Cass., sez. VI civ., 7 maggio 2019, n. 11900 (testo)
Corte di Cassazione, sez. VI Civile – 3, sentenza 8 novembre 2018 – 7 maggio 2019, n. 11900
Presidente Frasca – Relatore D’Arrigo
Ritenuto
F.A. propose opposizione avverso l’esecuzione immobiliare intrapresa ai suoi danni dall’agente di riscossione Equitalia Polis s.p.a., oggi Equitalia Sud s.p.a., eccependo l’irregolarità delle notificazioni delle cartelle, l’avvenuta prescrizione del diritto, la non debenza di alcune somme richieste e l’irregolarità dell’intera procedura esecutiva.
Il Giudice dell’Esecuzione del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, disattesa l’istanza di sospensione della vendita, assegnò all’opponente un termine perentorio per riassumere il giudizio di merito innanzi allo stesso giudice per i crediti di natura tributaria, davanti alla Sezione lavoro del medesimo Tribunale per i debiti verso gli enti previdenziali ed innanzi al giudice di pace per quelli relativi alle contravvenzioni al codice della strada.
Riassunto il giudizio innanzi al Tribunale, questi dichiarò inammissibile l’opposizione e infondata la domanda di risarcimento del danno, condannando l’opponente alle spese di lite.
Il F. appellò tale decisione e, nel contraddittorio con l’agente di riscossione, la Corte d’appello di Napoli respinse il gravame, condannando l’appellante alle ulteriori spese di lite.
Avverso tale decisione il F. ha proposto ricorso per cassazione articolato in cinque motivi. L’intimata non ha svolto attività difensiva. Il consigliere relatore, ritenuta la sussistenza dei presupposti di cui all’art. 380-bis c.p.c., (come modificato dal comma 1, lett. e), del D.L. 31 agosto 2016, n. 168, art. 1-bis, conv. con modif. dalla L. 25 ottobre 2016, n. 197), ha formulato proposta di trattazione del ricorso in camera di consiglio non partecipata.
Il F. ha depositato memorie difensive.
Considerato
1. Con il primo motivo si deduce la violazione dell’art. 616 c.p.c..
La censura concerne il capo della sentenza d’appello che ha ritenuto inammissibile l’impugnazione proposta relativamente ai motivi di opposizione che il giudice di primo grado aveva espressamente qualificato come agli atti esecutivi ex art. 617 c.p.c.; ciò in base al principio dell’apparenza, secondo cui, quando il giudice di merito procede alla qualificazione della domanda, l’impugnazione deve essere proposta mediante lo strumento proprio della domanda così come qualificata nel provvedimento impugnato, anche ove tale qualificazione non sia condivisa dall’impugnante.
A parere del ricorrente, nel fare applicazione di tale principio la Corte d’appello avrebbe omesso di considerare che parte dell’opposizione era stata proposta, invece, ai sensi dell’art. 615 c.p.c., e perciò, quantomeno con riferimento a tali doglianze, lo strumento impugnatorio corretto era quello dell’appello, anziché del ricorso straordinario per cassazione.
Il motivo è inammissibile.
Infatti, la Corte d’appello – diversamente da come opina il ricorrente – si è fatta carico di operare tale distinzione, dichiarando inammissibile l’impugnazione limitatamente ai motivi di opposizione agli atti esecutivi ed esaminando nel merito le doglianze qualificabili ex art. 615 c.p.c..
Al contempo, il F. ha omesso di indicare, con il dovuto tasso di specificità richiesto dall’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6, quali fossero i motivi posti a fondamento dell’originaria opposizione e quali fra questi siano stati qualificati dal giudice di primo grado come ascrivibili all’ipotesi prevista dall’art. 617 c.p.c.. A causa di tale omissione, questa Corte non è stata posta nelle condizioni di verificare la correttezza e l’esaustività della distinzione attuata dalla Corte d’appello).
2.1 Con il secondo motivo si deduce la falsa applicazione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 57, del D.Lgs. n. 46 del 1999, e del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 2. La censura si rivolge contro la sentenza impugnata nella parte in cui ha ritenuto “inammissibile nelle forme dell’opposizione all’esecuzione” l’eccezione di prescrizione del credito tributario, in quanto la relativa questione, concernente la pretesa tributaria siccome espressa nelle cartelle di pagamento, doveva farsi valere davanti alla giurisdizione tributaria. Sostiene, invece, il ricorrente che la giurisdizione tributaria si arresta innanzi alla materia delle opposizioni all’esecuzione e agli atti esecutivi, riservata al giudice ordinario.
