201804.05
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Corte di Cassazione, sez. III pen., 5 aprile 2018, n. 15133 (testo)

Corte di Cassazione, sez. III Penale, sentenza 17 novembre 2017 – 5 aprile 2018, n. 15133
Presidente Ramazzi – Relatore Aceto

Ritenuto in fatto

1. Il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Palermo ricorre per l’annullamento dell’ordinanza dell’11/07/2017 del Tribunale del riesame che ha annullato il provvedimento del 06/06/2017 del Giudice per le indagini preliminari di quello stesso tribunale che, sulla ritenuta sussistenza indiziaria del reato di cui all’art. 11 d.lgs. n. 74 del 2000, aveva ordinato il sequestro preventivo dell’immobile, sito in (omissis) , venduto dalla società “General Work Service S.r.l.” a S.G. , fratello del legale rappresentante, al prezzo concordato di 10.000,00 Euro, inferiore a quello stimato come congruo oscillante tra 33.000,00 e 44.000,00 Euro.
1.1.Con unico motivo eccepisce, ai sensi dell’art. 606, lett. b), cod. proc. pen., l’erronea applicazione dell’art. 11 d.lgs. n. 74 del 2000.
Deduce, al riguardo, che il Tribunale ha confuso la cd. soglia di punibilità, relativa all’imposta evasa, con il profitto del reato che corrisponde, nel caso di specie, alla differenza tra il valore del bene e l’importo effettivamente corrisposto.

