez. 3, n. 19099 del 06/03/2013, Di Vora, Rv. 255327), sia la condotta successiva dell’obbligato, stante la natura del reato, che è omissivo proprio a consumazione istantanea (v. Sez. 3, n. 8521 del 21/09/2018, dep. 27/02/2019, Pistilli, Rv. 275010; Sez. 3, n. 8352 del 24/06/2014, Schirosi, Rv. 263126).
Quanto all’elemento soggettivo e alla punibilità va ricordato il consolidato orientamento interpretativo di questa Corte in proposito, secondo cui, al fine della dimostrazione della assoluta impossibilità di provvedere ai pagamenti omessi, occorre l’allegazione e la prova della non addebitabilità all’imputato della crisi economica che ha investito l’impresa e della impossibilità di fronteggiare la crisi di liquidità che ne sia conseguita tramite il ricorso a misure idonee da valutarsi in concreto (cfr. Sez. 3, n. 20266 del 08/04/2014, Zanchi, Rv. 259190; Sez. 3, n. 8352 del 24/06/2014, Schirosi, Rv. 263128; Sez. 3, n. 43599 del 09/09/2015, Mondini, Rv. 265262).
Per escludere la volontarietà della condotta è, dunque, necessaria la dimostrazione della riconducibilità dell’inadempimento alla obbligazione verso l’Erario a fatti non imputabili all’imprenditore, che non abbia potuto tempestivamente porvi rimedio per cause indipendenti dalla sua volontà e che sfuggono al suo dominio finalistico (Sez. 3, n. 8352 del 24/06/2014, Schirosi, Rv. 263128; conf. Sez. 3, n. 15416 del 08/01/2014, Tonti Sauro; Sez. 3, n. 5467 del 05/12/2013, Mercutello, Rv. 258055; Sez. 3, 9 ottobre 2013, n. 5905/2014).
Ora, nel caso in esame, la Corte territoriale non ha affatto ribadito la affermazione di responsabilità dell’imputato per l’omesso versamento dell’imposta sul valore aggiunto dovuta dall’impresa dallo stesso amministrata sulla base di un comportamento negligente o imprudente, che non sarebbe neppure stato adeguatamente illustrato dai giudici del merito, non essendo stata indicata la diversa condotta che l’imputato avrebbe dovuto tenere per far fronte alla crisi che aveva colpito detta impresa (dovuta alla crisi dello specifico settore merceologico degli oggetti in argento nel quale la stessa operava da lungo tempo), ma desumendo la volontarietà dell’omesso versamento in questione dalla scelta di proseguire l’attività di impresa nonostante tale situazione di crisi, che si era manifestata sin dal 2008, scelta nella quale era insita l’accettazione del rischio di non poter onorare alla scadenza il debito tributario nonostante le iniziative adottate per far fronte a tale stato di crisi.
La Corte d’appello ha sottolineato sia la risalenza nel tempo di tale stato di difficoltà, evidenziando che già nel 2008 le perdite erano evidenti e che nel bilancio 2010 era emerso il consolidamento di un pluriennale andamento negativo, che avrebbe dovuto indurre l’amministratore a proporre lo scioglimento della società anziché la prosecuzione della attività d’impresa; sia l’insufficienza e la tardività delle iniziative adottate per fronteggiare tale situazione, che avrebbe richiesto, secondo la valutazione dei giudici di merito, non riesaminabile in questa sede e peraltro neppure specificamente censurata, iniziative più radicali e tempestive rispetto a quelle adottate dall’imputato. Sono state, così, giudicate ininfluenti, sul piano della configurabilità dell’elemento soggettivo, le iniziative in concreto adottate dall’imputato, consistenti, peraltro, solamente nel versamento della somma di Euro 350.000,00, tra l’altro allo scopo di consentire il pagamento delle ritenute fiscali operate sulle retribuzioni dei dipendenti, essendo solamente state avviate iniziative per ridurre i costi del personale e alienare parte del patrimonio immobiliare della società, in considerazione della loro tardività e della loro inadeguatezza a consentire alla società di superare tale stato di crisi, concludendo per la piena volontarietà della omissione oggetto della contestazione, in quanto frutto della scelta deliberata di proseguire nella attività di impresa, con l’assunzione dei corrispondenti obblighi tributari, oltre che di tutti gli altri oneri connessi alla gestione della società, nonostante tale stato di crisi e la tardività e la insufficienza delle iniziative adottate dall’imputato.
Si tratta di motivazione idonea a illustrare le ragioni della affermazione della sussistenza dell’elemento soggettivo del reato contestato, essendo stati indicati gli elementi sulla base dei quali i giudici di merito hanno ritenuto, con giudizio non sindacabile in sede di legittimità sul piano delle valutazioni di merito, in quanto non manifestamente illogico, che l’imputato, nell’adottare la decisione di proseguire l’attività d’impresa nonostante l’evidente e consolidato stato di crisi della società, abbia accettato il rischio di non essere in grado alla scadenza di versare l’imposta sul valore aggiunto dovuta, scegliendo egualmente di proseguire l’attività e adottando solo tardivamente e in modo insufficiente iniziative per fronteggiare tale situazione: è stata, dunque, correttamente affermata la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato contestato, non essendo riconducibile l’omissione contestata a fattori esterni all’imputato o da lui non governabili, ma a una scelta compiuta nella piena consapevolezza dello stato di crisi dell’impresa e della sua possibile irreversibilità, o comunque della sua possibile permanenza, in misura tale da impedire alla scadenza il versamento dell’imposta dovuta.
