201809.07
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Cass., sez. trib., 7 settembre 2018 (ord.), n. 21786 (testo)

REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TRIBUTARIA

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. VIRGILIO Biagio – Presidente –
Dott. GRECO Antonio – rel. Consigliere –
Dott. MONTAGNI Andrea – Consigliere –
Dott. SABATO Raffaele – Consigliere –
Dott. LA TORRE Maria Enza – Consigliere –
ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 23696-2013 proposto da:
O.C., domiciliata in ROMA PIAZZA CAVOUR presso la cancelleria della CORTE DI CASSAZIONE, rappresentata e difesa dall’Avvocato CARLO BOSTICCO;
– ricorrente –

contro

AGENZIA DELLE ENTRATE DIREZIONE PROVINCIALE II DI TORINO, in persona del Direttore pro tempore, elettivamente domiciliato in ROMA VIA DEI PORTOGHESI 12, presso l’AVVOCATURA GENERALE DELLO STATO, che lo rappresenta e difende;
– controricorrente –
avverso la sentenza n. 12/2013 della COMM.TRIB.REG. del Piemonte, depositata il 21/02/2013;
udita la relazione della causa svolta nella camera di consiglio del 07/07/2017 dal Consigliere Dott. ANTONIO GRECO.

FATTI DI CAUSA
O.C. propone ricorso per cassazione con tre motivi, illustrati con successiva memoria, nei confronti della sentenza della Commissione
tributaria regionale del Piemonte che, accogliendo l’appello dell’Agenzia delle entrate, ha confermato la fondatezza dell’avviso di accertamento, ai fini dell’IRPEF, dell’IRAP e dell’IVA per l’anno 2001, con il quale, a seguito del controllo della dichiarazione della contribuente, titolare di un’impresa artigianale di assemblaggio di componenti elettrici su circuiti stampati, rilevata una incongruenza tra ricavi dichiarati e quelli determinati in applicazione dei 4 parametri di cui ai D.P.C.M. 29 gennaio 1996 e D.P.C.M. 27 marzo 1997, previsti dalla L. 28 dicembre 1995, n. 549, art. 3, commi 181 e 184, ed esperito senza esito positivo il contraddittorio, ai fini dell’accertamento con adesione, venivano accertati maggiori ricavi per lire 38.861.000 a fronte dei ricavi dichiarati pari a lire 371.784.000.
L’Agenzia delle entrate resiste con controricorso.