Considerato in diritto

2. Il ricorso è fondato.
3. Con ordinanza del 06/06/2017, il G.i.p. del Tribunale di Palermo, decidendo conformemente alla richiesta del pubblico ministero, aveva ordinato, tra l’altro, il sequestro preventivo di un immobile di proprietà della società “General Work Service S.r.l.” venduta a S.G. , fratello del legale rappresentante della società, ad un prezzo ritenuto inferiore a quello ritenuto congruo. La contestazione provvisoria ipotizza che la vendita era stata effettuata al fine di eludere il pagamento delle imposte sui redditi o sul valore aggiunto, ovvero di interessi o sanzioni amministrative relative a dette imposte per un valore complessivo di duecentomila Euro. Secondo il Tribunale, avuto riguardo alla “ratio” e al bene protetto dalla norma (il corretto funzionamento della procedura esecutiva), poiché “la norma richiede (…) come elemento costitutivo della fattispecie, l’idoneità dell’operazione (simulata o fraudolenta) a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva, la concreta pericolosità della condotta dipenderà anche dalla quantità (e dal controvalore) dei beni sui quali si compie l’azione. In sostanza, la cd. soglia (di punibilità) rappresenta l’ammontare del debito tributario che il soggetto agente si propone di non adempiere, tramite la condotta tipizzata, sottraendosi alla procedura esecutiva per una somma (minima) pari a tale entità. In altre parole e per essere ancora più espliciti e chiari, la soglia concreta rappresenta il presumibile danno patito dall’Erario a seguito delle manovre fraudolente del soggetto agente, ossia il valore che potrebbe recuperare, a seguito della procedura di riscossione coattiva, da quei beni che l’agente ha alienato simulatamente, o mediante atti fraudolenti, ha comunque voluto sottrarre alla pretesa fiscale. In definitiva, l’oggettività del reato comporta l’esistenza do un debito tributario che superi i cinquantamila Euro e, contestualmente, che i beni sottratti siano superiori alla stessa cifra e possano compromettere la riscossione per un importo superiore alla cifra medesima, mentre il dolo presuppone l’esistenza (e la rappresentazione) di un debito tributario che superi i cinquantamila Euro e, contestualmente, la consapevolezza che i beni sottratti presumibilmente siano superiori alla stessa cifra e possano compromettere la riscossione per un importo superiore alla cifra medesima”. Ne consegue – conclude il Tribunale – che poiché il valore stimato dell’immobile alienato simulatamente non è superiore a 50.000,00 Euro, “l’operazione in contestazione non può compromettere la riscossione tributaria per un importo superiore o pari alla cifra costituente la soglia indicata dall’art. 11, in esame”.
3.1. Il Procuratore della Repubblica contesta siffatta interpretazione dell’art. 11 d.lgs. n. 74 del 2000 ed eccepisce che, in realtà, il legislatore non ha indicato alcuna soglia per il profitto perseguito dall’autore del reato mediante la condotta tipica, rilevando anche l’inefficacia parziale della procedura di riscossione.
4. Il ricorso è fondato.
5. L’art. 11, comma 1, d.lgs. n. 74 del 2000 recita: “È punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni chiunque, al fine di sottrarsi al pagamento di imposte sui redditi o sul valore aggiunto ovvero di interessi o sanzioni amministrative relativi a dette imposte di ammontare complessivo superiore ad Euro cinquantamila, aliena simulatamente o compie altri atti fraudolenti sui propri o su altrui beni idonei a rendere in tutto o in parte inefficace la procedura di riscossione coattiva. Se l’ammontare delle imposte, sanzioni ed interessi è superiore ad Euro duecentomila si applica la reclusione da un anno a sei anni”.
5.1. Come già affermato da questa Corte, “l’intero d.lgs. n. 74 del 2000 codifica condotte ciascuna potenzialmente idonea a ledere, da angolazioni diverse, il medesimo ed unico bene giuridico, individuato, come detto, nel dovere di concorrere alle spese pubbliche (e di garantire, conseguentemente, il flusso di beni necessario a farvi fronte). A tal fine il legislatore ha selezionato le fasi dell’obbligazione tributaria, dalla genesi alla sua esecuzione, ritenute essenziali al suo corretto adempimento individuandole nell’obbligo (strumentale al corretto adempimento dell’obbligazione tributaria) di dichiarare i fatti costitutivi dell’obbligazione e il suo oggetto e di farlo in modo corrispondente al vero, nell’obbligo di adempiere all’obbligazione tributaria nei tempi e modi previsti, nella necessità (strumentale) di documentare fedelmente le operazioni fiscalmente rilevanti che incidono sull’an e sul quantum dell’obbligazione tributaria stessa e nel dovere di conservare tale documentazione, nella necessità di preservare la riscossione del credito erariale da attività volte a depauperare in modo fraudolento la garanzia costituita dal patrimonio del debitore. L’art. 11, comma 1, d.lgs. n. 74 del 2000 si ascrive a quest’ultima fase della vita dell’obbligazione tributaria. Attraverso l’incriminazione della condotta da esso prevista il legislatore ha inteso evitare che il contribuente si sottragga al suo dovere di concorrere alle spese pubbliche creando una situazione di apparenza tale da consentirgli di rimanere nel possesso dei propri beni fraudolentemente sottratti alle ragioni dell’Erario (cfr., sul punto, Sez. 3, n. 36290 del 18/05/2011, Cualbu, Rv. 251077, secondo cui l’oggetto giuridico del reato di sottrazione fraudolenta al pagamento di imposte non è il diritto di credito del fisco, bensì la garanzia generica data dai beni dell’obbligato, potendo quindi il reato configurarsi anche qualora, dopo il compimento degli atti fraudolenti, avvenga comunque il pagamento dell’imposta e dei relativi accessori). L’antecedente storico immediato e diretto della norma in questione è costituito dall’art. 97, d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602 che, come