Con il quarto motivo si prospetta la violazione o falsa applicazione del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 2 e 19.
Le due censure – che possono essere esaminate congiuntamente in quanto strettamente connesse – sono infondate.
2.2 La questione della interazione fra i rimedi impugnatori appartenenti alla giurisdizione tributaria e quelli esperibili innanzi al giudice ordinario in funzione di giudice dell’esecuzione è stata recentemente esaminata dalla Corte costituzionale, che – com’è noto – con la sentenza n. 114 del 2018, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 57, comma 1, lett. a), (Disposizioni sulla riscossione delle imposte sul reddito) e successive modificazioni, nella parte in cui non prevede che, nelle controversie che riguardano gli atti dell’esecuzione forzata tributaria successivi alla notifica della cartella di pagamento o all’avviso di cui al D.P.R. n. 602 del 1973, art. 50, sono ammesse le opposizioni regolate dall’art. 615 c.p.c..
Il Giudice delle leggi, in particolare, ha chiarito che la disposizione del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 57, comma 1, lett. a), esprime due distinte regole, una sola delle quali genera un vuoto di tutela giurisdizionale e presenta profili di illegittimità costituzionale.
Occorre infatti considerare che il D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 2, demanda alla giurisdizione tributaria le contestazioni del titolo (normalmente, la cartella di pagamento) su cui si fonda la riscossione esattoriale. Pertanto, il contribuente che intenda contestare il titolo della riscossione coattiva, deve rivolgersi al giudice tributario mediante ricorso D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 19, (che può essere proposto avverso “il ruolo e la cartella di pagamento”).
Saldando questa previsione a quella di cui al D.P.R. 29 settembre 1973, n. 602, art. 57, comma 1, lett. a), – che pone il divieto di proporre opposizione all’esecuzione per contestare il diritto dell’amministrazione finanziaria o dell’agente della riscossione di procedere in executivis – si ottiene che, in tutti i casi in cui è esperibile il primo strumento di tutela, lo sbarramento alla proponibilità dell’opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c., non genera un vuoto di tutela del contribuente, ma è volto solamente ad evitare una tutela giurisdizionale concorrente. Dunque, precisa la Corte costituzionale, “l’opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c., – che non è soggetta a termine di decadenza – in tanto non è ammissibile, come prescrive l’art. 57 citato, in quanto non ha, e non può avere, una funzione recuperatoria di un ricorso del D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 19, non proposto affatto o non proposto nel prescritto termine di decadenza”.
Sulla base di tali premesse, l’art. 57 cit. è stato dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui impedisce al contribuente assoggettato ad esecuzione forzata tributaria di ottenere tutela (innanzi al giudice ordinario in funzione di giudice dell’esecuzione) per ragioni che, essendo relative ad atti della procedura successivi alla notifica della cartella di pagamento o all’avviso di cui al medesimo D.P.R. n. 602 del 1973, art. 50, non possono essere fatte valere innanzi alla giurisdizione tributaria con ricorso D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 19.
2.3 Tale ricostruzione del sistema di tutela giurisdizionale del contribuente esecutato reca come corollario quello della inammissibilità delle opposizioni ex art. 615 c.p.c., che abbiano funzione “recuperatoria” di doglianze che potevano – e dovevano – farsi valere innanzi al giudice tributario D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 19. Là dove il contribuente esecutato possa far valere le proprie ragioni ricorrendo, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, innanzi al giudice tributario, non vi è spazio per proporre, per le medesime ragioni, l’opposizione ex art. 615 c.p.c.
Le Sezioni unite hanno già chiarito, in tema di sanzioni amministrative per violazione del codice della strada, che l’opposizione con la quale si deduce che la cartella di pagamento costituisce il primo atto con il quale la parte è venuta a conoscenza della sanzione irrogata (risultando omessa o comunque nulla la notificazione del verbale di accertamento della violazione) deve essere proposta, ai sensi del D.Lgs. n. 150 del 2011, art. 7, entro trenta giorni dalla notificazione della cartella stessa e non nelle forme dell’opposizione all’esecuzione ex art. 615 c.p.c., (Sez. U, Sentenza n. 22080 del 22/09/2017, Rv. 645323 – 01).