RAGIONI DELLA DECISIONE
La contribuente, denunciando cumulativamente “la violazione o falsa applicazione delle norme di diritto. Omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione circa un fatto decisivo in violazione dell’art. 132 c.p.c., n. 4, artt. 161 e 162 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3 e n. 5”, con un primo motivo, assumendo che ogni accertamento presuntivo non possa avere una valenza superiore alle prove offerte dal contribuente, sostiene di aver portato a dimostrazione della correttezza fiscale e della non applicabilità dei parametri, già in sede di contraddittorio, prove e circostanze di fatto che enumera, dolendosi che nessuna adeguata motivazione dell’atto impositivo sia stata proposta dall’ufficio, limitatosi ad un conteggio matematico dei parametri. Sostiene essere a carico dell’ufficio l’onere di provare le ragioni per cui i parametri debbano essere applicati in sostituzione di una corretta tenuta contabile; con un secondo motivo assume che l’applicazione dei parametri quali conteggi matematici per la determinazione del reddito è una forma di inversione dell’onere della prova giustificato e legittimato solamente allorquando non sussistano chiarimenti forniti dal contribuente: l’ufficio non potrebbe sovvertire l’onere della prova senza precisa e puntuale motivazione; con un terzo motivo assume che il giudizio d’appello – nel quale era risultata soccombente – non sarebbe una semplice e diversa riformulazione di un ragionamento sull’oggetto del
contendere: qualora infatti il giudice d’appello ritenga errata la decisione del primo giudice, deve puntualmente e precisamente individuare dove la sentenza impugnata risulta errata, laddove nella specie l’ufficio ha appellato semplicemente sostenendo la validità dei maggiori ricavi contestati determinandoli sulla base del conteggio matematico determinato dai parametri.
I motivi di ricorso, da trattare congiuntamente in quanto strettamente legati, sono infondati.
Secondo l’insegnamento del Giudice della nomofilachia, “la procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è “ex lege” determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli “standards” in sè considerati – meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività – ma nasce solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento, con il contribuente. In tale sede, quest’ultimo ha l’onere di provare, senza limitazione alcuna di mezzi e di contenuto, la sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui possono essere applicati gli “standards” o la specifica realtà dell’attività economica nel periodo di tempo in esame, mentre la motivazione dell’atto di accertamento non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell’applicabilità in concreto dello “standard” prescelto e con le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente. L’esito del contraddittorio, tuttavia, non condiziona l’impugnabilità dell’accertamento, potendo il giudice tributario liberamente valutare tanto l’applicabilità degli “standards” al caso concreto, da dimostrarsi dall’ente impositore, quanto la controprova offerta dal contribuente che, al riguardo, non è vincolato alle eccezioni sollevate nella fase del procedimento amministrativo e dispone della più ampia facoltà, incluso il ricorso a presunzioni semplici, anche se non abbia risposto all’invito al contraddittorio in sede amministrativa, restando inerte. In tal caso, però, egli assume le conseguenze di questo suo comportamento, in quanto l’Ufficio può motivare l’accertamento sulla sola base dell’applicazione degli “standards”, dando conto dell’impossibilità di costituire il contraddittorio con il contribuente, nonostante il rituale invito, ed il giudice può valutare, nel quadro probatorio, la mancata risposta all’invito” (Cass. sezioni unite, 18 luglio 2009, n. 26635, Cass. n. 11633 del 2013).
Questa Corte ha in particolare chiarito come nella fase del contraddittorio il contribuente abbia “la facoltà di contestare l’applicazione dei parametri provando le circostanze concrete che giustificano lo scostamento della propria posizione reddituale, con ciò costringendo l’ufficio – ove non ritenga attendibili le allegazioni di parte – ad integrare la motivazione dell’atto impositivo indicando le ragioni del suo convincimento” (Cass. n. 21754 del 2017, n. 17646 del 2014).
Osserva in proposito il Collegio che nel caso in esame il giudice d’appello ha ampiamente e congruamente motivato sulla risposta dell’ufficio alle osservazioni della contribuente (alle pagine 5 e 6 della sentenza impugnata).
La contribuente aveva infatti giustificato i minori ricavi con la natura di apprendisti dei dipendenti, corsi di formazione, assenze per malattia e maternità, assenza della titolare per impegni familiari, oltre alla presenza di un cliente maggioritario (85%) e al recente avvio dell’attività (1997) con conseguente incidenza dell’acquisizione dei beni strumentali.
“Ma già in fase di contraddittorio – si legge nella sentenza impugnata – l’ufficio ha però opposto agli argomenti sollevati osservazioni che
sostanzialmente si possono così riassumere:

  • le incidenze negative relative al personale non sono supportate da valida documentazione e in ogni caso la metodologia accertativa utilizzata ha tenuto conto della tipologia del personale, dell’addestramento e delle assenze per malattia, il cui costo è stato debitamente considerato nel determinare il costo complessivo netto del personale;
  • i prezzi di acquisto dei beni strumentali sono stati presi in considerazione e in ogni caso rientrano nella libera trattativa delle parti;
  • la presenza di un cliente maggioritario non giustifica in ogni caso il fatto che il margine operativo lordo dichiarato (23,04%) sia inferiore a quello minimo previsto dal settore (23,47% – 98,04%);
  • le assenze della titolare per i problemi indicati (educazione della figlia) giustificano una riduzione di impegno, ma non la prolungata mancanza di gestione sostenuta dalla contribuente. In ogni caso, rilevato che parte del personale era costituito da parenti dell’interessata, è ragionevole supporre che il legame di fiducia esistente consentisse una regolare gestione dell’attività di impresa, indipendentemente dalla sua presenza”.

La Commissione regionale rileva ancora che l’ufficio ha evidenziato come lo scostamento non sia un fatto episodico, ma prolungato dal 2001 al 2004, e quindi non giustificabile se non con indebita detrazione alla base imponibile.
Il ricorso va pertanto rigettato.
Le spese del giudizio seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, va dato atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso.
Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio, liquidate in Euro 2.500 oltre alle spese prenotate a debito.
Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.

Così deciso in Roma, il 7 luglio 2017.
Depositato in Cancelleria il 7 settembre 2018