sostituito dall’art. 15, legge 30 dicembre 1991, n. 413, così recitava: “Il contribuente che, al fine di sottrarsi al pagamento delle imposte, interessi, soprattasse e pene pecuniarie dovuti, ha compiuto, dopo che sono iniziati accessi, ispezioni e verifiche o sono stati notificati gli inviti e le richieste previsti dalle singole leggi di imposta ovvero sono stati notificati atti di accertamento o iscrizioni a ruolo, atti fraudolenti sui propri o su altrui beni che hanno reso in tutto o in parte inefficace la relativa esecuzione esattoriale, è punito con la reclusione fino a tre anni. La disposizione non si applica se l’ammontare delle somme non corrisposte non è superiore a lire 10 milioni”. La diversità strutturale delle due fattispecie, sin da subito segnalata da questa Corte (Sez. 3, n. 17071 del 04/04/2006, De Nicolo, Rv. 234322), è evidente: scompare, nella nuova, ogni riferimento alla necessità dell’effettivo avvio di un qualsiasi accertamento fiscale e non è più conseguentemente richiesto che l’azione comprometta effettivamente l’esecuzione esattoriale, essendo sufficiente che sia idonea a renderla inefficace (sulla conseguente natura di reato di pericolo concreto la giurisprudenza di questa Corte è ormai consolidata; cfr., da ultimo, Sez. 3, n. 35853 del 11/05/2016, Calvi, Rv. 267648, che ha affermato che il delitto in questione è reato di pericolo, integrato dall’uso di atti simulati o fraudolenti per occultare i propri o altrui beni, idonei a pregiudicare – secondo un giudizio “ex ante” – l’attività recuperatoria della amministrazione finanziaria; nonché, Sez. 3, n. 13233 del 24/02/2016, Pass, Rv. 266771, con richiami ai numerosi precedenti conformi); fa ingresso, nella fattispecie, la condotta di “alienazione simulata”, che costituisce modalità alternativa al compimento di atti fraudolenti sui propri o altrui beni” (così, in motivazione, Sez. 3, n. 3011 del 05/07/2016, Di Tullio).
5.2. Del resto, sulla natura di reato di pericolo del reato in questione, questa Corte non ha mai nutrito dubbi (oltre Sez. 3, n. 35853 del 2016, cit., cfr. anche Sez. 3, n. 23986 del 05/05/2011, Pascone, Rv. 250646; Sez. 3, n. 40561 del 04/04/2012, Soldera, Rv. 253400) e proprio per questa ragione non possono essere condivise le conseguenze che il Tribunale trae dalla previsione della cd. “soglia di punibilità”. Il fatto che il legislatore ha inteso selezionare, ai fini penalistici, solo le condotte che pongono in pericolo la riscossione di imposte (ovvero sanzioni e interessi ad essi relativi) complessivamente superiori all’ammontare di 50.000,00 Euro, non autorizza l’interpretazione secondo la quale anche il valore del bene simulatamente alienato deve essere superiore a detto ammontare. È il dato testuale che priva di fondamento tale tesi: la possibilità che la procedura di riscossione possa essere anche “solo in parte” pregiudicata dalla condotta fraudolenta comporta necessariamente che il valore del bene possa essere inferiore al credito erariale agito, e poiché la “soglia di punibilità” riguarda il credito e non il bene, è arbitrario ritenere che il suo superamento costituisca predicato di entrambi. Il credito erariale, insomma, deve poter essere riscosso nella sua interezza. L’interpretazione fornita dal tribunale (che non pare avere precedenti nemmeno nella giurisprudenza di merito, certamente non in quella di legittimità) porterebbe alla creazione di un’inammissibile zona franca costituita dalla differenza tra l’importo complessivo del debito erariale e la “soglia di punibilità”, così che il contribuente sarebbe sostanzialmente legittimato a diminuire la garanzia del debito erariale (e dunque la sua possibilità di recupero per intero) con alienazioni simulate penalmente indifferenti se il valore dei beni sottratti è ogni volta inferiore a 50.000,00 Euro. Conseguenza ancora più assurda se, ipotizzando, un credito di imposta pari a 50.100,00 Euro, la sottrazione di beni di valore complessivo pari a 49.000,00 Euro sarebbe penalmente irrilevante benché idonea a pregiudicare la riscossione del credito nella sua interezza e certamente a pregiudicarla in parte.
5.3. Quel che conta, in ultima analisi, è che la condotta sia davvero idonea a frustrare il diritto di credito erariale e che dunque incida sul patrimonio del debitore in modo da ridurne in modo effettivo la consistenza, svuotandolo della funzione di garanzia cui esso assolve (sulla valutazione di sufficienza della consistenza del patrimonio del contribuente in rapporto alla pretesa dell’Erario, quale parametro al quale ancorare il giudizio di idoneità “ex ante” della condotta, cfr. Sez. 3, n. 13233 del 24/02/2016, Pass, Rv. 266771; cfr. altresì Sez. 3, n. 6798 del 16/12/2015, dep. 2016, Arosio, Rv. 266771). Restando al caso di specie, è evidente che la sottrazione di beni per un valore oscillante tra 44.000,00 e 33.000,00 Euro è idonea a pregiudicare, anche solo in parte, la procedura di riscossione del maggior credito erariale superiore a 200.000,00 Euro. Quel che il Tribunale avrebbe dovuto indagare (restando sul piano della offensività) è se il patrimonio residuo del simulato alienante è capiente rispetto alla procedura esecutiva ed arrestare qui la sua indagine sulla concreta idoneità della condotta.
5.4. Deve perciò essere affermato il seguente principio di diritto: “In tema di reati tributari, il valore dei beni sottratti fraudolentemente al pagamento delle imposte può essere inferiore all’ammontare di 50.000,00 Euro previsto dall’art. 11, d.lgs. n. 74 del 2000 come elemento costitutivo del reato. L’offensività della condotta va parametrata esclusivamente in base alla sua attitudine a ridurre o eliminare la garanzia patrimoniale, secondo un giudizio ex ante”.
5.5. Ne consegue che l’ordinanza impugnata deve essere annullata con rinvio al Tribunale di Palermo per nuovo esame.

P.Q.M.

Annulla l’ordinanza impugnata con rinvio al Tribunale di Palermo per nuovo esame.