Al contempo, le Sezioni unite hanno pure precisato che l’opposizione agli atti esecutivi avverso l’atto di pignoramento posto in essere dall’agente di riscossione, con la quale se ne deduca il vizio per omessa o invalida notificazione della cartella di pagamento o di altro atto prodromico, va proposta – ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 2, comma 1, e art. 19, del D.P.R. n. 602 del 1973, art. 57, e dell’art. 617 c.p.c., – davanti al giudice tributario, in quanto essa si risolve nell’impugnazione del primo atto in cui si manifesta al contribuente la volontà di procedere alla riscossione di un ben individuato credito tributario (Sez. U, Sentenza n. 13913 del 05/06/2017, Rv. 644556 – 01).
Dunque, il principio ripetutamente affermato da questa Corte (v., da ultimo, anche Sez. U, Ordinanza n. 17126 del 28/06/2018, Rv. 649625 – 01) è che le opposizioni c.d. “recuperatorie”, ossia con le quali si fa valere una ragione che non è stato possibile dedurre in precedenza a causa dell’omessa conoscenza legale dell’atto prodromico, vanno proposte nel rispetto dei termini previsti per l’impugnazione di quell’atto e innanzi al giudice che ne avrebbe avuto la giurisdizione in caso di tempestivo esperimento del rimedio.
Tale principio va tenuto fermo anche dopo la sentenza della Corte Cost. n. 114 del 2018, la quale, nel dichiarare costituzionalmente illegittimo il D.P.R. n. 602 del 1973, art. 57, ha espressamente chiarito che, comunque, non vi è spazio per un’opposizione ex art. 615 c.p.c., laddove era possibile la tutela giurisdizionale innanzi al giudice tributario ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, art. 19, e che la pronuncia di incostituzionalità non dà luogo ad una giurisdizione concorrente.
Dinanzi al giudice dell’esecuzione, pertanto, non possono essere dedotti motivi che dovevano farsi valere, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 2 e 19, con ricorso alla giurisdizione tributaria, neppure quando il contribuente non abbia avuto conoscenza dell’atto prodromico da impugnare. In tal caso, infatti, l’impugnazione, ancorché tardiva, si deve comunque proporre al giudice tributario nei termini previsti dal rito.
In conclusione, va affermato il seguente principio di diritto:
“In materia di esecuzione forzata per la riscossione di entrate di natura tributaria, anche dopo la sentenza della Corte Cost. n. 114 del 2018, che ha dichiarato costituzionalmente illegittimo il D.P.R. n. 602 del 1973, art. 57, nella parte in cui esclude l’ammissibilità dell’opposizione regolata dall’art. 615 c.p.c., in relazione agli atti della procedura successivi alla notifica della cartella o dell’avviso di pagamento, le opposizioni c.d. “recuperatorie”, ossia con le quali l’opponente intenda contestare il diritto dell’ente impositore o dell’agente di riscossione di agire in executivis per ragioni riferibili agli atti prodromici, di cui egli non abbia avuto conoscenza per omessa o viziata notificazione, devono proporsi, ai sensi del D.Lgs. n. 546 del 1992, artt. 2 e 19, innanzi al giudice tributario nel termine di rito ivi previsto”.
2.4 In applicazione di tale principio, il motivo in esame è infondato. La doglianza del F. si incentra sulla decisione impugnata nella parte in cui ha ritenuto inammissibile l’opposizione all’esecuzione volta a dedurre la prescrizione del credito tributario, in quanto tale vicenda estintiva doveva essere fatta valere mediante ricorso al giudice tributario.
La decisione si sottrae alle censure prospettate. Infatti, quand’anche il contribuente non avesse avuto l’occasione di ricorrere tempestivamente del D.Lgs. n. 546 del 1992, ex art. 19, avverso uno degli atti prodromici perché non gli fu notificato, ed anzi dipendendo il maturare della prescrizione proprio dalla nullità o inesistenza di tale notificazione, sarebbe stato comunque suo onere adire la giustizia tributaria nelle forme di rito, a decorrere dal primo atto esecutivo, per far rilevare in quella sede – e non davanti al giudice dell’esecuzione l’intervenuta estinzione del credito erariale.