Ne consegue, in definitiva, l’infondatezza della censura, essendo correttamente stata affermata la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato contestato, affermazione di cui è stata fornita spiegazione con motivazione idonea e non manifestamente illogica.
3. Del pari infondato risulta il secondo motivo di ricorso, mediante il quale sono stati lamentati la violazione e l’errata applicazione dell’art. 131 bis c.p. e ulteriori vizi della motivazione, che sarebbe carente e contraddittoria nella parte relativa alla esclusione della configurabilità della causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto, cui la Corte territoriale sarebbe pervenuta omettendo di considerare la modestia del superamento della soglia di rilevanza penale e anche le ragioni che avevano determinato la scelta dell’imputato di proseguire l’attività d’impresa, che invece erano state positivamente valutate sia dal Tribunale sia dalla Corte d’appello nella determinazione del trattamento sanzionatorio.
Benché, infatti, non possa ritenersi preclusa la possibilità di affermare la particolare tenuità del fatto anche in relazione a ipotesi criminose, quale quella in esame, per le quali il legislatore ha espressamente individuato una soglia di punibilità, in quanto il superamento della soglia di punibilità del fatto integra il livello minimo di disvalore penalmente rilevante della fattispecie, al di sotto del quale la valutazione di indifferenza penale dell’episodio è stata compiuta dal legislatore una volta per tutte sulla base di fattori obbiettivi ed astratti, i quali hanno una correlazione solo esteriore e formale con la fattispecie concreta e in ordine ai quali il compito del giudice è di mero accertamento, senza apprezzabili margini di discrezionalità valutativa, della sovrapponibilità della fattispecie concreta con quella astratta, tuttavia ai fini della applicabilità di detta causa di esclusione della punibilità occorre comunque valutare se, pur essendo stata superata la soglia di rilevanza penale, la ipotesi in giudizio, valutata in funzione dei caratteri riconducibili alle tre categorie di indicatori specificamente segnalate dal legislatore (modalità della condotta, esiguità del danno e del pericolo da essa derivante, grado della colpevolezza), abbia quei requisiti di minima offensività che giustificano la deroga alla applicazione della sanzione penale (Sez. U, n. 13681 del 25/02/2016, Tushaj, Rv. 266590; conf. Sez. 6, n. 55107 del 08/11/2018, Milone, Rv. 274647; Sez. 3, n. 58442 del 02/10/2018, Colzani, Rv. 275458).
Con specifico riferimento alla ipotesi in cui la soglia di punibilità sia rappresentata dall’ammontare dell’importo della omissione tributaria, l’orientamento interpretativo di questa Corte si è indirizzato nel senso che la causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto sia applicabile solo nel caso in cui si tratti di omissioni relative a un ammontare vicinissimo alla soglia di punibilità, a esso di pochissimo superiore (Sez. 3, n. 40774 del 05/05/2015, Falconeri, Rv. 265079; Sez. 3, n. 13218 del 20/11/2015, dep. 01/04/2016, Reggiani Viani, Rv. 266570; Sez. 3, n. 58442 del 02/10/2018, Colzani, Rv. 275458; Sez. 3, n. 15020 del 22/01/2019, M.).
Nel caso in esame la Corte d’appello di Firenze ha ritenuto che l’entità del superamento della soglia di rilevanza penale, pari a Euro 40.438,00, essendo di complessivi Euro 290.438,00 l’ammontare dell’imposta non versata, non consentisse di considerare esiguo il danno provocato dalla condotta dell’imputato e ha pertanto escluso la configurabilità di detta causa di non punibilità: si tratta di motivazione idonea, essendo stata indicata la ragione per la quale il danno non è stato considerato esiguo, non manifestamente illogica, essendo pari a circa il 16% della soglia l’entità del suo superamento, dunque non di pochissimo superiore alla soglia di punibilità, come richiesto dalla giurisprudenza di questa Corte, e immune dalle contraddizioni lamentate dal ricorrente, posto che i motivi determinanti la scelta imprenditoriale dell’imputato, considerati ai fini della determinazione del trattamento sanzionatorio, non incidono sulla entità del danno, cosicché non vi è alcuna contraddizione logica tra la loro considerazione ai fini della determinazione della pena e l’affermazione della non esiguità del danno provocato dalla condotta incriminata.
Anche il secondo motivo di ricorso deve, dunque, essere ritenuto infondato.
4. Il ricorso in esame deve, in conclusione, essere respinto, stante l’infondatezza di entrambi i motivi cui è stato affidato.
Al rigetto del ricorso consegue l’onere delle spese del procedimento.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.