Pertanto, correttamente la Corte d’appello ha dichiarato l’inammissibilità dell’opposizione in parte qua.
Nè, d’altronde, risulta che la prescrizione di che trattasi fosse maturata solo dopo la notifica delle cartelle di pagamento. Il ricorrente, infatti, ha omesso di indicare in modo specifico quali fossero le ragioni dell’opposizione e quest’ultima eventualità appare oltremodo improbabile, anche in considerazione del fatto che secondo la prospettazione del F. – quelle notificazioni non si erano mai perfezionate. Sicché delle due l’una: o il motivo è inammissibile per difetto di specificità, ai sensi dell’art. 366 c.p.c., comma 1, n. 6; oppure è infondato per le ragioni sopra esposte.
3. Con il terzo motivo si denuncia, ai sensi dell’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, l’omessa o insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio. In realtà, il ricorrente si lamenta della circostanza che la Corte d’appello “ha del tutto omesso di motivare il perché non si applica la normativa richiamata nell’appello e, nemmeno ha motivato il perché si applicherebbero le norme richiamate nella sentenza impugnata”.
Il motivo è inammissibile.
L’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, riformulato dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, art. 54, conv. in L. 7 agosto 2012, n. 134, ha introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia). Ne consegue che resta esclusa la rilevanza di ogni carenza di motivazione che non sia talmente radicale da collocarsi sotto il “minimo costituzionale” imposto dall’art. 111 Cost., comma 6, e, per il processo civile, dall’art. 134 c.p.c., comma 2, n. 4, (Sez. U, Sentenza n. 8053 del 07/04/2014, Rv. 629831 – 01).
Il F. , invece, si duole di una generica insufficienza dell’apparato motivazionale della sentenza impugnata, dal che discente l’inammissibilità del motivo.
4. Analoghe considerazioni valgono pure per il quinto motivo, con il quale il F. si duole della circostanza che la Corte d’appello “contraddicendosi e con una motivazione alquanto carente” avrebbe errato nell’affermare la giurisdizione delle commissioni tributarie. Anche in questo caso non viene dedotto – ai sensi del novellato art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, – un fatto storico, principale o secondario, da cui dipende l’esito della lite, bensì la mera insufficienza della motivazione, ovvero un vizio non più incluso fra i motivi di ricorso per cassazione.
5. Con il sesto motivo si denuncia nuovamente l’omessa o insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio. La censura riguarda il capo della decisione impugnata che ha ritenuto inammissibile l’appello relativo al rigetto della domanda di risarcimento del danno, perché non contenente alcuna prospettazione atta a superare le conclusioni cui era pervenuto il giudice di primo grado. Il ricorrente, al riguardo, sostiene invece di aver fornito ampia prova del danno subito dalla espropriazione illegittima.
Il motivo è inammissibile.
Esso risulta erroneamente prospettato. Il F. , semmai, avrebbe dovuto denunciare la violazione della legge sostanziale o processuale, anziché richiamare il vizio previsto dall’art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, peraltro nella versione non più vigente.
Peraltro, anche se si procedesse alla riqualificazione del vizio dedotto, l’esito dello scrutinio non muterebbe. Infatti, all’esito degli altri motivi, si consolida la decisione della corte di merito relativa all’inammissibilità delle ragioni dell’opposizione proposta dal F. . Dal che deriva l’insussistenza di comportamento antigiuridico dell’agente di riscossione da cui possa discendere un obbligo risarcitorio. La questione del rilevato difetto di prova diventa conseguentemente irrilevante.
6. In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.
Non si fa luogo alla liquidazione delle spese del giudizio di legittimità, in quanto la parte intimata non hanno svolto attività difensiva.
Ricorrono invece i presupposti per l’applicazione del D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1-quater, inserito dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17, sicché va disposto il versamento, da parte dell’impugnante soccombente, di un ulteriore importo, a titolo di contributo unificato, pari a quello già dovuto per l’impugnazione da lui proposta.
P.Q.M.
rigetta il ricorso.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, inserito dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis.